storia d’amore con dedica

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Era il metodo migliore per cacciarsi nei guai, questo lo sapeva bene e ho letto la sua consapevolezza tendente a rassegnazione nella sua espressione, mentre la aspettava all’angolo con la ventiquattrore in una mano e il libro che le aveva acquistato come presentino nell’altra. Prima di incartare quel volume di Baricco, che io non accetterei in dono manco morto ma non ho amici che mi regalano libri, anzi, non ho amici tout court perché poi scrivo cose come che io un libro di Baricco non lo accetterei in dono manco morto e, siccome Baricco piace a tutti, i tutti si offendono e mi levano l’amicizia nel modo più semplice, nella vita c’è un pulsante apposito come su Facebook. Dicevo che prima di incartare con le sue mani quel volume di Baricco le aveva pure scritto una dedica nella seconda di copertina, nemmeno piuttosto esplicita semmai virante alla tenerezza.

Ma se uno che conosci da poco ti scrive una dedica su un libro di Baricco sotto sotto qualcosa c’è. Insomma, da adulti a certe smancerie nessuno abbocca più e forse si farebbe prima a fare una richiesta come quando sei dal panettiere e chiedi questo e quello e il conto. Così vai da una persona e le chiedi una corsa semplice andata e ritorno o addirittura di sola andata, o un abbonamento integrato a qualche mese di viaggi di piacere, oppure tutta una vita di routine con posto riservato dalla stessa partenza allo stesso arrivo, scioperi permettendo. Avete colto la metafora, vero?

Metafora più che azzeccata, perché i due si erano conosciuti così, occupando gli stessi posti ogni giorno sul treno da Varese a Milano quasi come in quel film con Meryl Streep e Robert De Niro. State calmi. Non ho detto che si erano innamorati, almeno questo lei non me lo ha raccontato. Flirtavano, per quanto fosse possibile. Lui aveva già una famiglia numerosa all’attivo: una bambina alle elementari a cui si erano aggiunte due gemelle di quelle che non ti aspetti. Vuoi fare il bis ma poi il bis ti prende in parola e te ne escono davvero due, e da uno a tre c’è una bella differenza in termini di impegno.

Lei invece conduceva con fatica una di quelle relazioni che non sai come ci finisci dentro, con un elettricista peraltro di qualche anno più giovane. Lei tutto sommato molto attraente a differenza di lui che invece boh. Tra l’altro un figlio unico con una scarsa visione progettuale per il futuro prossimo, soprattutto insieme a qualcun altro che non fosse se stesso o, al massimo, i suoi genitori. Uno che si professava di destra e ascoltava De André. Per questo lei teneva sempre una porta accostata sperando che qualcuno si infilasse dentro, e non è un doppio senso ma mi riferivo alla sua vita, un estraneo che perdendo la testa le scrollasse di dosso la responsabilità di aver interrotto un rapporto che si perpetrava come un’espressione matematica infinita. Prima le moltiplicazioni e le divisioni e le parentesi tonde e poi le quadre e le graffe, solo che il risultato non arrivava mai. Senza contare il rischio di sbagliare un calcolo in corso di svolgimento.

Anche lui, il potenziale amante, era belloccio, vestito da avvocato e con un portamento alla Alessandro Gasmann, avete presente. Non sapeva come ci si fosse buttato in mezzo a quel gioco delle parti, insomma tra il lavoro e la casa c’era il rischio che, da un diversivo alimentato a compiacimento dell’ego – a chi non piace piacere a qualcuno -quella si trasformasse in una storia parallela tutta da gestire e con le conseguenze che ti tirano scemo. Quando ci si vede. Dove ci si vede. Che scusa utilizzare. Come distruggere le prove. Valutare il rischio di ritorsioni. Attivare un nuovo contratto telefonico dedicato. Valutare il rischio di delatori. Valutare il rischio di rovinarsi con le proprie mani. Valutare il rischio di finire in disgrazia. Cose così insomma. Da un libro di Baricco con tanto di dedica vorrei-ma-non-posso a trovarsi in un residence per divorziati il passo è breve.

Lei però aveva intravisto una via di fuga per di più con un professionista di una certa eleganza, così lontano dall’operatore dell’Enel con cui condivideva il letto a due piazze. Tutta soddisfatta della lettura e dei contenuti tra le righe che avrebbe trovato nel libro di Baricco, così attinenti a quella storia d’amore clandestina non ancora consumata, un giorno aveva abilmente guidato una conversazione durante un viaggio verso Milano – la mattina si è tutti un po’ più ambiziosi – su una gita al mare che avrebbero potuto fare accompagnandosi a quei pochi altri compagni di pendolarismo. Era primavera inoltrata, la fuga verso la costa è uno degli argomenti più battuti tra chi è costretto alla pianura quotidiana delle periferie dal clima continentale, ed entrambi avrebbero potuto godersi un po’ di compagnia reciproca con l’alibi ufficiale della gita di gruppo.

Poi non so come sia andata a finire, se il piano sia stato messo in pratica e il programma abbia funzionato. Se c’è addirittura stata una defezione di massa in fase organizzativa: probabilmente, a furia di viaggiare con loro, gli altri devono avere pur percepito quello che si stava sviluppando tra i due, defilandosi così con l’obiettivo di lasciarli soli ma non per loro volontà.

Mi sono immaginato però i loro corpi in costume da bagno anche se non fa così caldo, a vedersi così inusualmente senza vestiti per la prima volta su un pezzo di spiaggia deserta in un giorno lavorativo, dopo aver utilizzato una feria. Una brezza leggera quanto il senso di colpa per la perplessità dei rispettivi partner, stupiti più che preoccupati per una cosa così puerile come una gita con persone che si conoscono appena. Me li sono immaginati magari poi presi dalla reciproca attrazione a combinare qualcosa in quello scenario così fuori stagione, un po’ come loro due. Ma sono tutte congetture, le mie.

So però come è finita. Dopo un paio di settimane dall’omaggio letterario con dedica, lei si è scoperta incinta del suo compagno. Ma aveva già ammesso alla sua collega e migliore amica che comunque un po’ quel tipo alla Alessandro Gasmann la ispirava, a forza di trascorrere le pause pranzo insieme la cosa sembrava prendere forma, e che aveva paura di complicare le vite di tutti, che già la sua, di vita, si era manifestata più volte in forma catastrofica. È facile immaginare quali sarebbero state le conseguenze per il finto Alessandro Gasmann, per la sua famiglia numerosa, e per l’operaio dell’Enel, che lei non riusciva a ricordarsi perché fosse comunque ancora nei suoi progetti ma che ora c’era pure la prova che stava crescendo da qualche parte nella sua pancia.

E aspettare un bambino era in fondo quello che ci voleva, anzi posso affermare con certezza che ha cercato fortemente un epilogo così privo di contraddittorio per avere una cosa più grande che scegliesse per lei. Il motivo forse più ineluttabile che le consentisse di liberarsi dalla responsabilità di fare una scelta, qualunque essa fosse stata. Non posso farci niente, mi sembra di sentirle dire al telefono, aspetto un bambino, non è colpa mia.

Non conosco invece che ne è stato del libro di Baricco con la dedica. Lei voleva regalarmelo perché non avrebbe potuto certo tenerselo in casa, con il rischio di destare sospetti nel futuro padre di suo figlio. Mi sono sentito in dovere di rifiutare. Baricco proprio no, davvero, non ce la farei.

ecco perché non bisognerebbe mai dire che qualcuno è stato asfaltato

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Susanna era uscita di scena nel modo più tragico che in quel contesto storico si poteva immaginare. Nel pieno del riflusso che nella provincia italiana aveva assunto più le sembianze di un rigurgito, conclusa l’epopea dell’eroina, un fenomeno in fase di normalizzazione a favore di un meno drammatico entusiasmo trasversale per le droghe comunemente dette leggere, l’epilogo piuttosto usuale per i decessi anticipati era quello della morte sulla strada. Ecco, l’unico aspetto positivo dell’alienazione degli adolescenti per i gadget tecnologici di oggi forse è la fine dell’alienazione degli adolescenti per i motori, quando l’ambiente di contorno non può offrire altri strumenti di evasione, tanto meno di emancipazione.

Voglio dire, meglio una denuncia della polizia postale per stalking o della Digos per attaccare il sito della Procura di Genova nei giorni del G8 dalla postazione in ufficio, per poi farti arrestare sotto gli occhi di colleghi e datore di lavoro con figura di merda annessa (è successo a un mio ex collega, giuro)  piuttosto che finire sugli scogli con una Opel Corsa GSI lanciata a più di cento km all’ora sull’Aurelia. Soprattutto se e quando il conducente si salva e la partner, al suo fianco e obnubilata dalla cieca e romantica fiducia per l’uomo con le mani salde sul volante, perde tutto. Susanna non ha raggiunto nemmeno l’età per prendere la patente, per dire, perché il ragazzo con il quale sognava di trascorrere tutta la vita già a sedici anni pensava di farcela a sostenere la curva pur non lesinando in emozioni da condividere. Ho sempre pensato a quell’attimo e a quella curva così: una canzone di Vasco a tutto volume sull’Alpine, l’asfalto viscido di salsedine, una frenata e poi il buio. Ciao.

Per non parlare delle motociclette. C’era Massimiliano che aveva il Ténéré e tutte le volte che gli amici lo vedevano partire per tragitti di media distanza c’era sempre da aspettarsi qualcosa. La scampagnata che finiva al pronto soccorso, nei casi migliori lui e il passeggero costretti a cercare un passaggio e a lasciare la moto lì, semidistrutta. E ovviamente nessuno che voleva viaggiare sulla sella con lui, ma alla fine toccava sempre a qualcuno, pena rimanere a casa, che con il senno di poi era anche meglio. A Massimiliano è andata bene, una serie di incidenti ma mai nessuno grave, e se ha avuto qualche conseguenza non è stato a causa della moto ma perché aveva la sbronza pericolosa. Una volta che gli è preso male è tornato in un locale sul litorale in cui non si era divertito, in piena notte e a serrande chiuse, per sfasciare tutto fino all’arrivo dei Carabinieri che sono riusciti ad arrestarlo solo perché aveva pensato di fuggire a nuoto. Chissà dove pensava di arrivare.

È andata peggio invece ai quattro dark di uno di quei paesotti il cui nome era sulla bocca di tutti ma perché storpiato per l’assonanza con la pratica – in gergo degli addetti ai lavori – di iniettarsi roba pesante in vena. Sono finiti giù in mare in barba a quelli che dicono che orientarsi in Liguria è più facile perché c’è un punto cardinale fisso e non ti puoi sbagliare. Le mamme delle vittime si sono messe d’accordo per vestirli tutti di bianco per la sepoltura, giusto per inasprire il conflitto tra persone per bene e musica alternativa. Chiude questa rassegna di morti Dario con i suoi due fratelli, lui che, sopravvissuto, continua a guidare imperturbabile una specie di Harley Davidson malgrado i suoi genitori abbiano già perso due figli più grandi in sella a due moto in due tragedie differenti. Muoversi e spostarsi ti espone a rischi più numerosi: oltre a quelli a cui sei soggetto se stai fermo ci sono sempre quelli in agguato nei punti in cui non dovresti stare, dove nessuno aveva previsto dovessi passare tu, e più velocemente rispetto alle tue capacità naturali.

valentine’s day is over

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Si erano promessi amore eterno che è anche una bella cosa da dirsi ma che a diciott’anni risulta tremendamente inopportuna. Eppure ci sono quelle persone nate per l’amore e per questo tipo di rapporti in cui si proietta tutto subito su larga scala, con i vari per sempre e mai che suonano ingenuamente tragici se scevri dell’entusiasmo e della passione. Un po’ come quando i ragazzini più crudeli catturano le meduse con il retino e la lasciano sgonfiarsi dei liquidi sulla sabbia. L’amore considerato solo nel suo indotto è un involucro spiaggiato dal destino segnato. E gli adulti di riferimento non capivano questo donarsi reciproco, il sacrificio sproporzionato al vissuto di riferimento con il rischio di preclusione di un futuro vantaggioso per entrambi, qualora i limiti dell’uno avessero tarpato i successi dell’altro. Succede così, spesso. Lei che ha le carte in regola per un master negli Stati Uniti ma lui deve rilevare il chiosco di fiorista del cimitero del padre, oppure lui che potrebbe specializzarsi in neurochirurgia a Tokio ma lei non se ne parla nemmeno di trasferirsi, ha i genitori che incombono con la loro provincia nauseabonda e poi hanno pure visto Lost in Translation. L’amore miete vittime anche così. Comunque non c’è pericolo e son cose che non fanno al caso nostro, quei due che si erano promessi amore eterno poi si sono estinti – come coppia eh – nel giro di un’estate dopo la maturità e malgrado le centinaia di migliaia di lire che nel giro di qualche anno avevano investito in regali di San Valentino. La sera prima di allontanarsi l’uno dall’altra per i soggiorni estivi imposti dalla reciproche famiglie hanno fatto a gara a chi piangeva di più e a chi avrebbe subito maggiormente l’assenza. Ma avete capito come è finita. Lei che aveva una casa di villeggiatura in Maremma è tornata dopo un paio di settimane con un orecchino misteriosamente donatole da un croato non si sa bene in cambio di che cosa. Lui che non aveva nemmeno la macchina e che le aveva promesso di coprire la distanza quotidianamente con il suo Califfone Rizzato (ve lo ricordate, vero?) a nemmeno ventiquattr’ore dalla partenza di lei si era già dato da fare con una parrucchiera dal nome improbabile, chiedendole prestazioni orali in un anfratto di un parco pubblico peraltro in orari a rischio, raccomandandosi che il tutto dovesse avvenire senza impegno. Ce ne hanno messo, poi, entrambi, a trovare l’anima gemella. D’altronde si nasce per l’amore ma poi si cresce un po’ come va.

il posto in cui sei nato si riconosce dall’odore. Senti qui.

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Il posto in cui nasci dilata inevitabilmente la prossimità con certe situazioni, magari non sempre rischiose ma diciamo quelle in cui si fa più fatica. Ma hanno ragione anche quelli che sostengono che i luoghi e gli ambienti della geografia umana sono tutti mentali. Città, periferia, campagna, mare, monti, lago, bassifondi, Parco della Vittoria, sono solo come il posto in cui ci sentiamo appartenere, quello dove sosteniamo avere ancora le radici, ciò da cui fuggiamo per poi ricrearlo ovunque e giustificarci dicendo che è naturale. Naturale coltivare i pomodori sotto i piloni dei viadotti della tangenziale perché lo si faceva anche al paesello, naturale imporsi come taglieggiatore in una nuova scuola dopo che si è stati espulsi da quella precedente con lo stesso motivo, naturale stendere i panni sulla via del centro che non ha mica lo stesso passaggio dell’aia all’ingresso della cascina.

Le coordinate terrestri sono assegnate random prima di essere abbandonati con tanto di anima nuova di zecca da qualche parte sul globo terracqueo, ed è lì che cominciano i veri guai. Io che non mi posso certo lamentare, osservo con rammarico il percorso di cui mia figlia è stata provvista, una di quelle dotazioni entry-level completamente priva di optional, a cui a fatica mamma e papà stanno provvedendo. Siamo sempre dietro a investire in cose che il posto in cui è nata non offre. Una scuola in grado di stimolarla, attività per crescere mente e corpo sani, passioni e interessi sempre da stanare negli anfratti della società che nella maggior parte dei casi sono organizzate maluccio, che se fosse per lei, la società intendo, ti vorrebbe sempre nel tempo libero nel cortile dell’oratorio o al parchetto, preda di coetanei con gli ormoni a palla che sputano intorno per marcare il territorio che, a dirla tutta, possono pure tenerselo.

Certo, poteva andare peggio. La provincia depressa da cui vengo io, per esempio, quella in cui sono nato, dove i bambini facevano la cresima con i jeans e si raccontavano del figlio della entreneuse da outdoor – avete capito cosa intendo – che aveva sorpreso il suo prof di matematica tra i clienti della madre. Poi, da quando hanno aperto negli anni novanta il primo centro commerciale, in ritardo rispetto alle altre regioni del nord che hanno più spazi pianeggianti, in molti li vedi lì a riempire scaffali di prodotti in scatola o a servire caffè ai rappresentati di prodotti per la grande distribuzione.

Ora, come sapete, invece vivo nei pressi di Milano, quello che tutti chiamano hinterland, e lavoro in centro. Quando percorro quei tre o quattro isolati della metropoli che separano la fermata del treno dal mio ufficio e osservo i genitori che accompagnano i loro figli nelle scuole di quartiere, che è un quartiere di Milano centro, penso che vedere cose diverse da quelle che vedo io, nel posto dove vivo, è già una bella fortuna. Io vedo un muretto tutto scarabocchiato da sedicenti writers che  sarei curioso di conoscere i loro punteggi nelle materie letterarie e di fronte un campo che prima o poi sarà costruito. C’è una gru smontata ormai da un anno ma poi qualcosa si dev’essere inceppato. Il costruttore in potenza sarà fallito o chissà cosa. Ma non è tanto quello. Il campo è transennato tutto intorno da tubi innocenti arrugginiti, sui quali è posato uno di quei reticolati arancioni a maglie larghe in plastica, probabilmente ha un nome tecnico ma non lo conosco. Il campo verde e marrone, un classico dell’incuria padana, con intorno il reticolato messo però in modo approssimativo, un po’ fuori e un po’ dentro i pali, complici anche le intemperie dell’inverno ma nessuno che sia venuto a toglierlo o a sistemarlo. Il reticolato di plastica arancione è lì che svolazza, ogni mattino.

Mia figlia è nata qui, nel paese della gru abbandonata e del reticolato di plastica arancione dimenticato. Frequenterà una scuola mediocre, avrà amicizie dozzinali e niente. Sembra che non ci siano grandi margini di miglioramento.

storie nella media

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Il Papa è morto stanotte a tempo di record. Peccato perché aveva l’aria di una persona mite, lo penso davvero mentre seguo i particolari al giornale radio e faccio colazione. Mamma è visibilmente emozionata, la vedo lavare le tazze già proiettata sul conclave che sarà, considerando che ne è appena finito uno. Poi esco e mentre attendo la campanella, davanti a scuola, presto attenzione alla madre del mio compagno di classe che è molto informata sulla storia della chiesa, so che ci passa molto tempo. Dice che è uno dei papati più brevi, che ce ne sono stati altri ancora più corti ma  in momenti così lontani in cui la storia vista dal 1978 potrebbe anche essere tutta un’invenzione. Fa anche qualche esempio e la sento nominare un Celestino, un Bonifacio e un Leone con qualche numero dopo che mi sfugge, dato che nel frattempo mi distraggo chiedendomi il motivo per cui la mamma del mio compagno di classe lo accompagni ancora a scuola. Trovo però la risposta nel fatto che in classe con noi, in prima media, c’è uno che ha quindici anni e gira con una catena con cui ammazza i piccioni. Quando vede i crocchi di piccioni intorno al cibo lancia la sua catena certo di colpirne almeno un paio. Proprio così, senza motivo. Il suo braccio destro che ha un anno in meno ma è in seconda, è quello che si ingegna a scardinare i distributori automatici a scopo di lucro. L’ultimo colpo è stato contro quello dei settebello Hatù che c’è fuori dalla farmacia di fronte, ma di monete non c’era granché così ha preso tutte le confezioni di preservativi e le ha distribuite all’ingresso, anche se in molti come me non sapevamo che cosa fossero ancora prima di comprenderne l’utilizzo. Sono un ipocrita e mi godo quella protezione gratuita fingendo interesse verso le vicende del Vaticano solo perché è sopraggiunto il tizio che ha fatto a pezzi il mio abbonamento per l’autobus con la sua scorta di fratelli tutti in serie, quelli che passano la maggior parte del tempo fuori dall’aula perché dentro non li vuole nessuno. Una volta hanno costretto un ragazzino a leccare i camperos di uno di loro. Al mio compagno di classe per ora non è successo ancora nulla. Eravamo insieme anche alla scuola elementare, visto che il complesso didattico è lo stesso ci teniamo a dare nostre notizie alla nostra ex maestra che invece ha ricominciato dalla prima. Nell’intervallo attraversiamo il giardino comune e andiamo a trovarla, ci fa sentire grandi e cresciuti rispetto ai suoi nuovi alunni in miniatura. Qualche tempo dopo ho un battibecco con un ripetente, però, e la cosa finisce con la resa dei conti all’uscita. Ci aspettiamo fuori poco convinti, lui non è uno di quelli aggressivi perché ha qualche problema di una specie di incontinenza e tutti lo prendiamo in giro. Ci spintoniamo un po’ prendendoci per il grembiule fin dentro la cabina telefonica, poi smettiamo e torniamo a casa facendo una parte del percorso affiancati, chiedendoci chi dei due avesse vinto. Il mio compagno di classe invece stende con un paio di mosse di qualche arte marziale imparata al cinema un ragazzino ampiamente più piccolo di noi, e quando è a terra gli molla pure qualche calcio nello stomaco. La cosa non sfugge a uno della banda dei fratelli. Il giorno dopo gli stanno per tendere un’imboscata, lui se ne accorge e scappa all’istante con uno scatto da campione di atletica. E non tutte storie vanno a esaurirsi non appena ne nasce una più grave o quando alla violenza iniziano a preferirsi le ragazze. Il più piccolo della banda dei fratelli poi un giorno mi dà dei soldi e mi chiede di comprargli le sigarette, a lui il tabaccaio non le vende mentre io ho la faccia da bravo ragazzo. Da quel giorno ho una sorta di programma di protezione perché gli tengo in custodia anche il pacchetto, visto che a lui lo perquisiscono prima delle lezioni. Un fattore che potrei usare a mio vantaggio contro Rossi, che è nel banco dietro al mio e che in un raptus di rabbia per i miei voti mi spacca una squadra da disegno tecnico in testa. Ma poi penso sia meglio di no. Rossi è senza padre, mi pare sia sfortunato già di per sé.

o taccia per sempre

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Mi aveva raccontato che il suo ex fidanzato l’aveva lasciata perché non era più sicuro di amarla, e fin qui non c’è nulla di strano. Se non che aveva annunciato questo aggiornamento circa i suoi sentimenti poco dopo averle detto che si sentiva molto fiero del fatto che la sera prima aveva cenato con un noto presentatore televisivo e un altrettanto noto comico in voga, il quale gli aveva fatto tutta una tirata per via della sua folta capigliatura e il vello copioso che abbondava sulle sue guance e sul mento, sulle braccia e sulle gambe. Ancora prima di terminare gli antipasti questo che aveva raggiunto la celebrità facendo ridere con battute sul calcio e sulla figa aveva chiamato al cellulare sua moglie, dicendole di essere sbalordito per il fatto di trovarsi allo stesso tavolo con l’uomo più peloso che avesse mai visto. Che poi mica è vero, per esempio io a quel tempo avevo molti capelli più di lui, a dirla tutta. Molto più lunghi. E senza dubbio mi cresceva anche una barba molto più regolare della sua, che così bianco di carnagione sembrava una spazzola al contrario. Insomma che lui, il sedicente tipo pelosissimo, probabilmente si sentiva un po’ un fenomeno da baraccone ma sperava di rientrare in una delle gag che il comico avrebbe presentato alla puntata successiva, magari con il presentatore stesso come spalla. Lei, la mia amica, aveva sofferto questa sorta di dislogia in cui la sua vita amorosa era stata declassata a un link di secondo grado legato a una spolverata di celebrità di quelle che ci sono persone che farebbero di tutto per avere, detto tra noi. Molto più che l’essere stata scaricata così.

Passa qualche mese, e un nostro comune amico che faceva il cuoco ci mette al corrente che lui – il barbuto capellone – aveva prenotato un ricevimento di nozze in una location da cerimonie piuttosto alla moda, una villa della riviera di ponente famosa solo perché tempo prima aveva ospitato un calciatore cecoslovacco in forza a una squadra di serie A locale. Una vera forza della natura, se non altro con le bellezze del luogo. L’amico cuoco faceva parte della cooperativa che aveva in gestione la villa e che organizzava le feste di nozze, e quando aveva letto il nome degli sposi per i quali avrebbe cucinato ci aveva messo al corrente. E lei – la sua ex – così la mattina del matrimonio, che era un sabato di aprile, si era nascosta nei pressi di casa sua per sincerarsi che fosse davvero lui e vedere come si sarebbe conciato. Non certo per gelosia. Insomma che lo ha visto scendere a posare qualcosa in macchina, tutto bardato con il completo grigio scuro e la cravatta arancione, ma con i capelli corti, senza barba, tutto rasato e pulito. “Sono certa che mi abbia visto anche se ero nascosta nell’ingresso del negozio di abbigliamento che c’è a fianco di casa sua”, poi mi aveva detto. Ma era certa che dopo quella cena la cosa non aveva più avuto seguito, nel senso che è difficile che poi certa gente di spettacolo si ricordi di persone conosciute così superficialmente. Lei stessa si era messa a seguire quel programma di sketch da seconda serata, ma della scena dell’uomo lupo – come avevamo iniziato a chiamarlo quando ci riferivamo a lui, ora che non stavano più insieme – non c’era più stata traccia.

se è per questo, a volte non si esce vivi nemmeno dagli anni novanta

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Non sempre è la quantità di luce alla mattina e alla sera, l’avvicendarsi dei capi di abbigliamento in un armadio più comodo all’uso o il cambiamento di abitudini, a sancire il cambio di stagione. Passare le serate in un locale al chiuso quando fuori l’aria è mite, per esempio, è un segno molto più esplicito che ormai siamo fuori dall’inverno. Malgrado questo io e P. cercavamo di giustificare in qualche modo la nostra presenza lì, in fondo alla sala e appesi sugli sgabelli alti, quei modelli che ti fanno sentire volatili sui trespoli e ti inducono a posture esteticamente poco aggraziate. La gobba. Il boccale in una mano. Le noccioline nell’altra che poi che schifo, magari hai il palmo madido perché se fuori è primavera lì dentro sembrava di stare ai tropici.

Comunque niente sensi di colpa perché era proprio la serata conclusiva della stagione invernale, e a botte di una o due volte la settimana con rare punte di tre era facile calcolare il totale delle ore che, da novembre ad allora, io e P. avevamo trascorso facendo le stesse cose nello stesso posto ad ascoltare gli stessi gruppi che, a rotazione, suonavano lì. Che poi era un locale con un’acustica pessima perché era circolare con i soffitti molto alti, e non c’era verso di migliorare il suono né con l’impianto né cercando di diminuirne la volumetria con teli e pannelli. Ma era l’unico live club della zona quindi tutti se lo facevano andare bene.

Quella sera, una sorta di festa di chiusura, c’era una band che a me e a P. piaceva un sacco perché suonavano quella via di mezzo di folk, punk e reggae che ai tempi andava molto. Erano in metà di mille sul palco, con fisarmonica e fiati oltre agli strumenti elettrici, e il loro stesso nome era evocativo di una grande famiglia che si muove su un carrozzone a portare in giro sé stessi, il divertimento loro e quello da offrire al pubblico. Io e P. sapevamo a memoria la scaletta, qualche pezzo originale e molte canzoni celebri riarrangiate per quel blob caciarone.

Ma c’erano più elementi di rottura che stavano rendendo quella serata unica. P. aveva ripreso con quella roba che diceva di aver smesso di assumere. Io mi stavo rompendo di perdere tempo così, uno stato d’animo che tutti identificavano con il diventare grande ma non mi sembrava proprio, perché la voglia di cazzeggiare era tutt’altro che archiviata. L’aspetto a dare continuità con il passato, invece, era la birra. Le noccioline nelle mani sudate. Stare lì sullo sgabello a sentire il concerto, alzarsi solo per pogare i pezzi più divertenti, prendere un’altra birra e un’altra manciata di pistacchi.

Ma per salutare quella che poi è stata davvero l’ultima volta, la fine di un ciclo, e ce lo sentivamo tutti ma non ne riconscevamo ancora i sintomi, è stato il pezzo con cui il gruppo ha chiuso la serata. Punto, gioco, set, partita. Non era certo un brano di quelli che salti su e balli fino allo sfinimento, e malgrado l’innesto di strumenti non presenti nella versione originale, il ritmo e l’incipit stesso ci hanno meravigliato. Iniziava l’esecuzione di uno dei nostri pezzi preferiti, miei e di P., cioè “Biko”. Avete presente come inizia, vero? La parte di batteria che lo rende facile da distinguere in qualunque arrangiamento.

Così abbiamo cantato tutto il pezzo, mi piacerebbe dire ad occhi chiusi ma non credo perché ci piaceva anche guardare le ragazze che cantavano con noi. Poi alla fine di tutto, la fine del pezzo, del concerto, della birra e di quello che non sapevamo ancora, c’è stata la coda di “Biko”, con il coro da fare tutti insieme. I musicisti hanno terminato la canzone ma io e P. abbiamo continuato il coro, così l’hanno ripreso anche loro perché sono momenti da non lasciarsi sfuggire quelli, per uno che suona. Quando il pubblico interagisce bisogna domarlo, unirsi alla gente, amplificare l’esperienza collettiva. Hanno ripreso il coro e noi abbiamo continuato. Oh-oh-oooooooooh-oh, come citazione dei concerti di Peter Gabriel. Pian piano anche altri ci hanno seguito, in un finale ad libitum che sarebbe potuto continuare in eterno.

Il cantante così è sceso dal palco, è venuto da noi, ha preso me e P. per mano e qualcuno che era lì nei pressi e ci ha portato tra di loro, in mezzo agli strumenti. Tutti con il pugno alzato come a combattere contro qualcosa che non poteva essere la condizione di Stephen Biko perché era già morto, non poteva essere l’apartheid sudafricano perché, anche se da poco, eravamo già negli anni novanta. Fino a quando ci siamo stancati tutti, avevano già acceso le luci nel locale, i camerieri passavano frettolosi di chiudere la serata e tornare a casa con le loro torri di bicchieri impilati. I gusci delle noccioline per terra. Arrivederci al prossimo autunno.

Ma nessuno di tutti quei protagonisti si è rivisto, almeno non così. Il locale non ha più riaperto i battenti, non ricordo se non gli avevano rinnovato la licenza o i gestori hanno cambiato proprio attività lasciando i superstiti orfani di un ritrovo per ballare e suonare. Il cantante di quel gruppo pochi mesi dopo ha abbandonato quella band per accettare l’ingaggio cone front-man sostitutivo in uno dei complessi più famosi di pop italiano. Il cantante fondatore era mancato, il gruppo si era spaccato a metà e la parte che voleva continuare con un leader nuovo ha deciso di andare avanti puntando proprio su di lui, quello che ci aveva portato sul palco a fare il coro di Peter Gabriel. Questo P. non l’ha mai saputo. P. è morto un po’ prima, soffocato in casa da solo, pieno di quella roba che non era di qualità adeguata al prezzo che P. aveva di certo pagato. Anche io comunque avevo già pensato nel frattempo a una svolta, a qualcosa di più adatto alla nuova stagione che poi è iniziata davvero, di lì a poco.

unchained melody

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Vedevo che non teneva gli occhi né sullo strumento tantomeno sullo spartito che avrebbe dovuto seguire per portare a termine la sua parte in quel brano complesso, e mi ero preoccupato non tanto per la struttura in sé quanto perché ci avevano chiesto la musica di “Ghost” e né io né lui la conoscevamo. Allora la titolare del negozio di moda del centro, che era l’organizzatrice di quella specie di sfilata per presentare la nuova collezione autunno-inverno, durante i preparativi ci aveva canticchiato la melodia e così ci era venuto in mente di che brano si trattasse. I musicisti con esperienza non hanno particolari problemi a riprodurre una canzone. Al momento del sound check avevamo deciso la tonalità e l’accompagnamento tra i preset della mia tastiera con il quale eseguirne la riduzione strumentale.

D’altronde quello era l’unico requisito specifico che ci era stato imposto, per il resto c’era la massima libertà. Potevamo eseguire a nostra discrezione qualunque brano ritmato dance conosciuto e il più in voga possibile, uno diverso per ogni abito presentato in passerella. Il solo vincolo era su quel vestito da cerimonia, ci voleva qualcosa di contestualizzato. Pur essendo entrambi espertissimi in musiche da matrimoni, l’organizzatrice ci aveva battuto sul tempo proponendo quella colonna sonora. Farsi sorprendere, in questi casi, costituisce un’insidia perché si corre il rischio di non conoscere il pezzo proposto. Lì più o meno era andata così, ma io avevo bluffato accennando in risposta l’omonimo brano dei Japan per far vedere che comunque non eravamo un duo musicale di sprovveduti, lei si era mostrata propositiva e con una punta di presunzione ci aveva suggerito l’aria corretta, che oggettivamente era impossibile non conoscere ma noi, che non eravamo avvezzi a quel tipo di cinema, non sapevamo che un pezzo così banale potesse essere persino la musica di un film.

Comunque durante la serata il mio socio in affari non sembrava per nulla concentrato, ed era facile capire il motivo. Ci avevano disposto a elle, l’uno perpendicolare all’altro, per motivi di spazio e in un punto strategico per poter supportare tempestivamente con i cambi e gli stacchi musicali le due indossatrici che si avvicendavano dentro e fuori dal salone Vip dell’albergo del centro, quello sotto i portici, di fronte ai chioschetti dove si pratica lo spaccio di sostanze stupefacenti più redditizio della città. Oltre la reception dell’hotel, però, vigeva un contrastante livello di sfarzo dedicato ai turisti che non entravano più ormai da mezzo secolo. Le camere erano meta di puttanieri e relative clienti, qualche russo in viaggio di affari – e chissà che affari – e rare comitive di passaggio, come i cliclisti in pellegrinaggio da Milano a Lourdes che avevano fatto tappa lì.

La sera della sfilata, io che facevo partire e mixavo le basi ero di fronte al pubblico e potevo passare da un pezzo all’altro quando vedevo le ragazze rientrare. Il rimanente cinquanta per cento del duo che suonava e cantava, e non doveva preoccuparsi di altro che fare il suo mestiere, era proprio in faccia ai camerini. Per questo dopo un po’ di gomitate e altri modi di attirare la mia attenzione ho capito che cosa lo mandasse in tilt. Dalla sua postazione si potevano vedere le due indossatrici spogliarsi e cambiarsi d’abito, volta per volta.

Qualcosa mi diceva che non era giusto approfittare di quella fuga di intimità, anche se forse in un contesto professionale è lecito valutare l’efficacia del workplace comune. Voglio dire: stiamo lavorando, devo essere pronto a dare il ritmo a qualcuno e quindi posso essere giustificato nell’attendere che il corpo di una che in quel momento è una collega sia regolarmente coperto, per partire con la mia parte che dev’essere perfetta per il corretto raggiungimento dell’obiettivo. Devo sincerarmi che la collega non sia ancora in mutande e nient’altro, altrimenti sbaglierei la tempistica e manderei all’aria lo sforzo di più persone.

E nell’unico istante in cui ho voluto sincerarmi che fosse davvero così, una delle indossatrici, quella che sembrava meno convinta di quello che stava facendo, mi ha beccato in pieno fulminandomi con il suo sguardo ed è lì che ho visto molto di più che una donna in mutande e nient’altro, seminuda per lavoro. Ho visto dove arrivava il mio diritto, che cosa mi era lecito fare, il confine della dignità altrui. Da quell’istante mi sono impegnato a non dare più nemmeno un’occhiata dietro le quinte di quel palco improvvisato, sperando che la ragazza che aveva colto in flagrante il mio essere fuori luogo potesse notare il mio pentimento celato da concentrazione sul mio ruolo, e nient’altro. Il mio socio musicista, dalla sua posizione privilegiata in cui non era nemmeno necessaria una rotazioni del collo ma bastava guardare solo davanti, non si è fatto invece molti problemi e ha continuato a godersi lo spettacolo.

Con la musica di “Ghost” di cui nessuno sembrava conoscerne il vero titolo ce la siamo cavata alla grande. Non so se è stato per quello, ma l’organizzatrice mentre ci pagava ci ha proposto un nuovo ingaggio. Poco dopo chiacchieravo con il presentatore, che era il dj di una radio locale, e lì ho visto con la coda dell’occhio il mio socio trattenersi con una delle ragazze, non quella con cui avevo fatto la figura di merda, ma l’altra. Li sentivo ridere, ho capito che stavano giocando a ricordarsi il colore delle mutande di entrambe. Credo che lui e lei siano anche usciti insieme per un po’ di tempo, ma potrei confondermi con qualcun altro.

potremmo rivederci, una sera di queste, e raccontarci tutte le cose che abbiamo fatto finta che ci piacessero

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La prima cosa a sorprendermi fu proprio l’esistenza, ad appena un isolato da casa, di un covo di alternativi di cui non mi ero mai accorto. Non so come succeda ora, di certo la rete mette a disposizione tutto ovunque. Ma prima le tendenze più off lambivano le città di provincia come la mia di striscio e per puro caso. Magari c’era quella che andava a Londra e dopo un anno tornava con la cresta e subito del suo caso finiva che se ne discuteva in tutti gli ambienti. Di certo arrivavano e si diffondevano gli aspetti deleteri delle culture underground, come l’eroina, la rabbia, le malattie, tutte cose che prendevano piede perché creavano dipendenza da qualcosa. I pochi che invece si autoproclamavano membri fondatori erano veri e propri demiurghi e davano vita a club molto esclusivi per entrare nei quali quelli come me che si interessavano di culture di nicchia più per avere maggiori possibilità di avvicinare esemplari del sesso di interesse avrebbero fatto qualsiasi cosa. Non proprio qualsiasi, ma insomma.

E l’unico canale possibile era quello di essere introdotti da qualcuno. Non ricordo grazie a chi l’invito a salire quella notte fu esteso anche a me, fatto sta che mentre mi arrampicavo per le scale per raggiungere quell’ultimo piano così vicino in linea d’aria alle pareti tappezzate di poster adolescenziali della mia cameretta non sapevo ancora a chi mi sarei trovato di fronte. Proprio quella che era stata a Londra e dopo un anno era tornata con la cresta, che aveva un paio di anni più di me ma era già così maledettamente corrotta. Poi altri due punkettoni con cui si accompagnava ultimamente e con cui ci si guardava sempre in cagnesco come se l’esclusiva di tutta quella farsa dovesse essere solo degli uni o degli altri. Una volta mi avevano pure lanciato una lattina di birra aperta in testa a un concerto, io ero davanti e loro poco dietro e quando mi ero girato li ho visti che se la ridevano. Uno dei due suonava tra virgolette in uno dei gruppi più in voga del momento, un ensemble di punk industriale e rumorismo in cui lui dava il suo apporto con trapani e lamiere battute con martelli dal vivo.

Poi c’era quello biondo che non avevo mai visto ma il cui cognome era leggendario perché si divideva tra un paese lì vicino e Berlino, roba che in quegli anni non era così comune. E infine il padrone di casa, uno sconosciuto che altrove non avresti notato nemmeno, uno così regolare che mi chiesi come fosse possibile che fossero tutti lì da lui se non altro perché era l’unico ad avere un appartamento tutto suo, aveva almeno dieci anni più di tutti gli altri, era il solo ad avere uno stipendio tale da consentirgli l’acquisto e la conseguente offerta di alcolici e stupefacenti e il conseguente ascendente su spiantati, studenti, disorientati e cani sciolti della zona.

Stavano parlando di cose fatte qualche sera prima quando tutti avevano messo la lingua in gola a tutti, già mi immaginai gli scambi gratuiti di saliva indipendentemente dalle preferenze sessuali ufficiali di ognuno. Sullo sfondo musica assolutamente consona ai gusti di tutti, potevano essere come minimo i Bauhaus. E se in quanto a esperienze di vita non c’era storia, sulla musica potevo tenere testa a tutti. Con il biondo che non smetteva mai di rollare riuscii a esprimere qualche parere sugli Einsturzende Neubauten di cui lui però pronunciava alla perfezione i titoli delle canzoni. Quel dialogo mi permise di abbattere ogni diffidenza e di avviare una amicizia che sarebbe durata da lì a qualche mese dopo, prima che si trasferisse definitivamente all’estero. Giusto il tempo per farsi invitare un paio di volte a cena a casa dei miei e di impressionare con la sua magrezza mia mamma che non smise nemmeno per un istante, ogni volta, di mettergli nel piatto crocchette fatte in casa e che lui non sembrava intenzionato a rifiutare. E giusto il tempo perché gli comprassi Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi del conseguimento della maggiore età dei CCCP appena uscito su vinile rosso come favore, e anzi come favore se glielo potevo portare a casa, e poi i soldi te li dò la prossima volta ma non li ho mai più visti. Che poi i soldi erano della paga dei miei genitori, e persino lo strappo per consegnargli il disco con urgenza perché non ricordo che cosa ne dovesse fare me l’aveva dato mio papà visto che ero minorenne e senza patente. Mi rimase l’amicizia con suo fratello, meno prestigiosa perché meno mitteleuropea ma più alla mia portata.

Con la punkettona invece sostenni un confronto sulla deriva rock’n’roll dei Litfiba che con Desaparecido avevano irrimediabilmente intrapreso una traiettoria deludente, che poi io non ne ero così convinto perché Desaparecido non era per niente male, ma in quel momento e in quello stato avrei potuto dare ragione a chiunque. Anche lei poi si era trasferita altrove e la rividi qualche anno dopo a una festa, eravamo gli unici due a conoscere i Long Ryders ma lei non si ricordava per nulla di me e di quella sera in cui aveva demolito la mia consapevolezza di essere tremendamente alternativo. Così le risposi che probabilmente ero io che l’avevo confusa con qualcun’altra e comunque nel frattempo si era assestata in una categoria di preferenze sessuali ben definita in cui io non sarei potuto rientrare, facile immaginare il perché.

ed è un peccato perché c’erano tutti i presupposti, ma si sa come vanno le cose

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Erano una coppia di quelle che non avresti definito felice, ma era anche difficile affermare il contrario. Lui era stato tutta la vita un capostazione quando le divise di chi lavorava in ferrovia erano tutte blu e si vede che non si sentiva a proprio agio con altri colori addosso. Oramai in pensione, per lavorare nell’orto o per sistemare tutti i piccoli problemi che una casa in campagna genera ogni giorno – c’è sempre qualcosa da fare – usava una tuta blu di quelle da meccanico. Per andare in paese la mattina presto a scegliere il pesce migliore per pranzo o per passare dal ferramenta a comprare i tasselli o il filo o i chiodi si metteva pantaloni, giubbotto e cappello con la visiera blu. Per questo quelli che lo incontravano lo salutavano quasi militarmente, buongiorno signor capostazione, anche se non lo era più da anni.

Ma il fatto che sorridesse di rado era solo un’impressione. Portava i baffi perché aveva la parte superiore del labbro enorme – le figlie un po’ lo prendevano in giro per questo – e finiva che i baffoni neri gli coprivano quasi tutta la bocca e non sapevi che smorfie facesse, nemmeno quando parlava si vedeva qualcosa muoversi, quindi era difficile percepire il suo stato d’animo. Aveva anche delle mani smisurate, era di corporatura grande ma la mani quelle erano davvero gigantesche, che tutti si chiedevano cosa ci facesse con quelle mani lì. Malgrado l’ingombro, era in grado di eseguire lavoretti di fino e di precisione, per esempio lavorare le esche prima di andare a pesca o infilare il filo nella cruna dell’ago al primo colpo. Ma con la moglie parlava poco, e peccato perché lei era davvero una chiacchierona.

Lei aveva quell’espressione stampata sul viso di chi sembra che ti sta prendendo in giro, quella con la bocca piegata solo da un lato, farei un disegno se potessi per farvi capire meglio, parlava solo con metà labbra lasciando l’altra metà ferma come se fosse stata colpita da un’emiparesi. Per fortuna non era il suo caso, perché la sorte già era stata poco bonaria con lei. Per colpa di un tumore le era stato asportato un seno, cosa che lei raccontava con la soddisfazione ampiamente comprensibile di chi ha vinto una battaglia o di chi ha ucciso un animale feroce durante una battuta di caccia. E si lamentava solo di due cose. Ce l’aveva con la sfortuna, e per descrivere la propria condizione in dialetto diceva una frase piuttosto popolare, a proposito di falli che vagano nell’aria e vanno a colpire bersagli poco nobili anche a distanza di centinaia di chilometri, il cui significato è tutto sommato condivisibile. E ce l’aveva un po’ con le figlie che, già grandi, non le avevano fino ad allora dato la soddisfazione sperata, ciò che una madre a più di sessant’anni vorrebbe per essere un po’ meno mamma e diventare un po’ di più nonna.

Per questo vedeva di buon occhio i potenziali generi che si alternavano al fianco delle due figlie e ogni volta sperava che fosse quella decisiva. Non so il suo vero nome perché tutti la chiamavano Lilli. Io la conoscevo perché faceva le pulizie nell’appartamento vicino al mio. Una mattina, al bar sotto casa l’avevo vista particolarmente di buon umore e in cambio di un caffè l’avevo convinta a raccontarmi il motivo di tanta serenità mattutina, malgrado quello che si apprestava a fare per le ore successive, voglio dire passare in rassegna la biancheria zozza di uno scapolo non è il massimo della vita. Il fidanzato della figlia minore, per il compleanno della ragazza che avevano celebrato a cena tutti insieme la sera prima, le aveva regalato un set completo per dipingere. I colori a olio, la tavolozza, i pennelli e persino il reggi tela da pittore. Quando la figlia aveva strappato la carta dalla gioia aveva gettato le braccia al collo del suo ragazzo e mentre si stringevano e si baciavano la Lilli si era addirittura messa a piangere perché aveva pensato che quei due si volevano davvero bene.