sono un dj, sono quello che suono

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Fare il dj in situazioni improvvisate che raccolgono gente eterogenea che si trova lì per caso è quasi più complesso che suonare la pianola automatica ai matrimoni. Sarà capitato anche a voi, vero, che l’amico dell’amico vi chieda di mettere i dischi alla festa dei quarant’anni dell’amica o tra una partita e l’altra di un torneo di volley giovanile o alla giornata di raccolta fondi per la scuola organizzata dal locale comitato genitori. Perché intanto solo il fatto che ve ne intendete di più di musica di tutto il resto degli organizzatori non significa essere in grado di tenere botta a far ballare o anche solo intrattenere coinvolgendo i presenti per un tempo così lungo.

Secondo: per mettere i dischi o i cd o gli mp3 con il computer ci vuole comunque dell’attrezzatura ad hoc che non sempre si ha sottomano e se c’è qualcuno che te la procura non è detto che poi la sai usare e se la sai usare non è detto che poi funzioni tutto a meraviglia.

Terzo: ognuno poi ha la sua sensibilità, quindi si cade nel dilemma se sia il caso di mettere roba che conoscono cani e porci e che quindi chi mette la musica sia orientato all’ascoltatore, e in questo caso se sei uno improvvisato non è detto che tu abbia a disposizione i pezzi che fanno divertire ora – le prime dieci posizioni della classifica di MTV – e magari non solo non te li sei procurati ma nemmeno sai quali possano essere perché non guardi MTV.

Oppure ti capita di passare per il dj sapientone perché metti cose che sai che possono funzionare ma poi alla fine tutte quelle citazioni colte, quelle chicche, quelle versione strampalate di pezzi famosi, quei singoli riempipista ma solo di locali no wave newyorkesi e quelle colonne sonore di film del Sundance alla fine non se le caga nessuno e ti ritrovi da solo con i soliti due sfigatoni davanti alla console che sono gli unici che hanno colto il tuo spirito hipster e che ti fanno richieste appaganti ma che valgono zero ai fini della tua popolarità contestuale.

Ora scartando il caso di muoversi come una volta con il borsone quadrato con i vinili dentro, scartando anche l’ipotesi degli scatoloni di cartone con i cd masterizzati che poi saltano e ci fai una figura da pezzente, il portatile o addirittura la chiavetta USB con tonnellate di roba ballabile resta la soluzione più attuale. Ma attenzione: anche se vi preparate come facevo io con la sequenza con i BPM a salire vi troverete in condizioni in cui il vostro essere dj di musica alternativa è tutt’altro che un valore riconosciuto. Intanto perché l’utilizzo di supporti di bassa qualità e il cui possesso nel 2016 risulta tutt’ora illegale dall’obsolescenza delle autorità preposte (leggi SIAE) causerà effetti indesiderati durante la riproduzione a partire dalla più banale differenza di volume tra i brani anni ottanta, faccio un esempio, e le cose recenti.

Quindi proprio sotto di voi ci saranno i bambini che aspettano la baby dance (in qualunque generazione ci sono i bambini a cui piace ballare, e vi posso assicurare che da trent’anni a questa parte i pezzi sono più o meno gli stessi) con genitori altrettanto desiderosi di fare quattro salti con i balli di gruppi per lattanti, la scaletta sarà considerata dai più vergognosa perché troppo indie per essere compresa, troppo rock per essere ballata, troppo di nicchia per trascinare la calca verso un incremento del consumo di alcol per cui davvero se siete i pezzi che mettete, come dice Bowie, siete dei falliti e nessuno saprà rispettarvi.

essere sul pezzo

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Tanto tempo fa, un tizio che mi faceva da impresario mi propose di mettere i dischi a una festa di gente che compiva quarant’anni, quei party di leva in cui non si capisce bene quale sia l’evento da celebrare. Un compleanno di massa. Io che mi prestavo a qualsiasi tipo di attività remunerata lecita accettai con entusiasmo l’ingaggio, già allora avevo maturato la convinzione che fare il deejay desse molte più soddisfazioni che essere un musicista mediocre. Un mestiere in cui puoi far sentire la musica che ti piace ma il pubblico non è costretto a guardarti mentre la esegui. La mia comprovata serietà in ambito musicale, forse l’unico in cui ero davvero pignolo, mi spinse a mettere insieme una playlist di cose che secondo me i neoquarantenni avrebbero potuto apprezzare. Pensai cioé che i festeggiati avrebbero senz’altro gradito ascoltare una selezione di musica considerata di moda ai loro vent’anni, ovvero quand’erano giovani. Io ero molto più piccolo di loro, molto più giovane di adesso, e per me un quarantenne era un adulto. Così mi misi a cercare materiale adatto, chiedendo in prestito supporti ad amici e colleghi. Il mio pubblico era stato ventenne a metà anni settanta o giù di lì, cercai così di unire originalità a ricerca filologica e mi presentai con una borsa a tracolla piena di chicche a 33 giri davvero degne di nota.

Ma l’esito della serata fu disastroso, un vero flop. Le persone in pista si inalberarono offese lamentando di essere ancora assidui frequentatori di locali notturni e di non volerne sapere di musica che ricordava loro un periodo ormai lontano, la giovinezza anagrafica. Il culto del revival come lo intendiamo noi non era ancora di dominio pubblico, non era stato nemmeno inventato probabilmente, e me ne accorsi quando uno dei più combattivi mi disse che non avrebbe voluto sentire più nulla di prodotto prima dell’anno in corso. E pensare che mi ero proprio preparato basandomi su quello che avrei voluto ascoltare io se avessi avuto quarant’anni, pensando che a quaranta uno non ha tempo di frequentare le discoteche ma sta a casa con i figli e se esce con gli amici un po’ di nostalgia è quello che ci vuole, anziché doversi misurare con chi con diritto si può fregiare dell’epiteto di giovane d’oggi. Non solo. Ero convinto che chi aveva avuto vent’anni o giù di lì nei 70 fosse oltremodo orgoglioso di essere stato protagonista di un decennio così importante, e che celebrarlo in un’occasione di quel tipo fosse un’idea vincente. Macché.

L’impresario se la prese con il mio metro intellettuale applicato al divertimento di massa, oddio non disse proprio così ma il senso era quello, ma comunque ricevetti il cachet ugualmente, quindi la cosa fini lì.

Dieci anni dopo, giorno più giorno meno, esplose il più grande fenomeno di revival mai visto negli ultimi anni, un trend che si è protratto ininterrottamente fino a oggi e che ha coinvolto i 60, i 70, gli 80 e i 90, ne ha fatto un minestrone, e ha sfornato un’idea del passato piuttosto grossolana, molto commerciale e spendibile su canali diversi, tanto che ad oggi non trovi uno che non vi abbia aderito o che non ne segua tutt’ora il culto. Ed è indubbio che questo sistema approssimativo di modernariato culturale abbia consolidato un terreno adatto a un tipo di operazione come quella che avrei voluto fare io allora. Ma ho perso le tracce di quell’impresario, non faccio più il selezionatore musicale, non so se le feste di leva siano ancora in auge e tutto sommato non mi sembra nemmeno più una buona idea.

da questa parte, grazie

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Tra i numerosi quanto inutili canali che impoveriscono l’offerta televisiva del digitale terrestre, ce n’è uno che tutte le volte che passo di lì – in quei 5 minuti di cazzeggio che precedono il crollo nelle serate estive, momento che comprende una fase di zapping selvaggio tesa unicamente a trovare il programma di Paola Marella che si diverte a ristrutturare case altrui (Paola, se leggi questo post, mettiti in contatto con me: ho grandi progetti) – trasmette esibizioni live (poi capirete perché l’ho messo in italico) di un dj di fronte a centinaia di persone intente a ballare (buon per lui).

Una formula vecchia quanto l’uomo, almeno da quando esiste il giradischi, che però da circa quindici anni a questa parte si è resa protagonista di un processo di evoluzione nel posizionamento strategico delle due componenti fondamentali – dj e pubblico, appunto – all’interno del luogo adibito di volta in volta ad “area da ballo”. Mi spiego.

La discoteca, il club, il luogo chiuso, raramente concede risalto al selezionatore musicale, che sta dietro la console mentre la gente balla la sua selecta. Fin qui ci siamo. A un certo punto, con un paio di fenomeni quali il successo di gruppi privi di batterista e l’avvento della musica elettronica, si sono diffusi gli eventi a metà tra il concerto e il rapporto univoco dj – pubblico danzante. Quest’ultimo balla qualsiasi cosa il dj proponga (almeno un tempo era così) e si fa bellamente i c**** propri mentre il selezionatore in cuffia – a volte nascosto chissà dove, a volte in una sorta di pulpito, altre, come in alcuni locali un po’ improvvisati, con i piatti su un comune tavolino da bar, dentro il bar stesso a rischio di essere travolto dall’esagitato di turno (ho visto una volta un ubriaco rovesciarsi su una console di fortuna dietro alla quale Fabio De Luca aveva appena messo On my radio dei Selecter, la versione live se non ricordo male) – sciorina la sua playlist.

Nell’evento a metà tra il concerto e la selecta invece il dj sta sul palco e il pubblico danzante sta sotto, come nei concerti con musicisti (mi vien da dire veri ma non lo scrivo per non urtare la sensibilità né degli uni né degli altri) dotati di strumenti tradizionali. Già nei concerti dei Depeche Mode, almeno nella formazione più autorevole, cioè quella in quattro con Alan Wilder e prima che a Martin Gore venisse la pessima idea di imbracciare la chitarra, diciamo fino a Black Celebration, c’era un po’ di imbarazzo tra il pubblico. Stare lì in piedi rivolti verso il palco a sentire dischi, perché ora se vogliamo contarcela su va bene, ma non mi si venga a dire che a quei tempi i Depeche Mode suonavano dal vivo, visto che ballavano tutti, ogni tanto davano qualche manata sulla tastiera, e le versioni dei pezzi erano troppo fedeli a quelle registrate, dicevo stare lì a guardare un playback evoluto era un po’ una forzatura. C’era questa finzione collettiva in cui celebravamo tutti insieme da sotto la visione dei nostri beniamini. Ma chiamarlo concerto, onestamente, è troppo.

Passano gli anni e la cosa si ingigantisce pure. Nel 97, dopo aver pagato 60 mila lire per il biglietto del concerto dei Prodigy (poi se volete vi spiego perché l’ho fatto, a volte le cose si fanno anche per gli altri), ho assistito a una performance di base registrata più effetti speciali e coreografie varie, tanto che il gruppo supporto che ho dovuto pure sopportare, tali Marlene Kuntz, si sono distinti enormemente per grinta, suono e pathos. Tanto vale fare come i Kraftwerk, visti pochi anni fa già in versione pensionati i quali, sul palco come quattro impiegati di banca prossimi al ritiro della liquidazione dietro ad altrettanti Mac portatili, hanno eseguito una navigazione in internet con controllo di posta elettronica – perché secondo me proprio quello facevano – al cospetto del pubblico per 2 ore circa, con il valore aggiunto del video, alle loro spalle, che per lo meno dava il quid multimediale mancante.

Il livello successivo, a cui non ho mai voluto per scelta partecipare, comprende i performer tipo i Chemical Brothers. Per inciso: tutti i gruppi e i dj citati finora, a parte Prodigy e Marlene, sono tra i miei preferiti quindi la critica che muovo non è a loro, sia ben chiaro. I Chemical Brothers, potete dare un’occhiata per esempio qui ma avrete visto questi video decine di volte, si mettono dietro ai loro mixeroni e… e poi non si sa bene che fanno. Quanto suonano? Quanto mixano live? E trovarmi lì, in mezzo a migliaia di persone tutte rivolte a guardare due sul palco che magari giocano a solitario mentre sotto un cd suona tutto il concerto mi farebbe sentire un po’ sciocco.

Tutto questo per arrivare al punto di rottura: dj sul palco, ma dj veri, con piatti o cd, e pubblico sotto che, anziché ballare insieme – magari vedi una vicino che ti prende e cerchi di rimorchiarla – è disposto in file orizzontali e rivolto rigorosamente verso di lui. Il dj, poveretto, sì ogni tanto balla, batte le mani, fa qualche gesto di feeling di circostanza, ma il più delle volte lo vedi dare sorsi a un cocktail (e il pubblico ti guarda mentre bevi il cocktail), girare manopoline senza nessun apparente risultato su quello che esce dalle casse (e il pubblico ti osserva e balla mentre giri le manopoline), o guarda con la testa bassa i dischi che ruotano nei piatti, un po’ imbarazzato dall’aver di fronte centinaia di persone che lo guardano anche mentre osserva il moto perpetuo dei dischi sui piatti. Eppure, su questa tv, il pubblico sembra divertirsi un sacco: le ragazze sovente vestono solo il top del costume da bagno, i ragazzi si muovono a tempo con il bicchiere di plastica in mano, e tutti guardano il palco, felici di aver afferrato il senso.