ferdinand soundsystem

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Sapete, vero, la storia dell’album di cover dell’LP Tonight dei Franz Ferdinand e dello scioglimento degli LCD Soundsystem, quindi mi limito a segnalarvi il video della cover di Live Alone dei primi eseguita dai secondi e dell’ottimo video realizzato con amene riprese urbane e tanto footage dal futuro.

attendere prego

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A446 that’s my number, mi viene da cantare appena ritiro il bigliettino dalla macchinetta, ma l’euforia della coincidenza con uno dei miei pezzi reggae preferiti si smorza quando mi rendo conto che la coda all’ufficio postale si preannuncia lunga. La cifra presente sul display relativa alla categoria A, pagare un banale bollettino, ha un valore inferiore al mio di trenta unità circa. Così indugio in un eccesso di ottimismo cercando una sedia vuota. Solo ottimismo, appunto: l’unica libera è illusoria ed è occupata da un tizio di una bassezza d’altri tempi che aveva lasciato il suo posto solo per porgere una penna a qualcuno in piedi. Torna seduto, la differenza tra i due stati si coglie solo nel piano orizzontale, non in quello verticale. Riprende il suo dialogo con il vicino, che ha un cappellino in lana dell’Inter calcato sugli occhi. Fuori si gela, dentro la concentrazione di corpi e il riscaldamento hanno favorito la diffusione di un microclima tropicale. Quello che era rimasto seduto risponde a una domanda che era rimasta sospesa in una parlata incomprensibile, ma chiude l’intervento dicendo “fa la quinta media”, al che deduco che si stava riferendo alla scolarizzazione che avrà il nipote, di certo più adeguata della sua, e che si esprime in un dialetto italiano strettissimo. L’altro butta un occhio sul suo numerino, e sta.

La signora al mio fianco che sa di lacca a basso costo, sarebbe sufficiente una sniffata sulla sua nuca per alleviare questa attesa con una dose di oblio, compone grazie all’ausilio del T9 un messaggio, “non mi sembra vero che non lo rivedrò più” e si ferma lì, con il pollice sospeso come se volesse concludere in qualche modo, lasciandomi in suspense. Il led da cui compare il carattere lampeggia, e mi chiedo quale possa essere il seguito, ma il testo che compone prima di confermarne l’invio mi disorienta. “Se ci penso mi viene il magone”. Che strano, avrei detto si trattasse di una manifestazione di appurata felicità e mi aspettavo un finale tipo “ora possiamo uscire alla luce del sole”, invece l’argomento è tutt’altro. Mi sporgo per osservare il volto dell’autrice che vedevo solo di spalle, e una ragazza vicino con una pila di raccomandate da spedire coglie in flagrante la mia espressione di disappunto, così faccio una plateale ammenda con le sopracciglia e mi sposto più in là.

Giusto in tempo per essere spettatore dell’ingresso deciso di un noto presentatore tv e sedicente intellettuale nonché responsabile di una casa editrice, la cui sede è qui a pochi passi. Varca la soglia sorreggendo una borsa di carta con quel logo che non ha eguali e che trovo ogni volta su quei libri, ne leggo molti di quell’edizione lì. Lui smadonna sottovoce per la ressa e il tempo che perderà, e a me viene da fissarlo perché in effetti è un uomo affascinante e non è non solo per il potere che conferisce la celebrità. Non crediate che io non guardi gli uomini interessanti, anzi. Fama o no, il numerino è ancora più sfavorevole del mio. Si avvicina al bancone in cui si fanno passare i pacchi per le spedizioni e urta un ombrello che cade, lo raccoglie e lo porge a una signora anziana che si stava lamentando della multa che deve pagare. Le hanno addebitato una sanzione per aver mescolato rifiuti nello stesso contenitore specifico riservato strettamente a un’unica tipologia da differenziare. Lei ha ottant’anni, sbraita, fa del suo meglio ma può capitare che “uno si sbaglia”, anche nell’uso del congiuntivo. Sono certo che l’intellettuale celebre apprezzi appieno la spontaneità di quel quadro di situazionismo vivente.

Non seguono la scena i due giovanotti appoggiati al tavolinetto a fianco a me, quello in cui si potrebbero compilare i moduli se i contenitori sopra ne fossero provvisti. Sembrano divertirsi un mondo ricordandosi a vicenda i particolari di un episodio avvenuto tanti anni prima, quando loro, ora intorno ai cinquanta, erano giovani. Era un giorno di gennaio e aveva nevicato così tanto che era persino crollato un palazzetto in cui si tenevano i concerti, vero? Sì, il Vigorelli, gli risponde l’amico, avevamo tutti fumato di mattina e sembrava psichedelico anche solo muoversi nella neve così vestiti di nero. Gli unici punti scuri in tutto quel bianco, nemmeno le gazze, il che aumentava la visione distorta delle cose. Insomma che ci mettiamo a fissare da vicino non so perché la vetrina di un negozio di abbigliamento classico da uomo, e a quel punto giro la testa e mi vedo la faccia di Gino Bramieri a pochi centimetri dalla mia, tutto infreddolito e intabarrato in un montone che cerca di decifrare il prezzo di un abito scuro indossato con scostante eleganza dal manichino. Mi volto e vedo Gino Bramieri, proprio lui, che stringe gli occhi come chi non ci vede benissimo e non capisco se è vero oppure no, rimango lì fuorissimo a scrutare quei lineamenti conosciuti che in genere vedevi solo nei programmi su Canale 5, poi faccio qualche passo indietro e scappo, se c’è la fame chimica c’è anche il terrore chimico, no? Corro al riparo perché non capisco più nulla e sento che sto per esplodere. E scappo anche io, io narratore, chiaro, il segnale acustico precede di poco la notifica che il mio turno è arrivato. A446, that’s my number.

auguri per la tua professione

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Agenzia di comunicazione ricerca una figura creativa, rispettosa della tradizione e in grado di saper parlare diritto al cuore per rivestire l’importante ruolo di Christmas Manager. La posizione si occuperà dell’ideazione degli auguri che l’agenzia stessa invierà ai propri clienti e partner via e-mail e gli auguri che clienti e partner invieranno ai loro e delle eventuali iniziative collegate. Si richiede fantasia nel trovare idee differenti ogni anno senza cadere nelle banalità, capacità di suscitare commozione nel prossimo, abilità nella stesura di testi retorici quanto basta per colpire la sensibilità altrui senza cadere nelle smancerie, attitudine a mettere a nudo i sentimenti per dare vita ad appelli e comunicazioni credibili. Fondamentale la conoscenza della lingua italiana e delle tecniche di immedesimazione emotiva.

Ecco, tra le varie cose di cui mi occupo in agenzia, c’è anche questa. Ogni anno, da molti anni. E quando si parla di job rotation come fattore decisivo per la valorizzazione delle risorse umane mi viene in mente lo sforzo che mi occorre per portare a termine questa attività senza ripetermi. Poi alla fine me la sfango sempre, e ogni volta ne esco talmente provato da dimenticare di pensarci durante gli altri mesi. Ho tentato, qualche tempo fa, di lavorarci in estate, in un momento di relativa quiete. Ma maneggiare immagini e contenuti natalizi con la canicola è surreale. L’esperienza spreme il mio già scarso entusiasmo per il carrozzone di festoni e botti, e la vigilia di Natale, che solitamente corrisponde al primo giorno di ferie, mi guardo le mani, penso a tutte le belle parole che hanno scritto conto terzi e mi impongo di esprimere gli auguri veri, quelli personali, solo con abbracci reali e smodata fisicità.

natura morta con stella di natale

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Esci da un teatro parrocchiale dopo lo scambio di auguri tra le società sportive legate all’oratorio, tra cui la squadra di volley di tua figlia. Dopo due ore di canti di amore tra i popoli e parole di solidarietà, dopo la presentazione delle atlete e l’esibizione della scuola di danza che spero sia anche servita ai genitori delle aspiranti ballerine meno dotate come campanello d’allarme per indurli a scegliere attività più alla portata delle loro figlie, dopo la tombolata benefica i ricchi premi e i cotillons con preti e seminaristi, lo spettacolo finisce, ti avvii verso l’uscita, attraversi il foyer in quell’ambiente così pervaso di cristianità e ti capita l’occhio sul tavolo del salottino. E non puoi non fare una foto, mentre la gente intorno si chiede perché tu la stia facendo.

le correzioni

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Leggi una e-mail di lavoro alle otto di sera del venerdì, la leggi per caso perché cercavi un’altra cosa e hai aperto la posta dell’ufficio, l’hai vista tra i messaggi in arrivo e non hai resistito anche se eri ufficialmente già in pieno weekend, bicchiere di Menabrea in mano, piattino di patatine, abiti da relax e pantofole e famiglia che sta per mettersi a tavola. Leggi la e-mail e scopri di avere avere fatto una cazzata di quelle colossali, una svista che nemmeno uno che ha iniziato a fare il tuo lavoro l’altro ieri. Uno di quegli errori da pivello a cui in altri momenti non dai peso, ma stai lavorando di brutto (e per fortuna, visti i tempi) e quando segui tante cose può capitare, e questo te lo dici per assottigliare la responsabilità. Hai preparato un pubbliredazionale che doveva essere di 3.200 caratteri e lo hai già fatto approvare da tutte le parti coinvolte, una delle quali è un colosso nazionale delle tlc che ha una trafila assurda di liberatorie per ogni cosa che deve essere pubblicata a suo nome, e che devi consegnare martedì. Il problema è che ti sei fumato il limite dei caratteri, spazi inclusi, e lo hai fatto lungo il quadruplo. Questa cosa ti sembra inamissibile e ti rovina la prima parte del finesettimana, perché non sai che fare per porre rimedio. Così ci rimugini tutto il giorno, prepari anche la versione ridotta all’ingombro richiesto. Poi scrivi l’esperienza sul tuo blog, pensando che la controparte legga la confessione, la consideri un’idea simpatica e originale per espiare la colpa e ti scriva un commento tipo “non preoccuparti, non sono certo questi i problemi della vita”. Ecco, un finale così potrebbe essere l’inizio di un nuovo corso, potrei anche pensare che qui dietro (dietro al monitor) c’è davvero qualcosa.

essere sul pezzo

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Tanto tempo fa, un tizio che mi faceva da impresario mi propose di mettere i dischi a una festa di gente che compiva quarant’anni, quei party di leva in cui non si capisce bene quale sia l’evento da celebrare. Un compleanno di massa. Io che mi prestavo a qualsiasi tipo di attività remunerata lecita accettai con entusiasmo l’ingaggio, già allora avevo maturato la convinzione che fare il deejay desse molte più soddisfazioni che essere un musicista mediocre. Un mestiere in cui puoi far sentire la musica che ti piace ma il pubblico non è costretto a guardarti mentre la esegui. La mia comprovata serietà in ambito musicale, forse l’unico in cui ero davvero pignolo, mi spinse a mettere insieme una playlist di cose che secondo me i neoquarantenni avrebbero potuto apprezzare. Pensai cioé che i festeggiati avrebbero senz’altro gradito ascoltare una selezione di musica considerata di moda ai loro vent’anni, ovvero quand’erano giovani. Io ero molto più piccolo di loro, molto più giovane di adesso, e per me un quarantenne era un adulto. Così mi misi a cercare materiale adatto, chiedendo in prestito supporti ad amici e colleghi. Il mio pubblico era stato ventenne a metà anni settanta o giù di lì, cercai così di unire originalità a ricerca filologica e mi presentai con una borsa a tracolla piena di chicche a 33 giri davvero degne di nota.

Ma l’esito della serata fu disastroso, un vero flop. Le persone in pista si inalberarono offese lamentando di essere ancora assidui frequentatori di locali notturni e di non volerne sapere di musica che ricordava loro un periodo ormai lontano, la giovinezza anagrafica. Il culto del revival come lo intendiamo noi non era ancora di dominio pubblico, non era stato nemmeno inventato probabilmente, e me ne accorsi quando uno dei più combattivi mi disse che non avrebbe voluto sentire più nulla di prodotto prima dell’anno in corso. E pensare che mi ero proprio preparato basandomi su quello che avrei voluto ascoltare io se avessi avuto quarant’anni, pensando che a quaranta uno non ha tempo di frequentare le discoteche ma sta a casa con i figli e se esce con gli amici un po’ di nostalgia è quello che ci vuole, anziché doversi misurare con chi con diritto si può fregiare dell’epiteto di giovane d’oggi. Non solo. Ero convinto che chi aveva avuto vent’anni o giù di lì nei 70 fosse oltremodo orgoglioso di essere stato protagonista di un decennio così importante, e che celebrarlo in un’occasione di quel tipo fosse un’idea vincente. Macché.

L’impresario se la prese con il mio metro intellettuale applicato al divertimento di massa, oddio non disse proprio così ma il senso era quello, ma comunque ricevetti il cachet ugualmente, quindi la cosa fini lì.

Dieci anni dopo, giorno più giorno meno, esplose il più grande fenomeno di revival mai visto negli ultimi anni, un trend che si è protratto ininterrottamente fino a oggi e che ha coinvolto i 60, i 70, gli 80 e i 90, ne ha fatto un minestrone, e ha sfornato un’idea del passato piuttosto grossolana, molto commerciale e spendibile su canali diversi, tanto che ad oggi non trovi uno che non vi abbia aderito o che non ne segua tutt’ora il culto. Ed è indubbio che questo sistema approssimativo di modernariato culturale abbia consolidato un terreno adatto a un tipo di operazione come quella che avrei voluto fare io allora. Ma ho perso le tracce di quell’impresario, non faccio più il selezionatore musicale, non so se le feste di leva siano ancora in auge e tutto sommato non mi sembra nemmeno più una buona idea.

mastica lentamente

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Ci sono persone sensitive, ci sono persone sensibili, ma di una sensibilità che rasenta la capacità divinatoria quindi il confine è assolutamente aleatorio e la percezione di questi doni molto soggettiva. Che poi, ci si chiede, sono realmente doni o si tratta di un calvario? Come quelli che appena toccano una persona leggono il loro passato, così c’è una bambina di nome Rose che assaggia il cibo e vede oltre gli ingredienti. Sente chi li ha mescolati e percepisce che cosa quelle persone si portano dentro nell’istante in cui hanno infornato una torta, hanno decorato un primo, hanno cotto una pietanza. Capisce se il maiale che è stato sacrificato per diventare pancetta ha trascorso la sua esistenza tra le verdure biologiche e si scontra, sempre più spesso, con la modernità, i cibi industriali. La macchina che ha amalgamato creme e sapori e gli erogatori che dispensano i prodotti confezionati, pronti all’uso. Rose cresce in una famiglia che vive convinta della conoscenza reciproca tra i suoi membri ma che con il corso degli eventi si disgrega in particelle sempre più distanti. La proprietà esclusiva con cui Rose convive è un’eredità paterna, tanto che sia Joseph, il fratello maggiore, che il genitore stesso hanno un segreto ma stentano a capacitarsene e a convivervi come invece solo Rose sa fare. Ma il suo è sicuramente il potere più esplicito e anche più facile da raccontare e far diventare protagonista di una vita. E pensare che tutto nasce da una torta al limone e cioccolato, un ritorno a casa da scuola, un assaggio e una caduta nel profondo del più fisico dei sensi umani. Un link con l’ignoto che la proietta nell’universo dei sentimenti senza possibilità di ritorno. Gli stadi della crescita, l’amore, i’incommensurabilità che ci si porta dentro e il sapore di tutto ciò che non è visibile e che si trasferisce nella materia prima nell’atto di preparare cibo per sé stessi e per gli altri. Una cucina di emozioni, un menu alla carta per scegliere tutte le porzioni di stati d’animo, almeno quelli più congeniali, senza nessun rischio di pesantezza o, peggio, di iperglicemia.

direct mail esplosivo

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La busta con il proiettile è una tecnica di direct marketing emozionale di sicuro effetto, se non altro per la risonanza che ha non tanto sul target quanto sull’opinione pubblica. Tutti avvertiti: minacciamo quindi esistiamo, sembrano dire gli ideatori dell’ennesima campagna che oggi punta davvero in alto. Rimaniamo in attesa del recall, quindi, per avere un feedback sulla percentuale di redemption.

a ripetizione

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La cosa che salta più agli occhi di quei due è che hanno una visione diametralmente opposta. Non in tutto, anzi sono più le cose hanno in comune, d’altronde non si sarebbero sposati se non avessero valori condivisi e se non si trovassero d’accordo sui fondamentali. Ma su questo aspetto, vuoi per indole, vuoi per  il modo in cui sono cresciuti, proprio non ci azzeccano. Lei non vuole tornare mai nello stesso posto, per esempio in vacanza, ama programmare e fare cose sempre diverse, le piacciono le novità, i cambiamenti. Se l’anno prima il viaggio è stato un successo ed è rimasta pienamente soddisfatta, l’anno dopo meglio non ripetere l’esperienza, potrebbe non confermarne la qualità e, alla fine, la delusione potrebbe deturpare anche il ricordo della volta precedente. Poi in casa non c’è giorno in cui non cambierebbe disposizione dei mobili, e non c’è mese in cui non lo fa. Tutto sempre un divenire, a differenza di lui, che fa dell’abitudine il suo stile di vita.

Perché cambiare se ci siamo trovati così bene, cerca di convincerla. Che bisogno c’è di fare sempre qualcosa di diverso, la routine è certezza, ripetere il consolidato significa approfondire e assimilare, in ogni modo tutto è impossibile conoscere quindi tanto vale circoscrivere il campo e rivoltarlo come un calzino. E a testimonianza della sua tesi le fa sempre un paio di esempi, ovviamente sempre gli stessi, anche in questo caso non cambia mai.

Frequentando lo stesso locale in cui trascorreva almeno un paio di sere a settimana, prendendo sempre la stessa bottiglietta di birra belga con l’etichetta blu, il suo migliore amico alla fine – nel vero senso della parola, cioè dopo mesi e mesi – aveva rimorchiato la barista e l’aveva invitata a cena, la settimana successiva a quell’approccio, prima del lavoro. Ne era seguita una storia d’amore a lieto fine, mica poco.

Non solo: a lui stesso, a furia di mangiare lo stesso panino nella stessa tavola calda in compagnia di una fiamma dell’epoca, più o meno seduti sempre allo stesso tavolo in fondo al locale, gli era stato offerto un lavoro stagionale come cameriere, proprio in quella stessa paninoteca. Il proprietario con cui era entrato in confidenza, magari proprio a forza di vederlo sempre lì, gli aveva fatto la proposta, lui aveva accettato e così aveva avuto il primo lavoro vero della sua vita. Poche migliaia di lire all’ora, non più di ventimila a sera. In più se a fine turno, l’una o le due di notte, aveva fame e chiedeva una delle focaccine rimaste che comunque il proprietario avebbe buttato, le doveva scalare dalla paga, tanto che aveva pensato di aspettare che lo spilorcio gestore le gettasse via e poi riuscire a intercettarle prima che finissero insieme agli avanzi nella spazzatura. Aveva anche capito che un modo intelligente per ammortizzare il guadagno poteva essere quello di vuotare (dentro di sé) i cocktail dei clienti lasciati sui tavoli, almeno quelli palesemente in buone condizioni, ma solo verso fine serata onde evitare di ubriacarsi e fare brutte figure con gli avventori.

Una sera poi era entrata nel locale la fidanzata di un suo caro amico che aveva da poco iniziato l’accademia militare, in compagnia di un altro ragazzo. Lei non sapeva che lui lavorasse lì, e si sedettero a un tavolo. Il cameriere li notò ma non se ne fece accorgere. Appena lei lo vide, convinse il suo accompagnatore ad alzarsi e a andare via, naturalmente il cameriere continuò a far finta di nulla per non imbarazzare nessuno, se stesso per primo. Ma non si ricorda la fine della vicenda, cioè se l’amico poi ha continuato la sua relazione con la fedifraga o se l’ha scoperta (lui, il cameriere, giura di non aver fatto la spia) o se lei stessa ha confessato. Anche questo inciso avvalora la sua (del cameriere) tesi: perché cambiare abitudini sentimentali, alla fine il diversivo non paga.

A volte poi arrivava al bar in anticipo. Portava con sé i libri per preparare gli esami che avrebbe dovuto sostenere nella sessione autunnale, si metteva a un tavolo mentre il locale era ancora vuoto, prendeva un caffé (quello era offerto dalla casa) e con la matita sottolineava senza sosta le parti più importanti del testo. E, finita la stagione terminato l’incarico, riuscì a pagarsi un viaggetto con quello che aveva guadagnato.

Insomma, il suo bilancio della consuetudine è tutto sommato positivo, per questo cerca sempre di convincere la moglie a lasciare invariato l’ordine delle cose. Ma lei non sente ragioni, e lui lo sa e fa l’accondiscendente, in fondo va bene così, non c’è nulla di male. Anche quando ribalta la camera da letto e ogni volta la prima volta che la vede gli gira la testa perché l’armadio è al posto del comò che va al posto della poltroncina messa al posto dell’armadio. Ed è felice lo stesso, tanto per cambiare.

red christmas

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Il Natale al supermercato Carrefour qui sotto, quello dove vado a comprare giorno per giorno qualcosa da mettere sotto i denti in pausa pranzo per evitare i panini a sei euro dei bar del centro di Milano, è da qualche tempo in piena atmosfera natalizia, come tutto e tutti del resto. Le cassiere hanno in testa finte corna da renna o si aggirano spingendo i muletti con le scorte agghindate da Babbo Natale. Nello scaffale dove finiscono i prodotti in scadenza venduti a metà prezzo, che è il primo che vado a visitare ogni volta, trovano posto costose confezioni regalo con panettoni, bottiglie di vino e dolciumi di ogni sorta. Alla radio interna le solite canzoni pop si alternano ai classici della musica natalizia, quelli triti e ritriti che si ripropongono ogni anno. Non c’è nessun altro giorno dell’anno come il Natale che abbia ispirato la cultura popolare, anzi a dir la verità ci sarebbe anche il 25 aprile, ma non è che in prossimità della festa della liberazione nei supermercati senti Bella Ciao e gli operatori indossano fazzoletti rossi al collo e il berretto militare con la stella e alla cassa ti salutano con il pugno alzato, purtroppo non funziona così. Nemmeno alla Coop.