verso una posizione di prestigio a bordo di un'utilitaria euro 3

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La mobilità sociale è contro natura, ti fa perdere un sacco di tempo e crea solo frustrazioni. Pensate solo agli ingorghi di tutta la povera gente che aspira ai posti vacanti di celebrità che ci hanno lasciato le penne ultimamente, la pessima viabilità nei pressi dei talent show con tutti quei semafori verdi che si accendono a cazzo o la grande truffa della visibilità a chilometro zero, che illude giovani e meno giovani che si dannano sul web come se, davvero, offerta e domanda di successo fossero pari. Poi volete mettere un sano percorso di vita uniforme rispetto a trovarsi a un certo punto, magari verso i cinquant’anni, agli antipodi di se stessi? A me piace mantenere certe costanti e questo indipendentemente da dove mi trovi, e tenete conto che sono uno che usa quasi esclusivamente i mezzi su rotaia per spostarsi da una classe sociale all’altra, ma giusto perché permettono di crescere o finire in disgrazia con particolare naturalezza, molto stile, spendendo poco e, soprattutto, leggendo narrativa americana contemporanea nel caso di ritardi o soppressioni e i tempi morti in genere. Avete presente quella filosofia da tanto al mucchio che cerca di far riflettere su quanto sia inutile fare più giri della merda nei tubi (cit. mia nonna) quando è dentro di sé che occorre trovare la giusta destinazione? Ecco, io ero cialtrone ai tempi della seconda media quando criticavo i titoli e gli autori della biblioteca di classe tanto quanto mentre prendevo immeritatamente voti altissimi all’università e, allo stesso modo, firmando contratti prestigiosi ma poco redditizi nelle numerose società per le quali ho prestato servizio, convincendo vari datori di lavoro su certe mie attitudini totalmente inventate. Cambiarsi è impossibile, questo a qualunque latitudine. Quindi state dove siete, rassegnati o senza i soldi utili per tentare un riscatto, e godetevi il viaggio così com’è.

mi viene voglia di cambiare il cognome

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Scusa Francesco, sono ancora in tempo per gli auguri? Allora te li faccio con il pezzo di De Gregori che preferisco. Non è certo uno dei più celebri, raramente si trovava nei karaoke e nelle scalette dei pianisti di pianobar, il motivo per cui, dopo anni di servizio, ancora oggi le pagine chiare e le pagine scure mi fanno venire in mente le coppiette imbellettate nei sabati sera al bar di provincia, laddove la musica è solo un ingrediente in più del cocktail da finire prima di andare in disco. E, ti dirò, io che a voi cantautori non vi ascoltavo molto, quando eravate sulla cresta dell’onda, perché obnubilato (a volte a ragione) di lacca e di esterofilia post-punk, ho iniziato la fase di riconciliazione con l’italianità del songwriting quando eravate già in declino, un po’ demodè. E ho fatto mio al primo ascolto questo pezzo, per la sua atmosfera di spalle rivolte al mondo, una mattina pochi mesi prima della laurea, in totale confusione sulla mia vita e su quella che si muoveva intorno a me, un groviglio di individui indistinti. Un grande pezzo con un grande assolo di chitarra, almeno in questa versione live, di un De Gregori un po’ rocker.