il gioco dei quindici

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Il mercato è saturo in ogni suo anfratto e il problema degli eccessi produttivi si scontra anche con la riduzione forzata del modello di consumo ai tempi della crisi, laddove un ridimensionamento potrebbe invece essere invocato in forma di autodisciplina del consumatore. La sfida alla sopravvivenza, che si protrae comunque di gara in gara ed è il segnale che là sotto fortunatamente c’è ancora qualche organismo vivente imprenditoriale, fino ad oggi è stata vinta da chi è riuscito a creare intelligentemente i bisogni, prima ancora di immetterne l’antidoto sul mercato sotto forma di prodotto consolatorio, IVA esclusa. Mi viene in mente, come esempio più eclatante, la maestria di Apple nell’essersi reinventata cose che esistevano già, imbellettarle per i dì di festa (leggi perfezionarle e aggiornarle) e sbaragliare i competitor o fare piazza pulita di prodotti borderline, concentrando in un unico dispositivo tecnologie che prima svolgevano anche funzioni collaterali, convincendo il mercato della superfluità di tutto il resto. Ora che anche i bisogni sono agli sgoccioli, erosi da necessità di sempre più basso livello a fianco delle quali il valore esorbitante di accessori extra assume un carattere di oggettiva oscenità, e non a caso è proprio l’osceno a regolamentare alcuni aspetti della contemporaneità primo fra tutti le scelte di acquisto, e i sogni si infrangono intorno al quindici di ogni mese scoperti oramai da buste paga inadeguate per non dire giocattolo, si tratta di fare breccia nell’individuo attraverso canali innovativi tutti da inventare. Buon lavoro, ci viene da dire. Il guaio è che i nostri difetti, nostri nel senso di noi che stiamo dall’altra parte del bancone nel negozio in fila per pagare, si fanno largo nell’anima stessa delle aziende, perché i ruoli chiave e i posti di chi prende le decisioni ma anche degli addetti alla produzione stessi sono occupati da individui che mangiano le stesse cose e respirano la stessa aria quindi non possono che fare sempre peggio, e alla fine il corto circuito è inevitabile, fa scoppiare tutto, lascia terra bruciata intorno. Non c’è più posto, mi spiace, siete arrivati tardi.

questione di genere

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Tenete conto che mentre impazzava il grunge, noi addetti alle macchine elettroniche dotate di tasti bianchi e neri eravamo i meno richiesti, anzi sembrava che nessuno sentisse la nostra mancanza. Giusto qualche esagitato metallaro con tendenze industrial o i punk dal rumorismo incontrollato ci consentivano di amplificare sampler e tastiere. I primi solamente se in grado di riprodurre trapani, trivelle e noise delle peggiori nefandezze, i secondi solo se intercettati da un distorsore. Un gran bordello insomma. Così, dalla nostra lontana colonia di esilio, salutammo con un anelito di speranza l’uscita di Blue Lines dei Massive Attack, ancora molto acerbo e troppo in anticipo sui tempi tanto da essere considerato né più né meno di un album di pop dance raffinato. Unfinished Sympathy, pensata per i club, passava alla grande in discoteca, non in tutte, ma la voce soul e il loop breakbeat non sembravano certo il primo passo verso uno dei generi più caratterizzanti degli anni 90 passato alla storia come trip hop, di cui di questi tempi si celebra il ventennale. Da Bristol questo mix di un po’ di tutto si svilupperà in molteplici sottogeneri ed evoluzioni, si unirà ad altri sound, percorrerà strade e spopolerà ovunque. Lo troveremo dall’India al Brasile, dal Belgio al Canada sino all’Africa e all’Italia, addirittura cantato in dialetto. Insomma, per chiudere come farebbe un vero giornalista musicale, venti anni e non li dimostra. Lunga vita al trip hop, abbiamo detto qualche anno dopo quanto è stato coniato il termine. Oggettivamente, noi addetti alle macchine non ci siamo mai divertiti così tanto.

ops, volevo dire:

tutto io

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Il mio istinto sarebbe quello di coprirmi le orecchie a intermittenza e lasciar defluire il tuo fiume di inutilità cantando una canzoncina come fanno gli adulti che imitano i bambini, ma la costanza con cui cerco di far prevalere la componente razionale di me, che mi vuole accondiscendente e benevolo verso il prossimo, in un’ottica commerciale s’intende, è mirata solo all’obiettivo di trovare un punto per fare breccia nel tuo egocentrismo e colpirti con una domanda, una di quelle a cui non sei più abituato almeno da quando eserciti immeritatamente il tuo potere. Solo una domanda, che agirà come un cavallo di Troia nel tuo essere egoriferito separandosi in particelle programmate per diffondersi come un virus informatico a tutti i livelli, decine centinaia e migliaia di stralci di codice che ti indurranno a cercare una risposta che non troverai da nessuna parte. Non nella tua memoria, che ha conservato solo le informazioni in uscita. Non nelle tue mani, abituate a stringere nodi di cravatta allo specchio. Non nel resto del tuo corpo, allenatissimo a muoversi innaturalmente sotto macchine da palestra sovraccariche di pesi. Così, esaurito il tempo regolamentare per elaborare una reazione verbale degna di te e di tutto quello che rappresenti, che non arriverà mai, tutte le particelle si ricomporranno al centro della tua scatola cranica tutt’altro che irsuta come componenti tecnologici di un robot in un cartone giapponese. A quel punto si attiverà una forza centripeta tale da indurre la parte superiore del tuo corpo, quella che dovrebbe essere stata progettata per guidare il resto, a un fenomeno raccapricciante di implosione degno di un b-movie splatter, dal quale si librerà nell’aria una nube di vapore a forma di punto interrogativo, quello che avresti potuto mettere al termine di una banalissima richiesta di chiarimento anziché cercare, come sempre, la soluzione nelle tue sovrumane capacità professionali.

dolce casa

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Abbiamo bevuto un cappuccino in fretta, il bar della stazione di servizio è come al solito preso d’assalto dalle comitive di turisti provenienti dall’est, né mia moglie ne io siamo degli esempi di tolleranza alle resse, ormai siamo persone di una certa età. Abbiamo tentennato sino all’ultimo per decidere se fosse meglio affrontare il viaggio in automobile o utilizzare il treno. Io preferisco il treno, in genere, perché ormai guidare mi stressa soprattutto per i viaggi lunghi, anche solo di un paio d’ore, quando oltre la distanza subentra la fatica di stare seduto, tenere le mani al volante a lungo. Mia moglie invece preferisce l’auto, e alla fine mi convinco anche io a patto che ci si fermi a metà strada, un minimo di ristoro, una visita in bagno. Poi però la fretta di arrivare prevale sempre, e la sosta dura sempre una manciata di minuti, la consumazione al bar che è sempre tiepida, il clamore e il fastidio degli entusiasmi delle trasferte altrui o di chi viaggia per lavoro e non sa di che parlare se non delle cose che vendono gli autogrill e non si vedono altrove.

L’idea era venuta a me, ma si trattava di un’esperienza che avevo pianificato da tempo. Ci avevo pensato la prima volta a venticinque anni o giù di lì, quando rientrando a casa – la casa in cui avevo vissuto fino a qualche mese prima – avevo notato nell’androne del condominio i pezzi smontati del vecchio letto matrimoniale e dell’armadio della camera dei miei genitori, quella che da sempre era rimasta al suo posto e la cui presenza davo per scontato. Ma dopo che li avevo lasciati, avevano pensato a dotarsi di qualche comodità in più a rinnovare un po’ l’ambiente in cui vivevano, in concomitanza con i vuoti affettivi che si erano creati, a partire da una nuova camera da letto. Io me l’ero presa con la loro fretta di fare piazza pulita del passato, non capivo che urgenza ci fosse, anzi la capivo ma era come se si disfacessero di qualcosa che era anche mio anche se ora non ero più fisicamente lì a controllare ogni giorno che tutto fosse al suo posto. E avevo anche fantasticato su come sarebbe stato recarmi in visita in quell’appartamento da vecchio, quando i miei non ci sarebbero stati più, e quelle stanze sarebbero state affittate da chissà chi. Lo considerai un impegno, e decisi di non rimuovere mai più quel proponimento.

La seconda volta ci avevo pensato una mattina d’inverno, sul treno che mi stava portando in ufficio, provato da un riscaldamento irrazionale e tutto preso da un libro di DeLillo. Una ragazza, al telefono, stava raccontando a un’amica di aver stretto amicizia per caso, mentre era in fila per rinnovare l’abbonamento, con un’anziana signora che ora abitava il vecchio stabile in cui sua mamma era nata e cresciuta. Si meravigliava per la coincidenza e non vedeva l’ora di metterle in contatto per consentire alla madre una visita ai luoghi natii. Ricordo che avevo interrotto la lettura, cosa che sul treno mi capitava spesso, non è facile concentrarsi tra tutte quelle comunicazioni personali. Avevo riflettuto sulle possibilità che la madre non avesse granché desiderio di ritornare nelle stanze della sua infanzia, magari aveva subito maltrattamenti, era cresciuta nella miseria, oppure semplicemente come difesa dall’essere sommersa dalla commozione, a una certa età fa male. Poi però ricordo di aver ricondotto quella conversazione a quell’altro episodio precedente, quella sorta di promessa che mi ero fatto. Quindi mi ero segnato tutto sul taccuino, quello che portavo sempre con me per appuntarmi le cose che vedevo e i passaggi più toccanti dei romanzi che divoravo, e addirittura ne scrissi un post, ai tempi tenevo un blog come quasi tutti quelli che conoscevo che facevano il mio mestiere.

Penso alla chiusura del cerchio, la resa dei conti, mentre risaliamo nell’abitacolo della vettura. Mia moglie ed io ci avviamo così per l’ultimo tratto del viaggio, che poi è la parte più bella perché sbuchi fuori dall’appennino e a un certo punto vedi il mare, che è quello che mia moglie preferisce prima del pezzo finale che, non ho mai capito perché, ritiene sia il più faticoso, malgrado siano una manciata di chilometri. Forse si riferisce alle curve, o a quel punto si ha solo voglia di arrivare e non ti passa più. Ci scambiamo impressioni sul fatto che ormai nostra figlia è distante, ha la sua vita, e trovare il tempo per organizzare questa gita di cui so già che mi pentirò non è stato difficile. Ha giocato a mio favore l’aver rintracciato facilmente i nuovi inquilini, la famiglia del figlio di un mio vecchio amico, i quali si sono prestati senza problemi ad accontentare un anziano milanese in pensione.

La città è sempre la stessa, è sempre stata la stessa e ce lo dicevamo sempre quando trascorrevamo i fine settimana in visita qui, e io le raccontavo di come fosse sempre stata uguale, che non ci sarebbe stata mai nessuna possibilità, e chissà come sarà ora. Mentre parcheggio l’automobile, lei mi ricorda di comprare un po’ di focaccia come eravamo soliti fare, anche se adesso so già che mi risulta pesante, non è che digerisca l’olio così facilmente. Il portone è diverso da come ce lo ricordavamo, non c’è nemmeno più la farmacia a fianco, dopo le liberalizzazioni del 2012 probabilmente non ha retto alla concorrenza, in un città già economicamente dimessa. Cerco il numero corrispondente al nome sul citofono, suono, e mentre aspetto una risposta mi stringo a lei, e le dico troppo tardi che mi sto commuovendo, che fa male a una certa età, e che forse è meglio tornare indietro.

uno speciale riconoscimento

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Ed eccoti lì, sei proprio tu. Sbuchi dal nulla che poi è tutto quello che c’è intorno al momento ripreso dalla telecamera ma che non esiste per chi sta guardando e non si trovava in quel posto, entri in campo da destra quando il cantante sul palco incita il pubblico ad avvicinarsi, avanti c’è spazio, venite ad agitarvi qua sotto. Così, malato di divertimento com’eri, non te lo fai ripetere due volte. Tu e i tuoi amici vi ammassate davanti al gruppo che suona e inizi a muoverti in un modo che non saprei riprodurre nemmeno assistito da un coreografo, la giacca di pelle nera e la pettinatura di un’altra epoca.

E già l’aver ritrovato quella registrazione digitalizzata da una vhs chissà da chi e caricata su youtube è stata una bella sopresa, miracolosa come qualsiasi coincidenza di quelle che solo Internet consente. Persone che casualmente si trovano in un posto muniti di telecamera o macchina fotografica, immortalano qualcosa, per esempio una festa in una piazza con un gruppo locale che suona, e poi venti anni dopo, probabilmente decisi a gettare il loro archivio fisico di reportage audiovisivo, digitalizzano tutto e decidono di farlo addirittura in rete, nemmeno su supporti personali.

Dall’altra parte della storia, qualcuno fa una ricerca sui motori con parole chiave improbabili il cui esito mostra una thumbnail in cui c’è qualcosa di familiare. Ma sì, non proprio loro, la band di cui stavo cercando notizie, chissà se addirittura quella sera c’ero anche io tra il pubblico. Così ecco la sensazione di meraviglia nel ritrovarsi all’improvviso da un’altra dimensione, in una sequenza di frame di cui si ignorava l’esistenza. Situazioni rimosse dalla memoria, riprese in cui non si è protagonisti nelle quali anzi si svolge il ruolo di comparsa casuale, un punto indefinito dello sfondo, un elemento di passaggio al quale può fare caso solo il diretto interessato. Ma a malapena.

È infatti in occasione di quell’incontro insperato con il proprio sé animato di decenni prima in cui ci si chiede quale sia l’elemento che rende così difficile riconoscere sé stessi in istantanee o filmati di cui si ignora l’esistenza. Cosa ci fa lì quella persona che sono io? La scena dura una manciata di secondi, il tempo di dare qualche spallata ai vicini di pogo, qualche salto sulle file davanti, e poi il cameraman zooma sulla corista in minigonna, ben più degna di essere ripresa da una posizione così bassa rispetto al palco.

pagherete tutto

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Marco e Stefania – due nomi di fantasia – abitano nel mio stesso quartiere, li conosco per via della scuola, la loro primogenita è stata compagna al nido di mia figlia. Marco fa l’artigiano in proprio, lavori di edilizia di interni come pavimenti e pareti, Stefania per lo più è casalinga e accudisce i tre figli anche se prima di avere il terzo ha ottenuto qualche lavoretto a tempo determinato part time. Marco e Stefania non sono sposati, la scelta dello stato civile dipende ufficialmente dalla loro visione della famiglia, in realtà dalla loro visione dello stare al mondo.

Marco infatti mantiene tutt’ora la propria residenza nella casa in cui ha vissuto prima di incontrare Stefania, un appartamento di edilizia popolare concesso ad un affitto più che irrisorio. Stefania così risulta a tutti gli effetti una ragazza madre, ottenendo benefici sul mantenimento dei figli, sulla loro istruzione, sulla sanità e sui servizi pubblici in genere che altrimenti, visto il reddito del marito, reddito effettivo e non dichiarato, dovrebbe pagare. In questo anonimato civico la sua quota è invece redistribuita sulle nostre tasse. Inutile entrare nei dettagli del reddito di Marco, il quale lavora senza interruzione vista la proliferazione di richieste di interventi di ristrutturazione di interni, ma, almeno fino ad oggi, rigorosamente in nero, consentendo a sé alla sua famiglia un tenore di vita al riparo da problemi. Non si fanno mancare nulla, insomma. Quindi oltre il danno, l’evasione totale recidiva, anche la beffa, contribuenti irregolari che sottraggono risorse alla collettività non avendone diritto.

Ora, a proposito degli efficaci controlli a tappeto incrociati tra Guardia di Finanza, Ispettorato del lavoro e Inps sui commercianti, le comunità come la nostra, quella composta da soggetti fisici involontariamente trasparenti al fisco, attendono un analogo intervento altrettanto efficace nei confronti dell’altra comunità, quella dei soggetti giuridici volontariamente usi al sommerso. Considerando infatti il settore in cui opera Marco, la percentuale di operatori nella mia rete di conoscenze che non si fa scrupolo di danneggiare lo Stato e, di conseguenza, me, credo sia vicina al 100%. E, in tutta onestà, non saprei dirvi se provo maggiore fastidio per i grandi evasori, quelli dei capitali in Svizzera o delle Isole Cayman, o per Marco e Stefania e gli amici loro che dal basso, come un fenomeno carsico, sono stati tra le principali cause dello sgretolamento della stabilità stessa della convivenza civile, facendo venir meno la principale piattaforma su cui essa si appoggia. Sempre che lo si possa dimostare.

bravo bravissimo

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I partecipanti avevano a disposizione una delle aule della scuola dotate di pianoforte, stanze allestite in numero sufficiente rispetto all’affluenza ma che comunque non si potevano occupare a lungo per assicurare la possibilità a tutti di ripassare i brani prima dell’esibizione decisiva. Il concorso pianistico tuttavia non era organizzato al meglio. La suddivisione in categorie a seconda dell’anno di nascita, nemmeno si trattasse di una gara d’atletica, generava classi di iscritti con disparità tecniche interne mostruose. Per esempio, a undici anni uno poteva essere al suo quinto anno di studi e portare pezzi quasi da Conservatorio, e gareggiare con altri concorrenti sullo strumento solo da tre, pianisti alle prime armi che avrebbero presentato pezzi facili eseguendoli correttamente ma con difficoltà di ben altro livello. Il vizio di fondo era che nessun insegnante di pianoforte avrebbe spinto un suo alunno portato per la musica ma ancora agli esordi a lanciarsi in una avventura del genere conoscendo perfettamente lo spirito che avvicina genitori e parenti a un concorso a premi, in cui l’importante non è certo partecipare. Nessun insegnante di piano tranne uno.

La motivazione un po’ stramba ma per certi aspetti fondata era quella di abituare il giovane alunno a esibirsi in pubblico, un’esperienza propedeutica ad affrontare esami con commissioni sconosciute, per esempio al Conservatorio. Ma una competizione tra piccoli fenomeni pari ad alcune trasmissioni televisive poi venute in auge in seguito non sembrava essere la via più utile allo svezzamento proprio al diretto interessato, quell’undicenne in questione ora seduto tra il pubblico per lo più composto da genitori e concorrenti nella sala da concerti, l’aula magna della scuola scelta come location della gara.

Si stava accorgendo che c’era qualcosa che non andava, comparando mentalmente le tre facciate di sonatina facile il cui spartito fotocopiato teneva in mano con i virtusismi dei suoi coetanei che si alternavano sul pianoforte a mezzacoda posto sul palco, perpendicolare alla giuria. Improvvisi di Schubert, Bagatelle di Beethoven, Debussy e addirittura Chopin. Il suo pezzo di un noto clavicembalista italiano, anche se eseguito alla perfezione, sarebbe stato comunque fuori luogo.

Lo incuriosiva però la presenza di ragazzi provenienti da tutte le regioni d’Italia vestiti con cravattini e mini-abiti da sera, alieni che stavano invadendo il suo mondo fatto di pochi metri quadri di appartamento a popolare finalmente un immaginario, quello del territorio esteso oltre la poca geografia vista dal vivo, a dimostrazione che i nomi delle città che aveva studiato sulla carta politica, il cui puzzle si divertiva a comporre, erano reali ed erano abitati davvero da persone in carne ed ossa. C’era addirittura uno degli iscritti che si chiamava Albertosi, tra l’altro uno dei più bravi, e osservandolo di profilo seduto al piano aveva trovato tutte le somiglianze possibili con il portiere del Milan la cui figurina aveva attaccato e contemplato centinaia di volte, chiedendosi ed estendendo a suo padre, che lo aveva accompagnato lì, l’interrogativo se si potesse trattare del figlio o del nipote del calciatore. Ha lo stesso taglio di capelli, diceva, e viene da Milano. Ma, a parte questa distrazione, trascorse il tempo prima di essere chiamato sul palco pervaso da una forte angoscia e da un sentimento di inidoneità dovuto anche al suo abito da scena, una maglietta Adidas blu a righe bianche e jeans, somatizzando quel complesso stato d’animo nella più immediata e comune attività fisiologica da espletare con cadenze sempre più ravvicinate.

Non è il caso di spendere nemmeno una parola sull’esibizione, tra il dignitoso e il trascurabile. Già rientrando in auto con il padre avvertiva la temperatura interna aumentare vorticosamente, e una volta a casa, aggiornato il resto della famiglia sulla tragica esperienza individuale, fu l’unico a mettere in dubbio i meccanismi organizzativi del concorso adducendo inoltre non poche perplessità circa l’inadeguatezza del sistema al quale era affidato il suo diventare grande, prima di mettersi a letto e trascorrere la settimana successiva con la febbre a quaranta.

meglio cambiare aria

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In certi ambienti è considerato un comportamento cafone, quando la produci ti guardano con quell’aria pregna di alterigia che sta a significare che loro una cosa così non l’avrebbero mai fatta, né in pubblico e soprattutto non davanti a persone così raffinate, come si ritengono. Ma a volte scappa, te la senti lì pronta e non riesci a resistere, perché ti senti stimolato da quell’atmosfera così piatta, e tu sei abituato invece a sguazzarci dentro tra persone come te che le ripetono in continuazione, anzi più marcate sono è più gusto c’è, saturano l’atmosfera intorno, si confondono l’una con l’altra, sono le benvenute. Invece poi ti coinvolgono in situazioni così perché sanno che sei uno che ha alle spalle esperienze diverse, background molteplici, vieni dalla strada ma hai anche un po’ di cultura, sei stato a contatto con un paio di persone di quelle che contano, che nell’ambiente sono considerati dei maestri, quindi potresti anche stare alla perfezione con loro. Però la vita, si sa, non è a compartimenti stagni, non è che puoi snaturarti a seconda delle persone con cui ti trovi, giusto? Uno ha l’indole in un certo modo e prima o poi viene fuori, l’educazione se ce l’hai o no si vede e non riesci a imbrogliare il prossimo. Quindi a un certo punto senti che puoi liberarla perché hai capito che è il momento giusto e quando si libra nell’aria ormai i giochi sono fatti. Lo sdegno si trasmette da persona a persona come una scossa elettrica tra mezzi conduttori, e capisci che l’ultimo della catena sei tu, il malessere e la colpa dell’aver deturpato le vibrazioni positive dell’ambiente con qualcosa di così avulso – secondo loro, chiaro – sono tutte indirizzate verso di te. Addirittura a me è capitato che tutti si fermassero, e il più diretto di loro mi dicesse senza mezzi termini che non ci si comporta così, per cortesia evita di suonare quella nota così fuori dalla tonalità, troppo difficile da comprendersi, mica siamo dei fottuti musicisti jazz che possono mettere la quinta diminuita (o quarta aumentata) in una sequenza di accordi lisci che dev’essere assolutamente libera da armonie oblique. Niente alterazioni, troppo complicato. Noi facciamo indie pop, che diamine.

the twilight sad – another bed

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eccezionale veramente

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Si fa un gran parlare di semplificazioni, finalmente è stato appurato che rendere le cose più facili rende la vita più semplice e, soprattutto, fa risparmiare. Semplificare però non mi sembra un verbo felice, anche se è il più appropriato a descrivere il processo di sfoltimento di norme e procedure che è in grado di migliorare addirittura l’economia di questo Paese, possiamo dire che è il termine più semplice da utilizzare in questo caso ma non mi suona in tutta la sua positività. Userei apparenti sinonimi come “ottimizzazioni” o “razionalizzazioni”. C’è un libro in commercio dal titolo “Come semplificarsi la vita”, per farvi un esempio, che un giorno ho visto in mano a un tizio con la testa rasata, e mentre ne sbirciavo le pagine mi è saltata agli occhi la ricchezza di vignette e esemplificazioni grafiche versus la penuria di parole, un vero e proprio manuale illustrato pensato con l’obiettivo di rappresentare situazioni tipiche del quotidiano. E tra me ho pensato quanto ancora vuoi semplificarti la vita, figliolo, più del tuo sistema binario di interpretazione della realtà che ti ha già riempito l’immaginario storico di croci celtiche. Il suo amico, di fronte, leggeva però “Il fucilatore” di Giorgio Almirante, e detto tra noi forse è meglio, a quei personaggi lì, lasciargli in mano le innocue dispense di training comportamentale.

Questo per dire che non vorrei che l’atto della semplificazione fosse confuso con un modo di procedere un po’ grossolano, l’arrivare da un punto A a un punto B usando la traettoria meno curvilinea possibile e tagliando fuori le complessità di alcuni metodi sfrondandoli dalle eccezioni, la negazione delle quali comunque non ne implica la cancellazione. Quel che è successo tra istituzioni e imprese e cittadini, nel tempo, ha generato una eccessiva customizzazione delle normative tale quasi da costituire un unicum per ogni soggetto, questo dall’alto verso il basso, consentendo spesso anche interpretazioni opportunistiche con l’avallo degli apparati politici e giudiziari.

Dal basso verso l’alto, al contrario, il sistema in essere ha favorito la diffusione di una intricatissima giungla burocratica senza precedenti, un labirinto mascherato da prassi nel quale ci si perde con facilità. Pensate a quanta documentazione firmiamo, nella nostra vita, senza nemmeno leggerla, in banca come nelle agenzie assicurative, negli studi di avvocati o notai, presso gli uffici della Pubblica Amministrazione. La cosa importante è che la semplificazione non giustifichi l’approssimazione, per eccesso come per difetto, tagli di grana grossa, numeri senza virgola che lasciano fuori dal gioco decimali impossibilitati a completarsi nell’intero più vicino.