sbagliare è umano, perseverare perché no

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Se vedete qualcuno che sbaglia ma è convinto che sta facendo la cosa giusta io direi di lasciarlo perdere, non sentitevi in dovere di mostrargli la procedura corretta così da una parte si evita di peccare di presunzione – sempre meglio tenere un tono dimesso anche quando si ha ragione, sapete che chi vince senza vantarsi vince due volte – dall’altra non si mandano a ramengo l’autostima e le certezze di una persona. Gli uomini in questo sono insuperabili e addirittura si sono divisi in due correnti per coprire al meglio tutte le casistiche. Da una parte gli amici che sono per la verità a tutti i costi e che vale sia per le questioni amorose che per il modo in cui fai la pizza fatta in casa o per il materiale più efficace per mensolare il box. Dall’altra gli esemplari alfa classici che comunque come si comportano loro non c’è paragone al mondo. Notare però che rientra anche nella categoria della presunzione chi non cerca mai aiuto, che poi è l’esasperazione del non chiedere mai indicazioni quando si è in difficoltà in macchina e a questo proposito sono certo che i sistemi di geolocalizzazione e i navigatori satellitari sono una conquista tutta maschile, non a caso purtroppo l’ingegneria è ancora una nostra prerogativa e ci scommetto che se fosse il contrario al posto del Tom Tom le scienziate donne avrebbero brevettato un sistema per partorire in modo indolore. Il punto quindi è che non c’è nulla di male a commettere errori e lo stesso vale per aiutare il prossimo a porre un rimedio, ma in generale trovo corretto intervenire solo quando è richiesto a meno che le conseguenze, manco a dirlo, non minaccino l’incolumità. Così ne approfitto per chiedervi dove sto sbagliando, che cosa c’è di male in quello che faccio, perché non accorrete in milioni a leggere le mie storie, cosa c’è che non va nei miei libri che nessuno mi chiede di pubblicarli, quali sono gli autori che preferite a me e perché. Se siete amici mi dovete una spiegazione. Se no, mi va bene anche che facciate i so tutto io e mi diate qualche dritta definitiva. Grazie.

vita, morte e miracoli di un personaggio virtuale

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Siete abbastanza grandi da ricordare il paradosso del tamagotchi, quello che ne ha decretato il successo ma che ci ha lasciato tutti sgomenti. Ma come? Un prodotto della programmazione software progettato per morire e non svegliarsi più, in casi ben chiari di incuria del possessore. Il primo game over definitivo della storia senza nessuna possibilità di fare un’altra partita. La morte di un’entità artificiale ci ha colto così impreparati, ha riempito le tasche di qualche industria giapponese e ha distrutto i sogni della pong generation. La posta si era alzata, guastando la festa di chi si gettava a capofitto nel mondo virtuale per trovarvi l’eternità non disponibile al di qua del display.

Oggi i tamagotchi si chiamano amici o contatti o follower sui social network. Sono identità digitali che dobbiamo accudire a seconda del rapporto che ci lega a loro: persone che conosciamo o meno anche dal vivo, amicizie e relazioni nate sul web, oppure sconosciuti che ingrandiscono il valore della nostra popolarità su Internet e, di conseguenza, a quanto ammonta in soldoni il nostro status di influencer. Lasciare uno di loro senza la nostra attenzione, che è l’equivalente dell’accudimento del tamagotchi, può anche causarne il distacco definitivo dai nostri profili. Quando uno dei nostri contatti ci toglie l’amicizia o ci defollowa sparisce dalla nostra vita virtuale, che è un po’ come non esistere più. Morire, insomma.

Ma alle identità digitali che corrispondono a persone in carne e ossa può capitare di morire davvero. Non mi riferisco alla morte raccontata in tempo reale, che è un argomento che raccoglie molti consensi perché fa molto tv verità. Io stesso ho scritto molto della malattia di mio papà e ho pubblicato persino due righe quando è mancato su Facebook. Poi me ne sono pentito perché la spettacolarizzazione di fatti così privati non è una cosa di buon gusto.

Capita invece che un amico di Facebook o un qualcuno che segui su Twitter, giovane o vecchio che sia, ci lasci le penne. Ora non mi soffermo sul lutto in sé perché potete immaginare le sensazioni che si provano quando viene a mancare un’identità digitale con cui hai condiviso momenti sui social network, una casistica in cui entrano in gioco diversi fattori, in primis la sensibilità soggettiva. Ma è la dinamica che mi colpisce sempre, ed è successo proprio un paio di giorni fa per il caro Marco Scud Scudeletti, un tizio sulla sessantina  che spammava bonariamente i social network con le sue foto scattate in giro per Milano. Lasciano uno status su Facebook la sera prima di coricarsi, magari una boutade o qualcosa che ti capovolge tanto è divertente, o uno spunto di riflessione. Un video di youtube. Una immagine appena trovata in rete con un commento. Come fanno tutti insomma. Poi, la mattina dopo, sulla pagina o sul profilo Twitter trovi la brutta notizia, o magari qualcuno che ne è già al corrente scrive qualcosa in ricordo e tu non capisci, pensi che non sia possibile, fino a ieri sera ha commentato in botta e risposta con te qualcosa, o ti ha dato man forte nel trollare l’ennesimo grillista con la verità in tasca.

Ma che ci volete fare: sono le nuove realtà virtuali a cui dobbiamo fare l’abitudine e imparare, soprattutto, a comportarci di conseguenza. Farci un corredo di stati d’animo ad hoc per la nostra vita digitale. Nel frattempo, scrivere due righe di commiato, un’epigrafe in bit, non mi sembra tutto sommato una cattiva procedura. Quindi, caro Marco Scud, ti saluto anche se ti ho visto di persona una volta sola, ma spero che ti sia riuscito a procurare in tempo un teleobiettivo potente per continuare a fare le foto da lassù.