come si vestono i cinquantenni

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Secondo l’ultimo report sugli outfit in ambiente professionale pubblicato dall’Ordine Nazionale dei Fashion Blogger, ogni giorno un cinquantenne su dieci esce di casa per recarsi in ufficio in t-shirt, pantaloni con i tasconi – quelli che gli addetti ai lavori chiamano cargo – e sneakers. Il mio consiglio è di abituarvi a contarne nove quindi farvi riconoscere e giuro che vi darò retta quando mi confesserete che ne dimostro molti di meno ma, non per questo, dovrei decidermi a mettermi giù un po’ meglio per evitare di dare l’impressione della persona che non sono. Le madri sono le più accreditate a dispensare questo genere di giudizi e specialmente i figli maschi crescono con lo spauracchio di essere volutamente non salutati per strada per l’oggettiva impresentabilità in un sistema di convenzioni sociali in cui l’autorevolezza è dettata principalmente dall’ordine esteriore delle cose e, in questo caso, delle persone.

C’è però un fattore che gli altri nove di cui sopra non capiscono. Il dieci per cento di questa stima fa un’enorme fatica nel trovarsi comodo e a suo agio negli abiti indipendentemente dalla stagione e le cause molteplici vanno da fattori quali le anomalie nelle linee e nei volumi del corpo per non parlare dell’attrito tra le superfici dell’epidermide e quella dei tessuti fino a una banale questione di contrasto tra colori. C’è poi l’abitudine. Look reiterati all’eccesso limitano fortemente la predisposizione alla scelta fuori dai canoni standard del proprio guardaroba, e se ti vesti da ragazzino sin da quanto eri – appunto – ragazzino c’è poco da fare. E il risultato non cambia. Tutti noi cinquantenni su dieci ci osserviamo camminare nelle vetrine dei negozi e non siamo per nulla soddisfatti.

Poi ci si mettono quelli del contingente dei metro-sexual – con il quale non cambierei una molecola del mio corpo, sia ben chiaro – che fanno bella mostra di sé con i loro completi estivi carta da zucchero con cravatta, cintura e mocassini testa di moro, l’immancabile barba e la zazzera impomatata come usa oggi, in mano la ventiquattr’ore e nell’altra l’iPhone 7 da mille euro. Ma anche i professionisti di mezza età – mezza età come la mia, tanto per essere chiari – con i loro spezzati più classici e l’andatura regolare da chi non pratica sport dannosi per le caviglie come la corsa che, alla lunga, induce i propri proseliti a zoppicare vistosamente in ogni tipo di calzatura non adeguatamente ammortizzata. Questi ultimi, elegantoni ma semplici, riempiono giacche e pantaloni slim fit e stanno su dritti tutti di un pezzo mentre si spostano con il loro incedere regolare in cui muovono solo le parti delegate a favorire l’incedere, con le figlie che non perdono occasione di vantarsi con le amiche di quanto è ancora figo il loro padre. C’è da fidarsi di chi è così ossessivo nella cura di se stesso? C’è da fidarsi di chi se ne fotte? E c’è da fidarsi di chi sembra uno scappato di casa per di più con la sindrome da supergiovane?

Il problema è anche che i completi di qualità costano un occhio della testa e piuttosto che prendere quelli non di qualità è meglio insistere con t-shirt, cargo e sneakers, e a quel cinquantenne su dieci vuole dare una svolta e un segnale gli piacerebbe procurarsi tre o quattro abiti in modo da cambiare radicalmente e in modo repentino la propria vita, e ciò che lo frena è sia la carta di credito che una questione di abbinamenti. Chi è costretto, come me, a partire dal fondo con un quarantasei pianta larga converrà che costruirsi una reputazione con un vestito che rispetti proporzioni così complesse è tutt’altro che semplice. E ogni volta, a ogni estate, quelli della minoranza dell’uno su dieci si dicono che tanto passa in fretta, che presto torneranno a coprirsi dal freddo in modo elementare e senza tanti fronzoli, e che tanto vale, ancora per quest’anno, aspettare i saldi e procurarsi qualche t-shirt, due cargo di colori diversi e un paio di sneakers che stia bene su tutto.

anche i nostri nomi sono scritti da qualche parte

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Alcuni hanno il loro nome scritto in faccia, altri no ma c’è sempre un particolare da cui evincerlo, a partire da quando è stampato sulla costa del book fotografico personale che ostentano in mano nel caso in cui costoro operino nel settore della moda e siano a spasso per Milano tra un casting e l’altro. Non so se sia una posa, quella di tenerlo alla mercé dei curiosi come me, oppure si tratta di un formato così anomalo che non esistono borse o valigette adatte a contenerlo. Fondamentalmente ne esistono di due tipi: quelli con la copertina nera, decisamente anonimi e imperscrutabili, e quelli con la copertina bianca con le generalità della modella o del modello stampati in oro sul dorso, e la cosa buffa è che spesso modelle e modelli a spasso per Milano tra un casting e l’altro vestono davvero male, forse con l’obiettivo di confondersi tra le persone normali ma a volte sono così conciati che basta guardare meglio e scorgere il book fotografico in mano o sotto l’ascella come una baguette per capire tutto. Ieri ho notato Polina salire le scale della metro con il suo book fotografico bianco nell’incavo del braccio e ho dato un’occhiata al nome stampato sulla costa proprio perché il suo outfit era decisamente fuori luogo, o magari la moda impone uno standard che dal basso della mia umile estrazione non si percepisce. Il contrasto ha attirato la mia curiosità ed è per questo che so che si chiama Polina, con un cognome russo che non riporto per ovvi motivi di rintracciabilità dei motori di ricerca. Ho superato camminando Polina e, oltre al look e al book fotografico bianco bene in mostra, ho anche valutato che non sembrasse così alta per fare la modella e, a dirla tutta, a coplo d’occhio non era nemmeno così attraente. Ed è per questo che, appena arrivato in ufficio, ho subito guglato nome e cognome e, come primo risultato, mi è comparsa una pubblicità per un brand super di lusso tra i più famosi del mondo proprio con la faccia di Polina, questa volta incantevole come dev’essere il viso di una modella. Non ho esitato a cercare il suo profilo Instagram per seguirlo e chissà se tra le decine di migliaia di followers ci ha fatto caso. La morale della storia non la so, forse sarebbe meglio essere meno curiosi e fottersene delle modelle a spasso per Milano tra un casting e l’altro.

men in beige (fashion blogger per un giorno)

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Vestirsi tutto di un solo colore è una tecnica distintiva piuttosto efficace perché denota un registro di ricerca e di personalità raro, soprattutto di questi tempi in cui la moda ha toccato il fondo. Quello che non si spiega è il fatto che non sempre il monocromatismo trasmette ordine e rigore perché, come potete immaginare, tutto dipende dalla tinta che abbiamo scelto. Prima di farvi qualche esempio, sfatiamo subito il mito del ton sur ton perché quando il grado di differenza tra un capo e l’altro è irrisorio ma allo stesso tempo incontestabile non se ne giustifica l’abbinamento e il risultato, lasciatemi dire, è fallimentare. L’archetipo è il classico dei classici, ovvero l’all black, considerando che il nero sta bene su tutto e il tutto nero non sfigura in nessun contesto: i Cure, la nazionale di rugby, i seguaci di Malcolm X, i mimi e un certo teatro di avanguardia di cui al massimo posso citare la parodia che ne faceva Raimondo Vianello. Se ti vesti tutto di verde, invece, quando hai il fisico sembri Rambo e quando ti manca, è il mio caso, e sbagli il parka i colleghi si prendono gioco di te chiedendoti se vai a pesca, e come dargli torto. Tutto in rosso non mi viene in mente nulla se non Miguel Bosé agli albori della sua carriera, la nazionale dell’Unione Sovietica e poco altro e, datemi retta, meglio lasciar perdere. A me piace vestirmi tutto di blu, che a mio avviso è il colore di gran lunga più elegante di tutti. Il blu scuro è una garanzia, e mi riferisco ai maglioncini girocollo come ai pantaloni di velluto e persino l’intramontabile loden. Esistono in natura, poi, completi giallo canarino o giallo banana come quello che ha scelto il mio amico Davide per il suo matrimonio, non a caso non è durato granché. Di questi tempi meglio poi non vestirsi di arancione, a Guantanamo come in alcuni territori del califfato potreste avere qualche problema di sopravvivenza. Ma il peggio del peggio è chi sceglie di vestirsi tutto in bianco, una roba che ricorda Lele Mora in quel film su Berlusconi o comunque lazzaroni edonisti e gente che non è abituata a lavorare o, nel migliore dei casi, atmosfere rivierasche retrò. Resta appunto il beige, un non-colore che è sempre di moda e che se a questo mondo si desse retta a chi ci capisce veramente sarebbe la tinta ufficiale dell’uomo. Dolcevita beige su pantalone beige con Clarks beige. Ecco l’outfit del futuro.

gli indumenti abbandonati cercano di dirci qualcosa

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L’inverno è la stagione a cui le coppie più difficilmente sopravvivono. Nella fretta, nella calca, nell’agitazione di radunare tutto cappotto zaino portapc cappello borsina con il pranzo borsone della palestra sciarpa guanti oddio, i guanti dove sono? Il sinistro è in tasca del cappotto ma il destro? Ecco, quella dei guanti è la coppia che per prima tende a dissolversi con il freddo e a causa del nostro tenore di vita, della sbadataggine, di quanto poco siamo concentrati sui dettagli. I guanti durano meno stagioni persino di certi calzini scuri separati in due lavaggi diversi. Uno finisce in lavatrice ma l’altro, complice la scarsa luminosità dell’antibagno, resta nascosto in qualche anfratto del cestone della roba sporca e si sa, non è che tutti i giorni si può fare lo scuro, e raramente il paio si ricompone ma almeno loro restano conviventi nella stessa casa. I guanti smarriti invece finiscono chissà dove, qualcuno li nota ma fa finta di niente, qualcun altro li appoggia da qualche parte bene in vista tanto il proprietario non passerà più di lì, almeno non prima che qualche addetto alle pulizie eserciti il suo zelo e applichi la procedura del caso.

Gli indumenti abbandonati cercano di dirci qualcosa. Il guanto aperto sul marciapiede con il palmo rivolto verso l’alto sembra voler esser preso per mano e portato via dalla ressa del mattino. Il berretto calpestato che è invece un capo singolo corre persino il rischio di esser raccolto da chissà chi. Certe sciarpe giacciono sui sedili del cinema, lungo gli spalti di palazzetti dello sport di provincia, penzolanti su appendiabiti in antiche sale d’aspetto di medici condotti sotto lo sguardo vigile di nutriti plotoni di eserciti di altri tempi stampati su fogli ingialliti. Interi guardaroba di stagioni passate languono esposti alle intemperie ai piedi dei raccoglitori gialli di cose per i poveri, giacche scarpe e persino certe volte biancheria intima che nessuno si premura di spostare da lì. E non ci sarebbe nulla di male se tutta questa roba persa o abbandonata non fosse a forma di essere umano o di sue parti. Mani, teste, piedi, spalle, toraci e gambe, involucri lasciati dove capita come se anche noi fossimo una specie che cambia la muta.

la superiorità morale degli uomini con i tasconi rispetto agli uomini col borsello

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I migliori amici dell’uomo sono da tempo i pantaloni con i tasconi laterali, un modello derivativo che prende spunto dall’abbigliamento di tipo militare e che unisce in sé alcuni aspetti che fanno la felicità per il genere maschile, a partire dalla possibilità di portare con sé tutto il necessario – che è sempre tanto – senza dover ricorrere all’utilizzo di una borsa, come fanno le donne, o peggio di un borsello, come fanno certi altri uomini. Si ha quindi a disposizione un totale di sei tasche che ai più ortodossi sostenitori delle linee tradizionali della moda suona un po’ un’anomalia, l’equivalente per la Formula 1 della Tyrell a sei ruote guidata da Jody Scheckter perché, in effetti, la tendenza a caricarsi di roba all’altezza delle cosce genera curiosi inestetismi. Ma noi uomini di queste questioni da donnicciole ce ne fottiamo abbastanza e scommetto che se di tasconi ne avessimo quattro da una gamba e quattro dall’altra li riempiremmo tutti, perché per noi uomini l’avere tutto il necessario a portata di mano ma a mani libere è un istinto liberatorio ancestrale che chissà da dove deriva. Gli aborigeni che vediamo alla tv e che probabilmente sono la cosa più simile all’uomo primitivo che abbiamo a disposizione mica ce li hanno i tasconi sulle gambe nude quando vanno a caccia e le loro armi rudimentali se le tengono in mano.

Ogni uomo ha poi il proprio schema logistico per la sistemazione delle cose nei tasconi e che riflette la stessa matrice utile per caricare la lavastoviglie o disporre i bagagli nell’auto prima di partire per le vacanze. Qui non c’è un vero e proprio metodo universale e potete stare tranquilli che ogni uomo è pronto a sostenere che il proprio è il più efficace. Io per esempio metto il portafoglio nella tasca anteriore destra e mai in quella posteriore, un po’ perché temo i borseggiatori sui mezzi e un po’ perché non voglio rovinare carta di credito, bancomat e i documenti sedendomici sopra, senza contare la moneta che a causa dell’euro ha riportato alla ribalta gli spiccioli e non c’è niente di più fastidioso. Altro che referendum.

Lo smartphone lo tengo nel tascone sinistro, da cui fuoriesce l’auricolare, il che non è il massimo dal punto di vista funzionale perché ogni volta un cui mi occorre usarlo devo piegarmi mentre, se lo tenessi nell’anteriore sinistra, sarebbe più semplice. Però sono succube del terrorismo psicologico verso i danni che le batterie al litio possono fare al corpo umano e tenerlo in prossimità delle zone più vulnerabili mi fa un po’ effetto. Le chiavi le metto nel tascone destro, così quando cammino sembra che passi una congrega di Hare Kṛṣṇa con tanto di tamburelli e sonagli, insieme alla ricarica di riserva dello smartphone che, potete capire, è fondamentale per muoversi nella giungla urbana piena di pericoli. Metti che ti succede qualcosa e hai il telefono scarico, cosa fai? Nell’anteriore sinistra ci va il fazzoletto e, soprattutto, la mano che sono abituato a tenere lì.

I pantaloni con i tasconi hanno tutti pro? No, perché come qualunque altra cosa disponibile in quantità superiore rispetto al reale bisogno genera confusione e, talvolta, manda nel panico. Nei momenti di stress è difficile mantenere la lucidità e riporre chiavi o il portafoglio nell’apposito slot. Sei di fretta alla cassa dell’Esselunga con il mondo dietro che ti pressa perché devi lasciargli il posto e così finisce il portafoglio lo metti nel tascone sinistro. O hai dovuto rispondere al telefono dopo aver parcheggiato e, nella insormontabile complessità di svolgere due operazioni critiche simultaneamente, hai riposto le chiavi della macchina nella tasca posteriore. Quindi è facile vedere uomini indossare pantaloni con i tasconi che passano il tempo a palparsi nell’ordine tasca anteriore destra, tasca anteriore sinistra, tascone destro, tascone sinistro, tasca posteriore destra, tasca posteriore sinistra per controllare se tutto è a posto in un esilarante balletto degno di Don Lurio e Lola Falana.

fenomenologia degli avanzi

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I parametri di estetica e il design basato sul gusto imperante cambiano con il tempo senza che noi ce ne accorgiamo perché nelle linee che vanno per la maggiore ci siamo immersi fino al collo e oltre. L’occhio si abitua, un po’ come quando hai un figlio che ti gira per casa da sempre tutti i santi giorni e ti accorgi che è cresciuto solo quando è troppo tardi e ti sta per accoltellare perché ha vergogna di confessare che i voti sul libretto dell’Università sono tutti inventati. Incredibile, eh?

Ma quello che volevo dire è che ci sono oggetti che stanno bene sempre e comunque come la celeberrima Radio Cubo Brionvega, che si perpetua uguale nei secoli dei secoli. Già per la Cinquecento qualche aggiustamento è stato fatto, più o meno è stata pompata in modo direttamente proporzionale rispetto a come è cresciuto il fisico dei centometristi afroamericani che poi è una cosa che non mi spiego. Negli anni settanta tutti asciutti e snelli, oggi spessi come lottatori di wrestling ma corrono il doppio più veloce.

A volte sembra tutto più grosso, il che è bizzarro in una civiltà che tende a miniaturizzare per occupare il meno possibile lo spazio obbligatorio per lasciare il massimo della libertà a chi ne usufruisce. Forse è tutta una scusa per giustificare il maggior impiego di materiali e, di conseguenza, i prezzi sempre più alti? Non so. Ci sono tantissimi genitori che non buttano via nulla dei figli, per farvi un esempio. Io che ho lo stesso numero di scarpe dalla prima superiore ho provato tempo va a indossare un paio di creeper da punk conservate da mia mamma nella loro confezione originale, che già allora – nei primi ottanta – mi sembravano enormi. E invece no, sono solo più larghe di una manciata di millimetri della mia pianta e l’impressione è stata disarmante, abituato alle nuove linee a cui il mercato e i suoi complici ci hanno assuefatto e che, con le loro proporzioni, sembrano voler mettere uno spazio difensivo tra il piede e il mondo esterno che è sempre pronto a saltarci sopra e a pestarli, in senso proprio e in senso metaforico.

C’è chi se ne fotte e va in giro puzzando di negozio di abbigliamento vintage con i mocassini mod, quelli minuscoli con le nappe. Magari sono gli stessi che li vedi al ritorno dai raduni delle Lambrette, lenti e impacciati in autostrada in balia di maxiscooter e gigantoni di adesso su due ruote. Per questo è meglio far fuori tutto e subito e non lasciare che ci sia futura commistione tra l’oggi e il futuro. Aprite i vostri armadi e, di questi tempi festaioli, spalancate i vostri frigoriferi. Fate sparire tutto. Il cibo fresco, a differenza del tessuto, va a male ed è il primo in ordine di gravità a dover essere circoscritto al presente, questo è anche il modo per accorgersi più facilmente che le taglie non sono più le stesse di una volta, almeno di prima di Natale. Io che vesto quarantotto, se metto un quarantotto alla Alighiero Noschese, un modo come un altro per parlare degli anni settanta, non ho alcuna possibilità di entrarci. Se consumo tutti gli avanzi dei cenoni passati ancora peggio. Dateci dentro con i rimasugli di cibo, fiduciosi il meno possibile nel domani. Discorso diverso per il panettone: tutti sanno che c’è tempo fino a San Biagio.

raggira la moda

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Parte da questo blog una nuova e costruttiva iniziativa di protesta. Quanto vi apprestate a leggere è il manifesto del Movimento Attivista del non-Shopping. Ci ribelliamo contro l’abbigliamento cheap, che è cheap solo nella qualità, nella fattura, nella composizione e nei dettagli ma non nel prezzo, perché comunque costa, i saldi sono farlocchi, e dopo una stagione è impresentabile e lo devi gettare via. E ci ribelliamo anche alle griffe, perché fuori della nostra portata, inaccessibili economicamente, e, detto tra noi, non è che ci stiano poi così bene. Noi del Movimento Attivista del non-Shopping vestiamo da sempre quattro capi in croce, sempre gli stessi, almeno dalle superiori. Continua a leggere. (da Alcuni aneddoti dal mio futuro del 23/07/2011)

Disclaimer: in estate chiunque si barrica dietro un autoreply di chiuso per ferie e mette in sua vece un ologramma giusto per tenergli caldo il suo centimetro quadrato di spazio on line per il ritorno. Sapete, di questi tempi meglio non lesinare in sicurezza, i posti si fanno presto a perdere e mettere un surrogato di sé stessi può essere una strategia vincente. Così noi che apparteniamo a una sottospecie di categoria di esodati ma solo perché abbiamo preso parte come milioni di altri alle partenze molto poco intelligenti, ma allo stesso tempo non vogliamo che vi dimentichiate di noi, abbiamo pensato di pubblicare in questo periodo di vacanza qualcosa di già edito, nostro o altrui, o qualche pezzo a cui siamo particolarmente affezionati. Ciò non toglie che l’ispirazione, dai mari della Sardegna, faccia capolino di tanto in tanto.

incline al raddoppio

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Fa un po’ vecchio ragionare in lire. Anche se in molti sono lì pronti a denigrare l’euro ormai si tratta di una valuta abbastanza consolidata, saranno dieci anni no? Ma quando vedo con la coda dell’occhio il cartellino nell’ennesima vetrina in allestimento (apro una parentesi, come vedete: che poi uno pensa che quello del vetrinista sia davvero un mestiere redditizio visto che tengono aperti cantieri ovunque, tutte le vetrine sono in allestimento più che la fabbrica del Duomo e mi viene da entrare e offrirmi volontario per terminare per loro, anche senza compenso, quell’opera incompiuta. Ma se osservi bene ti viene da pensare quale sia poi la parte da terminare, sembra tutto a posto e vuoi vedere allora che magari quella della vetrina in allestimento è una dicitura che si mette così, l’ennesimo trucchetto per aggirare qualche normativa per i titolari di negozi? mi accingo a chiudere la parentesi) dicevo che con la coda dell’occhio vedo il cartellino di un prezzo nell’ennesima vetrina in allestimento. Il cartellino dice pantalone 150 euro. Fa un po’ vecchio, ma trecentomila lire io non le spenderei mai per un paio di calzoni, non è solo prima della moneta unica che me ne sarei guardato bene. E ci sarà di mezzo la svalutazione, il rincaro dei prezzi e tutti i motivi per cui se acquisti quei pantaloni, un paio di scarpe, una camicia e un golfino in quel negozio alla fine superi i due milioni di lire, e fai i paragoni perché quando hai iniziato a lavorare uno stipendio da due milioni al mese, che oggi si sono liofilizzati nei mille euro dell”omonima generazione, quando ho iniziato a lavorare io due milioni al mese era un signor stipendio. Quindi dovrei lavorare un mese per vestirmi da capo a piedi e senza nemmeno un ricambio che prima o poi dovrò lavare qualcosa no? O faccio come si faceva ai tempi dei nostri nonni, che lavavano la sera per avere asciutto la mattina e pronto da essere indossato, un vestito e va bene così. E sapete che cosa ci si comprava con trentamila lire nel 75? Una cosa di valore, nel 75, perché trentamilalire di allora erano quasi i 150 euro di adesso, il prezzo di quei pantaloni che ho appena visto in vetrina, peraltro di taglio oltremodo discutibile. E io ricevetti in regalo a Natale di quell’anno il Subbuteo, sotto l’albero, che già non me lo speravo più perché da quando avevo saputo quanto costava lo avevo cancellato dalla lettera a Babbo Natale. Costava proprio trentamila lire, guarda un po’, e quello è stato il Natale più bello di tutta la mia vita precedente all’introduzione della moneta unica. Non chiedetemi cosa sceglierei, ora, se potessi, tra il Subbuteo e un paio di pantaloni così glamour.

raggira la moda

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Parte da questo blog una nuova e costruttiva iniziativa di protesta. Quanto vi apprestate a leggere è il manifesto del Movimento Attivista del non-Shopping. Ci ribelliamo contro l’abbigliamento cheap, che è cheap solo nella qualità, nella fattura, nella composizione e nei dettagli ma non nel prezzo, perché comunque costa, i saldi sono farlocchi, e dopo una stagione è impresentabile e lo devi gettare via. E ci ribelliamo anche alle griffe, perché fuori della nostra portata, inaccessibili economicamente, e, detto tra noi, non è che ci stiano poi così bene. Noi del Movimento Attivista del non-Shopping vestiamo da sempre quattro capi in croce, sempre gli stessi, almeno dalle superiori. Riacquistandoli quando sono lisi, chiaro, uguali a quello appena dismesso, al limite si varia il colore, per esempio la polacchina scamosciata marron anziché blu scura, oppure beige, ma non riusciamo a scostarci dal nostro stile. Che poi è un non-stile ed è sempre quello. Qualche volta abbiamo azzardato un tentativo di innovazione, ed ecco che scarpe alla moda, pantaloni non a sigaretta, maglioncini colorati si sono rassegnati alla clausura in fondo ai nostri cassetti, alcuni hanno persino tentato il suicidio ormai disperando dall’essere indossati, un vero affronto a chi non ha nemmeno gli occhi per piangere*.

Noi del Movimento Attivista del non-Shopping abbiamo un feroce metodo di attacco, un modo irriverente di sfidare i nostri avversari, che sono i negozi tutti uguali della città e dei centri commerciali. Per non parlare degli outlet in cui i nostri/e compagni/e di vita ci trascinano nella speranza che un capo, disegnato per essere venduto a 2.000 euro e proposto in esclusiva a metà prezzo, ci convinca a cambiare abitudini, anzi, costumi. Ma, al 50%, si tratta pur sempre di 1.000 euro, quasi un mese del nostro lavoro per un po’ di stoffa cucita. Non se ne parla, è contro i nostri principi. Così si va a spasso per negozi, si entra, si prova, si commenta e si giudica l’articolo positivamente, ammiccando a commessi e clienti. Quindi si rimette a posto il capo dove era e si esce dal negozio, senza comprarlo, non prima di aver salutato l’addetto ringraziandolo per la cortesia. A fine giornata si fa il calcolo di quanto si è risparmiato, in questa performance che è una via di mezzo tra l’internazionale situazionista e la gag da candid camera. Ieri, per esempio, ho risparmiato più di 100 euro rimettendo a posto un paio di scarpe di tela. In saldo. Roba da matti.

* idiozie (le mie) a parte, per chi ha abiti che non usa più, abbigliamento appartenuto ai propri piccoli ormai cresciuti eccetera, e non sa che cosa farsene e abita a Milano, è possibile portare tutto al centro di raccolta dell’OSF, in zona Lambrate, hanno un gigantesco e ordinatissimo magazzino e da lì smistano tutto alle varie organizzazioni di assistenza. Aperto anche al sabato, ma controllate gli orari estivi.