si trova circa 55 km ad ovest di Genova

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A volte la vita te la rovinano le compagnie, le conoscenze, le cattive frequentazioni. Altre volte i luoghi in cui nasci, cresci, abiti, lavori. Senza tirare in ballo Hiroshima, o nel nostro piccolo – per modo di dire – Marzabotto, pensate alle persone che vivono in uno di quei posti che tutti collegano immediatamente a qualcosa, e provate a immaginare a quante domande si devono sentir porre nella loro vita. Ieri mattina ho assistito a una specie di terzo grado da parte di un gruppetto di curiosi pendolari a una loro compagna di viaggi quotidiani e solo perché il caso le ha dato i natali a Predappio. Bella sfiga, direte voi. Certo, potrebbe andare peggio, voglio dire ci saranno pure ancora degli abitanti di quel posto nefasto che portano pure lo stesso cognome del mascellone capovolto. Le domande erano le più varie: viene tanta gente in pellegrinaggio, cosa si prova ad avere il marchio di quel paese sulla carta d’identità, conosci dei parenti eccetera. Ma senza andare su un caso limite come quello, di posti celeberrimi nel bene e nel male ce ne sono centinaia. Pensavo a chi vive a Fiuggi, so di persone che ne hanno conosciuti in vacanza e gli hanno chiesto che acqua bevono. O a Maranello e nelle altre cittadine note per l’azienda che ha dato lavoro al territorio, come Alba o Cinzano. Pensate a Scandicci e Cogne, altro che reputazione del nome. O ai casi di Zocca e Sasso Marconi, che se si chiama così un motivo ce l’avrà. L’elenco è lungo e anzi, vi invito come sempre a dire la vostra nei commenti, per esempio so che è una fortuna venire da Felino (eh già, i salami si chiamano così non certo perché fatti con carne di gatto) o da Gorgonzola, e se lo dite in giro potete stare certi che qualcuno che vi chiede una dritta o addirittura qualche consegna dai luoghi natii prima o poi lo trovate. Pensate come dev’essere abitare a Vinci, a Recco, a Barolo. O a Novi Ligure che in Liguria non c’è nemmeno.

Per questo, da queste pagine, nasce una nuova iniziativa dedicata all’orgoglio di chi sta nell’ombra ed è nato in un posto di merda, sconosciuto alle masse e che chi abita distante (o semplicemente è una capra in geografia) non sa collocare sulla carta politica, tantomeno quella muta. Un nome di quelli che non ricordano niente, che gli altri quando lo fai si guardano con quella faccia come a chiedersi “e dove minchia è”. Un luogo anonimo come Savona, dove al massimo qualche tempo fa qualcuno ti diceva di averci fatto il militare. Nemmeno Sandro Pertini e Fabio Fazio li collocheresti lì, tanto la schifano tutti. Me compreso, eh. Ma il bello di una cittadina così è che nessuno la accosta a celebrità, luoghi comuni, meraviglie del mondo, catastrofi naturali, episodi di corruzione (anche se qui vi sbagliate, ma tanto ormai nessuno se ne ricorda più delle prime avvisaglie di tangentopoli), maxi-processi, efferati delitti, stragi naziste, vini da miliardari, creme al cioccolato che ci invidia il mondo, particolarità architettoniche e circuiti di Formula Uno. Savona non ha niente di tutto ciò. Si nasce, si cresce e si muore, in mezzo si va a cercare lavoro da un’altra parte, ma quando in treno dici da dove vieni al massimo ti chiedono del mare e puoi rispondere che sì, in effetti c’è, ma fare il bagno con i mercantili che ti passano sotto il naso e le ciminiere della Tirreno Power sullo sfondo non è proprio il massimo della vita.

cinquanta sfumature di bianco e nero

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“Non ricordo quale animale in natura veda in bianco e nero”, è la domanda senza punto interrogativo di Linda dopo che ha constatato che il Brionvega portatile arancione rotto in vendita a settanta euro nella bottega di modernariato del centro non è proprio un affare. Non volevo abbatterle il morale suggerendo che comunque, con il digitale terrestre, un apparecchio televisivo come quello non servirebbe a nulla se non come componente di arredo.
“Che senso avrebbe seguire le tue serie americane su uno schermo così ridotto e per di più in scala di grigio?”, le chiedo. Ma per infierire, considerando poi come è andata a finire, avrei potuto aggiungere che, se proprio ci tiene, è facile cambiare le impostazioni della tv togliendo i colori. Basta smanettare un po’ con i pulsanti del telecomando. “Ma non è la stessa cosa”, ecco la sua risposta mentre pensa che gli uomini sono proprio tutti uguali, hanno il materialismo che gli occulta i sensi e vedono tutto misurabile nemmeno la vita fosse un libro di esercizi di geometria.

Non c’è stato il tempo di motivare del tutto il mio scetticismo sugli elettrodomestici vintage che hanno avuto un senso solo fino a Windows 98. Il frigo bombato con il maniglione, lo spremiagrumi Atlantic, la Polaroid. Quante ne so. Linda però ha dato un taglio con la persone pedanti, me compreso, ed è un peccato non aver potuto condividere tutte le mie teorie a partire dal fatto che il colore nella tv è stato un bisogno da soddisfare ancora una volta economicamente. Vorrei che mi avesse seguito a casa di zia Pina a seguire le partite della Nazionale alle qualificazioni ai mondiali argentini del 78. La maglia azzurra sul campo verde lasciava una scia colorata che se l’avessero vista i grillisti avrebbero subito accusato la RAI di usare espedienti chimici per lobotomizzare gli spettatori.

Ma né io tantomeno Linda eravamo i protagonisti di un episodio di Quantum Leap. Forse ho abbozzato però in extremis alla nostra conversazione una tesi sulla quale non potrete non darmi ragione. Le nuove generazioni, use al full HD, non capiscono il senso di aver investito in una tecnologia in grado di restituire una realtà in bianco e nero. Non capiscono nemmeno perché si possa essere interessati in una decolorazione delle cose.

Per fortuna di Linda ci ha però interrotto il mio amico che fa il portiere di notte, bianco come lo sfondo di un documento di testo e vestito da operatore cimiteriale. Lui è fissato con una band elettronica in cui ho prestato servizio nell’84 o giù di lì. È riuscito persino a convincere un’etichetta di nerd della musica goth a ristampare l’unica cassetta che si trova in giro e che ogni volta che mi presto a sentirne le tracce digitalizzate su Soundcloud mi vergogno come un ladro. Se ci incontriamo non mi parla d’altro, e se già mi annoio io figuriamoci chi non ha nessuna fiducia nella new wave. Comunque, se vedete in giro Linda, ditele che si dice che i cani, in natura, vedano in bianco e nero. Ma io non ci ho mai creduto, perché mai dovrebbero?

al via la prima settimana mondiale dedicata al culto della personalità

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Inizia con oggi lunedì 30 marzo la prima “Settimana mondiale del culto della propria personalità” che vedrà numerose iniziative individuali in tutto il mondo volte all’imposizione del sé sugli altri. L’iniziativa, pensata proprio con l’obiettivo di risvegliare i sentimenti egoriferiti nelle persone meno ambiziose, sarà l’occasione per tutti coloro i quali non hanno mai saputo ritagliarsi qualche spazio nelle esistenze altrui. Gli organizzatori contano proprio sul fatto che i presuntuosi full time e le piccole, medie e grandi celebrità di ogni disciplina – che non hanno bisogno di mettersi in mostra – si facciano finalmente da parte aderendo con entusiasmo all’iniziativa, in modo che le donne e gli uomini più bisognosi di autostima riescano finalmente a imporsi almeno in questa occasione. Ma i partecipanti potranno anche sfruttare i numerosi casi di coloro i quali hanno dato forfait, consapevoli che nemmeno una campagna creata su misura possa consentire loro di abbattere le barriere della timidezza, dell’umiltà e del posizionarsi nelle retrovie. Sono previsti anche percorsi guidati e la possibilità di seguire seminari sulll’amor proprio, l’autodeterminazione in campo artistico, demo sulla diffusione dei consigli non richiesti e auto-centralità sociale. La “Settimana mondiale del culto della propria personalità” sarà ovviamente seguita sui canali social e digital, che da tradizione sono gli ambienti in cui tutti ci sentiamo più indispensabili. Saranno premiati i migliori tentativi per attirare l’attenzione, i casi di web-stalking più efficace, i selfie più espressivi, quelli più hot, il tutto mentre una giuria di star dell’Internet che conta sceglierà le battute più ironiche da pubblicare sulla pagina Facebook dedicata all’Ironia su Twitter, un divertente esempio di transmedialità a testimonianza che per il culto delle personalità i più importanti brand duepuntozero sono pronti a collaborare per garantire la massima visibilità. Tutti i partecipanti comunque riceveranno un simpatico gadget e potranno leggere il proprio nome su una infografica dalla lunghezza record (oltre i 10km di jpeg) che sarà condivisa allo scadere della mezzanotte di domenica prossima. Non poteva mancare l’hashtag #semocult su cui sarà possibile seguire tutti gli eventi della settimana e chiunque potrà pubblicare la propria esperienza di culto. Buona auto-affermazione a tutti!

se è oggi o domani che importa

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Che differenza fa scrivere le date e collocare temporalmente le cose? Io l’ho sempre vista così fino a quando ci ho riflettuto come lettore. All’interno di una storia è encomiabile che l’autore scriva i dettagli su un particolare avvenimento. Il tizio tal dei tali è morto il 17 giugno 2015 all’età di 86 anni. Che coincidenza, anche mio papà. Non so, ma a me non viene mai in mente. Intanto perché non sono uno scrittore e scrivere qui che ho pensato a quale differenza faccia scrivere le date e collocare temporalmente le cose il 27 marzo dello stesso anno non cambia di una virgola il senso della storia. Anche perché di virgole io ne uso ben poche e, diciamocelo, abbastanza a cazzo. Ma poi anche perché viviamo nel mito della narrazione che è la sublimazione del vissuto, un concentrato di esperienze messe giù da battaglia da qualche esperto di marketing e, se vendi sogni, legarli alla realtà con dei riferimenti cronologici è un attimo a svegliarsi e mettere i piedi giù per terra. Quindi quando ci incontreremo al prossimo meeting della nostra associazione dilettantistica – e per quell’occasione però dovremo definire un giorno e un’ora, se non un luogo – ricordatevi di raccontarmi le vostre cose senza riferimento alcuno. Non intendo nello specifico alla data di un decesso, anzi, se posso permettermi, piantiamola lì con tutto sto parlare di morti. Un conto se c’è una tragedia o una strage, e di questi tempi abbiamo l’imbarazzo della scelta. Ma mica possiamo metterci lì a dire qualcosa su ogni episodio individuale. Basta parlare anche delle proprie paure, perché mica è vero che si esorcizzano, come me ieri con l’aereo o una cosa spaventosa che provavo da bambino. Avevo il terrore di essere rapito, sapete che negli anni 70 non è che fosse una possibilità così remota. Temevo che qualcuno di notte si introducesse nel nostro appartamento e che mi portasse via. Mia mamma mi aveva rassicurato nel modo più comune ai tempi tra la povera gente: chi vuoi che ti prenda, figlio mio, non potremmo mai pagare alcun riscatto per te. Iniezioni di autostima come queste fanno crescere consapevoli della propria subalternità. Chi se ne importa se un hair syilist sbaglia in pieno il taglio la prima volta che ti ha sotto le mani come cliente. A me non fa né caldo né freddo se poi sto male, non sono io quello che conta, sono il primo ad avere interesse negli altri più che per me stesso.

se potete smetterla di parlare di incidenti aerei grazie

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Potreste evitare di discutere amabilmente di disastri aerei e di tutte le congetture associate a temi come questo in mia presenza? Grazie. Stavo giusto pensando di verificare l’esistenza di una sorta di filtro per impedire la visualizzazione di notizie del genere sulle home page dei miei socialcosi ma si tratterebbe di una precauzione inutile. Da due giorni non si parla d’altro il che, considerando la tragedia, è più che plausibile. Il problema è la mia relazione con gli aerei, a dir poco pessima, e ascoltare conversazioni di argomenti come questo mi fa passare ancora di più la voglia di imbarcarmi per qualunque destinazione. Ne ho sentito parlare in treno stamattina, si sono confrontati i miei colleghi in ufficio per tutto il giorno, e persino nel viaggio di ritorno un gruppetto di passeggeri dietro di me ha attirato la mia attenzione facendomi piombare nel bel mezzo di una cruenta analisi delle dinamiche. Non ricordo dove ne scrivessi, ma quando devo volare cerco di stare sveglio la notte prima – pratica che con tutta la tensione che ho mi riesce benissimo – per poi crollare subito dopo il decollo e trascorrere nell’incoscienza il tempo in quota ma niente. Finisce che sto con gli occhi spalancati fino all’atterraggio e così la giornata è bella che rovinata. Ho persino sentito pareri di sollievo per il fatto che si sia trattato probabilmente di un suicidio in grande stile anziché un’avaria o un attentato, il che mi trova d’accordo e mi rassicura ma solo fino a un certo punto. E lo so che la casistica gioca a favore dei frequent flyer, perché il numero delle vittime degli incidenti stradali è più elevato, ma nulla mi convince che la gamma delle possibili conseguenze in auto si estenda dall’incolumità in poi, mentre a così tanti metri di altezza l’esito è scontato. Comunque non pensiamoci, ci sono ancora tanti posti da vedere al mondo che rinunciarvi per una irrazionale paura fottuta dell’aereo non ha senso. Vi dirò che con l’età anche questo modo sfrontato di gestire le proprie preoccupazioni inizia a far acqua da tutte le parti, e voglio vedere come andrà a finire, se cioè prevarrà il buon senso o la testardaggine da anzianità. Vi saprò dire. Nel frattempo, però, vi prego, cambiamo argomento.

i cinque modi peggiori di svegliarsi la mattina

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Usciamo di casa ogni benedetto lunedì mattina e il nostro istinto di sopravvivenza ci ricorda che potrebbe andare peggio. Certo, potrebbe piovere oltre che essere lunedì, potremmo essere ebrei nella Berlino degli anni 30 o sudditi di Bokassa. Quindi ringraziamo i nostri genitori di averci concepito in un periodo tutto sommato pacifico e florido e in una geolocalizzazione dignitosa come la nostra. Nonostante ciò, la nostra esperienza è in grado di annoverare un elenco di situazioni in cui il risveglio mattutino è di gran lunga meno sopportabile di un qualunque inizio settimana con i colleghi che con il loro spumeggiante analfabetismo di ritorno ti aspettano in ufficio. Proviamo a fare il punto per arrivare pronti alle mattine in cui occorre davvero fornire ai nostri cari il massimo conforto o, viceversa, aspettarci il loro supporto.

Non saprei impostare una classifica, di certo però aprire gli occhi e realizzare che quello è il giorno in cui si deve sostenere un esame all’università rientra almeno nei primi tre posti. Raramente ci si prepara al cento per cento, e anche nei casi migliori è difficile trovare in sé la sicurezza che ci fa sedere di fronte a professori o assistenti con un piglio diverso da quello di un condannato a morte su un patibolo. Subentra quindi una gamma completa di sensi di colpa per non aver studiato abbastanza, per aver sottovalutato la difficoltà della materia e, di contro, sopravvalutato la nostra capacità organizzativa per la pianificazione del programma senza contare che poi, a libri aperti, si trova sempre qualcosa di meglio da fare. Non ho nessuna vergogna a dichiarare che tra i momenti più belli della mia vita accademica ci sono sicuramente gli esami superati con profitto, ma anche almeno un paio di casi in cui l’esame è stato rinviato per motivi indipendenti dalla mia codardia.

In zona playoff ci sono anche i risvegli la mattina dopo una pesante ubriacatura unita a una rottura con il partner o un litigio che ha tutte le caratteristiche per essere fatale. Gestire il mal di testa con i tentativi di ricucire un rapporto gettato nel cesso a causa della nostra attitudine alla sbronza molesta è una sorta di girone infernale senza speranza di risoluzione. Per esperienza, meglio prima rimettersi in sesto fisicamente e solo dopo tentare un riavvicinamento. Come si dice in campo ingegneristico, un grande problema è più facile da risolvere se diviso in tanti micro-problemi. Meglio superare, quindi, un ostacolo alla volta. Il risveglio da ciucca/bisticcio è talmente opprimente e concreto che sarei in grado di fabbricarne una rappresentazione tridimensionale, non so se ho reso l’idea. Provate a ripensare com’è stato, se è capitato anche a voi. C’è anche la variante alcol + battibecco più o meno violento con amici, quando basta qualche birra in più per secernere risentimenti latenti. Ma questo è più raro, tra uomini alla fine ci si concilia prima di coricarsi, differentemente dalla coppia.

Temibile anche il risveglio ad abbondante tempo scaduto per un treno, un aereo, o un qualsiasi appuntamento improcrastinabile. Non riesco pensare a un senso di panico più soffocante di questo, anche se lo lego molto alla sfera giovanile e alla vita da single, oggi in una famiglia dotata di sveglia e numerosi dispositivi ad accensione programmabile bucare un impegno preso è sempre più raro. Non a caso io che sono tra i principali produttori di ansia da ritardo ho oramai sviluppato un enzima tutto mio che mi fa balzare sul letto qualche minuto prima della sveglia. Se mi accadesse oggi potrei morire all’istante. Peggio del risveglio ad abbondante tempo scaduto c’è il risveglio con qualche margine di speranza, in cui è oltremodo difficile sfoderare la lucidità necessaria per mettere in fila gli step per una procedura di emergenza volta a raggiungere l’obiettivo. Saltano subito la colazione e il minimo necessario per garantirsi un livello di igiene decoroso e occorre arrendersi all’evidenza che la sudata che ci si accinge a dover sopportare potrà avere conseguenze sull’esito della giornata e che comunque la sorte in qualche modo ci ha già graziato.

Capita raramente alle nostre latitudini ma è già successo di dover rinunciare a qualcosa di programmato per cause di forza maggiore o eventi straordinari, a partire da un’abbondante nevicata. Nel nostro sistema già in bilico in condizioni normali un’anomalia meteorologica può avere conseguenze anche gravi; nel nostro piccolo anche l’auto sommersa dalla neve o i binari ghiacciati possono mandare in vacca anche il più importante dei piani. Una volta ho assistito a una ragazza implorare un corteo che aveva bloccato i binari della stazione perché avrebbe dovuto recarsi al colloquio della sua vita, ma questo è un altro paio di maniche. In altri casi, quando la responsabilità non è nostra ma del tempo che fa le bizze, poter tornare sotto le coperte non è poi così male.

Chiudo con una situazione di risveglio limite: le forze dell’ordine che ti sfondano la porta di casa perché l’appartamento che hai preso in affitto regolarmente e in cui vivi risulta occupato illegalmente. Un caso da infarto assicurato e che vi invito a provare. A me è capitato e non ero certo uno squatter: le forze dell’ordine, quella volta lì, per un curioso caso di assonanza toponomastica, avevano clamorosamente sbagliato indirizzo.

faccia da culto

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Gli studiosi, tra qualche secolo, avranno un bel daffare a dare una spiegazione alla proliferazione degli auto-autoritratti fotografici diffusi sui socialcosi. Sempre che il genere umano non volti definitivamente pagina sulla necessità di studiare le cose del passato e non, e sempre che di questa controversa epoca duepuntozero rimanga poi qualcosa o magari non venga spazzata via da qualche piaga informatica. Ve lo immaginate? Una sorta di peste manzoniana che prende l’Internet e riduce in poltiglia ogni dispositivo ad essa collegato, contenuti compresi. Non per fare il catastrofista o il Philip Dick de noantri, ma con quello che succede non dovrebbe sorprenderci più nulla. Comunque non mi voglio soffermare sull’analisi sociologica del selfie perché oramai si è detto tutto, e il fenomeno in sé tutto sommato non mi sembrava così preoccupante fino a quando non ho riflettuto su due aspetti che, brevemente, ve lo giuro, vorrei sottoporvi.

Intanto ho dato un’occhiata al profilo Instagram di mia figlia e delle sue amichette. Saprete anche voi che Instagram è molto diffuso tra i ragazzini, a differenza di Facebook, questo perché la società dell’immagine e bla bla bla. Nato come ritrovato nerd per gli adulti malati di effetto polaroid, Instagram ora è la morte sua dei giovanissimi che lo riempiono delle loro facce, forti della consapevolezza che in un mondo di primi piani televisivi la celebrità delle immagini fisse sulla rete tutto sommato costituisca un valido surrogato. Ci sono quindi queste micro-audience del circondario che si beano reciprocamente dei volti dei loro amichetti e compagni di classe, il che acquista un valore ancor più deleterio se ci riferiamo a undici, dodici e tredicenni. La riflessione che vi pongo è: che cosa volete farci sapere con i vostri scatti autobiografici, con le smorfie prese da un catalogo standard come emoticon dalla library di una qualsiasi chat? La bocca così, le sopracciglia cosà, gli occhi ammiccanti, l’espressione corrucciata o trasognante.

Ma mentre i più giovani sono così spregiudicati, tra gli utenti più cresciutelli è in voga il selfie a metà. Probabilmente vittime di complessi di chissà quale specie, sono in molti coloro i quali non si buttano in questo gioco allo scoperto e, insicuri della propria avvenenza ma pur smaniosi di partecipare, pubblicano porzioni si sé nella speranza che qualcuno, raccogliendo le numerose tessere di un puzzle personale, risponda con un apprezzamento da corrispondere a cotanta paziente abnegazione. Solo un occhio, metà faccia, la faccia con qualcosa davanti, la bocca e il mento senza il naso, il naso e l’orecchio senza gli occhi. La strategia del ti vedo e non ti vedo è oramai popolarissima, ma rischia di creare un gap tra generazioni di neoevidenti e di seminascosti, tra chi non ha più pudori e coltiva un uso completamente disinibito della rete fottendosene della privacy e di chi ostenta ancora la propria diffidenza pur volendosi mostrare pubblicamente, mal celando dietro a una barriera di timidezza estremamente labile una altrettanto forte voglia di protagonismo.

i veri problemi hanno i risultati scritti sotto, per questo è importante il procedimento

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La mia prof di matematica del liceo non perdeva occasione per ricordarci quanto la materia che cercava di inculcare a noi alunni fosse meravigliosa, aggettivo che pronunciato con la potenza della sua erre moscia trasmetteva tutta l’enfasi fin troppo esagerata per un argomento che, in un contesto di interessi adolescenziali, la spunta a malapena con cose tipo il curling o il punto croce. Anzi, vi dirò che ai tempi se mi avessero messo in mano i ferri per la lana come mia nonna, che componeva centinaia di triangoli di lana di colori diversi per cucirli poi alla fine in coperte patchwork di superfici sempre in eccesso rispetto al reale fabbisogno famigliare, ne avrei tratto sicuramente maggiore soddisfazione. Ed è stato un peccato perché non me la cavavo affatto male né in algebra tantomeno in geometria. Ma cosa ci volete fare, dovevo instradarmi sulle materie letterarie per collezionare tutta quella serie di competenze inutili che poi mi hanno portato fin qui a scrivere per voi amici con cui ci teniamo compagnia, ma che siamo talmente pochi che potremmo incontrarci settimanalmente a casa dell’uno o dell’altro e leggerci reciprocamente ciascuno i rispettivi appunti di vita vissuta. Il problema è che ora sono cazzi: mia figlia inizia ad affrontare esercizi di matematica mica da ridere e io vorrei il più possibile spingerla verso l’altra parte dell’emisfero conoscitivo, quello in cui contano di più i numeri, le operazioni, le dimostrazioni e le equivalenze, e che magari ti fan venire voglia di tentare una carriera più costruttiva rispetto ai poetastri scribacchini topi di biblioteca senza nessun riscontro o possibilità alcuna, peraltro, come il sottoscritto. Siamo già nel pieno dei problemi con i segmenti in cui bisogna ragionare e far funzionare bene la logica. Si conosce la somma e la differenza di AB e CD, per farvi capire, e bisogna calcolarne entrambe le misure. Fatti spiegare bene le cose dalla tua prof perché se credi di contare su di me, mia cara, sei fuori strada, mi viene da dirle quando mi coinvolge per avere un supporto. E lo so che voi siete tra quelli che lasciate i figli in pasto alle loro esperienze. Io invece che non riesco a dirle di no poi alla fine mi ci metto e l’aiuto, come quella volta della tavola di tecnica. E riscoprire quel tipo di matematica ancora acerba devo dire che mi ha fatto ricredere sulle mie potenzialità, è bastato un richiamo per riaccendere, sotto una corteccia di scapigliatura letteraria, un po’ di quegli affanni da quaderno a quadretti che, con lo scritto della maturità, pensavo di aver definitivamente rimosso dalla mia esistenza. Che poi penso sia il principio Yin e Yang: rimane qualcosa, un’espressione mai risolta, un’incognita alla quale prima poi dobbiamo per forza di cose dare un valore.

è solo il nostro dovere

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Ho capito perché alcuni non perdono occasione di trattare il tema se sia nella natura dell’uomo rivedere o no i propri cari morti, un giorno e da qualche parte, lo so perché sono un diretto interessato in quanto vittima abbastanza recente di un lutto famigliare. E oggi è uno di quei giorni che fanno parte delle ricorrenze di cui leggiamo sui quotidiani o negli aforismi dei socialcosi, al pari di San Valentino, gli onomastici, la donna o la mamma, e sta a noi fare gli auguri o no a chi ci tiene. Io no, per dire. Nemmeno mio padre, e ora capite perché sopra mi riferivo ai parenti defunti. Lui era abbastanza refrattario o, meglio indifferente, almeno così dava a vedere. Lo scorso anno, di questi tempi, era già molto grave, non parlava né reagiva più agli stimoli, e probabilmente in occasione del 19 marzo non ho nemmeno pensato a lui come papà ma come persona in fin di vita, non so se mi sono spiegato. Ma anche se fosse stato lucido sarebbe stato complicato. Non si parla molto di paternità tra uomini, lo sapete noi maschi come siamo, sempre lì a discorrere di automobili, calcio e a girarci per guardare i culi delle ragazze con i leggings per strada. Quindi niente, volevo solo segnarmi qui come memorandum – ne parlavo giusto poco fa al telefono con mia moglie – che quando fai i figli devi mettere in conto che esisterai poi davvero proprio poco per te stesso, probabilmente nei momenti più fisiologici, e vi assicuro che per me – a parte qualche volta in cui sono un po’ stanco – ciò non costituisce un problema. Per il resto è bene mantenere quella stessa dignità che hanno le guide turistiche, con l’ombrello sopra le teste in segno di riconoscimento a sciorinare nozioni nei sistemi ricetrasmittenti, incuranti se si dà fastidio alle messe in corso, se qualcuno si aggrega a scroccare lo spiegone su questo o quell’affresco, con l’unico obiettivo di portare a compimento la propria missione transitoria. Quindi nessun augurio o ringraziamento per noi papà, come dicono quelli in divisa è solo il nostro dovere.

grazie per la camicia

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“C’è una rotonda, poco dopo l’uscita dell’autostrada alla porte del paese. Accosti con la macchina e ti avvicinano dei signori anziani”, mi racconta Robi, “che chiedono agli automobilisti se vogliono essere accompagnati dai mobilieri.”
Robi e il suo compagno sono appena andati a vivere da soli, dopo nemmeno due mesi in cui si sono messi insieme. Non c’è niente di cui stupirsi. Ai tempi l’ho fatto anch’io ed è abbastanza naturale se hai più di trent’anni e hai una certa esperienza di come vanno le cose, di chi sono le persone di cui vale la pena, se c’è una fregatura dietro l’angolo, se sai se è una cosa che non durerà o vedi tutti i presupposti per la storia della tua vita.
Robi e il suo compagno non sapevano di questa consuetudine dei pensionati che arrotondano con le percentuali dei produttori che lavorano nel distretto del mobile alle porte di Milano. Una specie di PR che anziché farti entrare in discoteca ti guidano con la loro macchina alla fabbrica per cui prestano quel curioso servizio. Ti indicano persino dove si entra, nel massimo del rispetto del cliente ti fanno passare prima dalla porta d’ingresso. Dentro, si fanno riconoscere dal proprietario o dal primo venditore libero, in modo che non ci siano dubbi su chi abbia condotto lì quel potenziale cliente.
“Ci hanno proposto una copia perfetta del divano di marca che volevamo per il nostro salotto ma a meno della metà del prezzo”.
Chissà se nell’arredamento funziona come per le borse di Luis Vuitton o i giubbotti Moncler, che quando li vedi addosso alle persone che si vede che non se li possono permettere te le immagini in estate sulla spiaggia, a provarsi senza nessun imbarazzo capi invernali malgrado i quaranta gradi all’ombra.
Poi vedo che la Robi indossa una camicia azzurra da uomo, fuori dai jeans e con le maniche ampiamente rimboccate. Dev’essere nella fase in cui ci si mette i vestiti del partner per tenersi addosso un po’ dell’odore della notte appena trascorsa insieme. La Robi prima stava con un altro, una relazione comunque su cui non avrebbe scommesso nessuno e destinata a chiudersi. Il suo nuovo compagno l’ha conosciuto al corso di cucina. Avevano amici comuni aspiranti masterchef con cui organizzavano le pizzate e qualche serata a bere fuori. Poi una domenica mattina una del gruppo ha chiamato prima lei e poi lui per invitarli a un brunch in centro, e non so come ha fatto ma ha intuito dai rumori di fondo simili che avevano dormito insieme. Con una po’ di invidia ha diffuso il pettegolezzo che è arrivato persino all’uomo di allora della Robi, che comunque aveva già i giorni contati nella sua vita anche senza quell’episodio.
Dovrei chiedere a questo punto della conversazione alla Robi, per pura convenzione, quale modello di divano hanno commissionato a quello che definirei un contraffattore, poi però mi viene in mente la mostra fotografica che ho visto ieri sera. Animali e loro dettagli fotogenici, esseri viventi della stessa specie tutti uguali, e mi chiedo come facciano per esempio i fenicotteri a distinguersi tra di loro. E ancora più giù nella catena evolutiva, le mosche, i rettili, i molluschi. Forse però non hanno bisogno di sapere chi sono le altre mosche o gli altri fenicotteri che incontrano, pensano a sopravvivere e riprodursi, e mi chiedo su cosa abbiamo puntato noi del genere umano – al momento della nostra autodeterminazione a esseri evoluti – per distinguerci così dal resto.