morte a Porta Venezia

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Una donna, cinquantanni circa, è sdraiata per terra con le braccia aperte sul pavimento, la testa appoggiata alla borsetta, immobile e composta. Questo, unito alle palpebre calate e alla concitazione con cui un astante presta le operazioni di primo soccorso confrontandosi al telefono con una centrale operativa, probabilmente la struttura alla quale ha richiesto un intervento tempestivo, lascia supporre il peggio. Continua a leggere. (da Alcuni aneddoti dal mio futuro del 3/03/2011)

Disclaimer: in estate chiunque si barrica dietro un autoreply di chiuso per ferie e mette in sua vece un ologramma giusto per tenergli caldo il suo centimetro quadrato di spazio on line per il ritorno. Sapete, di questi tempi meglio non lesinare in sicurezza, i posti si fanno presto a perdere e mettere un surrogato di sé stessi può essere una strategia vincente. Così noi che apparteniamo a una sottospecie di categoria di esodati ma solo perché abbiamo preso parte come milioni di altri alle partenze molto poco intelligenti, ma allo stesso tempo non vogliamo che vi dimentichiate di noi, abbiamo pensato di pubblicare in questo periodo di vacanza qualcosa di già edito, nostro o altrui, o qualche pezzo a cui siamo particolarmente affezionati. Ciò non toglie che l’ispirazione, dai mari della Sardegna, faccia capolino di tanto in tanto.

prova a dire uccellini

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Chissà quante volte la visione dei voli di gabbiani ha ispirato canzoni d’amore o romanzi di avventura in cui la metafora dei loro volteggi sul mare è stata usata per vagheggiare il librarsi sull’infinito con le ali della libertà. Oppure una semplice ricerca su Flickr con il termine appropriato o il corrispettivo inglese (sapete come si dice, vero?) è sufficiente per ottenere come risultato tonnellate virtuali di foto in riva al mare, con i celebri volatili ripresi singolarmente, in coppia, fermi immobili di guardia ai propri piccoli o in volo nelle battute di approvvigionamento famigliare. Tutte balle. Nel senso che io trovo i gabbiani assolutamente rivoltanti, per nulla poetici e, a dirla tutta, mi fanno abbastanza schifo. Basta pensare alla qualità del loro cibo. Ma c’è un motivo in tutto questo. Gli animali come i gabbiani li ho visti sempre da lontano, io sul lungomare e loro sulla superficie dell’acqua o nel bacino del porto e così distanti neanche allora mi ispiravano canzoni d’amore e romanzi di avventura in cui la metafora del loro volo sul mare simboleggiva il librarsi sull’infinito con le ali della libertà e altre amenità. Ma tutto sommato non mi sono mai posto il problema di mettere in dubbio la loro sopravvivenza. Poi ad un certo punto loro hanno iniziato a cercare un contatto, a prendere confidenza, a impossessarsi di territorio prima di assoluto dominio del genere umano. Probabilmente hanno capito che l’uomo non ha tempo per difendere il suo habitat dagli animali come avveniva un tempo. Non argina più le scorribande dei cinghiali. Non teme più le ruberie degli erbivori che devastano orti e campi, perché orti e campi non li cura più nessuno. Così forse i gabbiani hanno pensato che ci si poteva inoltrare nell’entroterra e non limitarsi a scrutare l’orizzonte marino dagli alberi delle imbarcazioni a riposo nel rimessaggio entro i moli. I tetti delle case delle città con tutti quei comignoli che sputano fuori aria calda a iosa sono un ambiente più confortevole dove metter su casa. Un fenomeno di cui gli abitanti delle città sul mare si sono resi conto solo quando hanno iniziato a svegliarsi di notte a causa dei versi notturni dei gabbiani, più penetranti degli allarmi delle case e degli antifurto delle auto parcheggiate in strada. Sono i gabbiani in amore, dicevano all’inizio destandosi dal sonno. Sono i gabbiani che insegnano a volare ai loro piccoli, dicevano voltandosi sull’altro fianco e chiudendo gli occhi per riaddormentarsi. Poi gli schiamazzi notturni sono diventati insopportabili perché la quantità di nidi e di famiglie di volatili sono aumentate a dismisura, e i fenomeni collaterali hanno catalizzato l’attenzione della gente che non era abituata a episodi di gabbiani killer dei piccioni – scommetto che qualcuno è stato pure soddisfatto di questo regolamento di conti tra pennuti – fino a quando ci sono stati addirittura casi di attacchi di gabbiani a persone. Ecco, il limite era stato sorpassato. Questi maledetti uccellacci, altro che metafora del volo libero e blablabla, questa sottospecie di pantegane volanti tanto sono ripugnanti visti da vicino mentre si accaniscono sulla carcassa di un piccione o tentano di mettere i piedi, anzi, le zampe in testa a noi esseri umani hanno oltrepassato il limite e stanno addirittura mettendo in pericolo l’incolumità di donne, bambini e uomini che vivono nelle città sulla costa. Ma io, e non voglio fare quello che è sempre precursore di ogni tendenza, io lo sapevo che i gabbiani fanno schifo. L’ho sempre pensato. E non mi sono mai fermato a fotografarli perché credo che abbiano lo stesso fascino dei ratti da fogna. Altro che canzoni d’amore. Altro che romanzi d’avventura.

fashion weektims

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Te ne accorgi a causa della presenza degli alieni in città. Presenza che probabilmente è costante anche in altri periodi dell’anno, ma se ti guardi un po’ in giro è più facile incontrarli. Si mischiano in mezzo a noi nelle ore del giorno; li vedi mentre vai al lavoro sui mezzi, li incontri per le vie del centro e no, con un rettangolo nero di pelle sottobraccio, da soli oppure in piccoli gruppi, modalità con cui risaltano ancora di più. Magari ho ragione io, e c’è stato un nuovo sbarco, l’ennesima astronave che li ha portati in visita qui a Milano, grazie alla Fashion Week 2011, in una specie di gita sociale interstellare. Continua a leggere (da Alcuni aneddoti dal mio futuro del 25/02/2011)

Disclaimer: in estate chiunque si barrica dietro un autoreply di chiuso per ferie e mette in sua vece un ologramma giusto per tenergli caldo il suo centimetro quadrato di spazio on line per il ritorno. Sapete, di questi tempi meglio non lesinare in sicurezza, i posti si fanno presto a perdere e mettere un surrogato di sé stessi può essere una strategia vincente. Così noi che apparteniamo a una sottospecie di categoria di esodati ma solo perché abbiamo preso parte come milioni di altri alle partenze molto poco intelligenti, ma allo stesso tempo non vogliamo che vi dimentichiate di noi, abbiamo pensato di pubblicare in questo periodo di vacanza qualcosa di già edito, nostro o altrui, o qualche pezzo a cui siamo particolarmente affezionati. Ciò non toglie che l’ispirazione, dai mari della Sardegna, faccia capolino di tanto in tanto.

prosa scolastica

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“Quando siamo di partenza per una gita, mio papà ci vuole tutti in piedi e pronti alle sette e trenta del mattino. Lui però si alza alle nove”. La maestra è rimasta colpita dall’incipit del tema, il racconto di una giornata dedicata a un viaggio o a un’escursione. Questo è il modo giusto di cominciare lo svolgimento, ha detto a tutta la classe. Proprio un bell’inizio, bravo. Perché è importante osservare attentamente la storia nel suo insieme che è una matassa di fili, concentrarsi e tirare su quello che meglio degli altri consente non di sbrogliare tutti i nodi, altrimenti si risolverebbe subito il senso della storia, ma di far venire la voglia di cercarli a uno a uno. Sarà il bandolo migliore e starà a voi trovarlo. E, forte di quell’apprezzamento, ha pensato e ripensato a quel modo di organizzare l’esposizione di una trama per tutta una vita e a quella fortuna di pescare il punto giusto, quello che una volta isolato fa scorrere tutto il resto in quel modo naturale che si trova solo nei libri, almeno quelli migliori. Ma non è mai più arrivato a una conclusione così naturale dell’annoso problema di chi ama scrivere, tanto che di quel lontano compito in classe che ha alimentato per la prima volta una serie di insostenibili velleità narratorie pensa da sempre che probabilmente si sia trattato di una botta di culo, quella che consente di giungere al compimento di un best seller e che capita una volta nella vita. Ad alcuni in tempi utili per costruire una carriera, ad altri in quinta elementare.

sundayness, o domenicosità, ovvero spiegare cos’è la domenica negli altri giorni della settimana

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M. sfonda porte aperte. Poco fa, a cena, in una sera che è la domenica sera, mi ha proposto e abbiamo a lungo discusso di quella sensazione, o come diamine si può chiamare altrimenti, che è la domenica. Ed è incredibile come possa essere un qualcosa di universalmente riconosciuto, almeno qui nell’occidente opulento. La domenica è tutto sommato un argomento oscuro, di cui si cerca di capirne il senso vivendola, ogni maledetta domenica, senza mai arrivare al punto. Senza mai riuscire a spiegare che cos’è quella specie di indescrivibile malessere che si prova la domenica. Continua a leggere. (da Alcuni aneddoti dal mio futuro del 31/01/2011)

Disclaimer: in estate chiunque si barrica dietro un autoreply di chiuso per ferie e mette in sua vece un ologramma giusto per tenergli caldo il suo centimetro quadrato di spazio on line per il ritorno. Sapete, di questi tempi meglio non lesinare in sicurezza, i posti si fanno presto a perdere e mettere un surrogato di sé stessi può essere una strategia vincente. Così noi che apparteniamo a una sottospecie di categoria di esodati ma solo perché abbiamo preso parte come milioni di altri alle partenze molto poco intelligenti, ma allo stesso tempo non vogliamo che vi dimentichiate di noi, abbiamo pensato di pubblicare in questo periodo di vacanza qualcosa di già edito, nostro o altrui, o qualche pezzo a cui siamo particolarmente affezionati. Ciò non toglie che l’ispirazione, dai mari della Sardegna, faccia capolino di tanto in tanto.

come prima più di prima

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Che l’estate in alcune aree urbane metta in mostra in tutto il suo squallore l’oscenità ambientale e umana è un dato di fatto che chiunque di noi può riscontrare cimentandosi nella visita di quartieri, strade, ma anche luoghi più consoni alla stagione. Con il caldo si liberano tutti i cattivi odori di cui muri e asfalto sono intrisi e a cui durante l’anno nessuno ci fa caso, forse solo perché il freddo ci trasmette igiene e asetticità, mentre con il caldo si diffondono germi e il cibo si guasta. Un quadro che può essere traslato anche in senso metaforico. La Rai che, avendo perso ogni vantaggio competitivo con le tv commerciali e quelle a pagamento, si gioca il tutto per tutto e con crescente difficoltà attraverso gli unici programmi di cui nessun’altra emittente è provvista, ovvero la nostra storia, la nostra cultura e la società in bianco e nero che si è evoluta in colore in trent’anni di monopolio televisivo. E ogni estate ci ripropone l’Italia dei nostri nonni e genitori tutta tagliuzzata e montata con il filtro romantico che la lontananza temporale da allora ha messo a punto. Quante volte ci siamo sorpresi a dire che non ci sono più i varietà di una volta, i comici di una volta, i balletti e le canzoni e i contenitori di tutto ciò. Ebbene, non so quale sia il criterio di selezione degli sketch, forse l’obiettivo è proprio quello di non evidenziare lo iato tra due società molto diverse e tra quello che comporta la visione di un Valter Chiari rispetto a un Panariello e quindi la parola d’ordine è non far prendere coscienza del livello in cui ci troviamo. Ma poi alla fine scopri quei blobboni acritici in primissima serata, come Techetechetè, e pensi che non è vero che è ci siamo ridotti così a causa dell’estetica e dell’etica Mediaset, ma che eravamo un popolo di sottosviluppati anche prima.

in fila per due

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Capita a tutti, anche a noi. Mi attardo a controllare qualcosa in macchina mentre mia moglie si avvia con la borsa dei teli da mare e l’ombrellone in spalla e procediamo così per qualche minuto, lei davanti e io dieci metri dietro e quando ci succede mi affretto e la avviso. Guarda che siamo insieme, le dico, così si ferma, mi aspetta e proseguiamo allineati. Oppure a spasso, lei si sofferma ad ammirare una vetrina e io che ho una pessima resistenza agli stop&go tipici dello shopping – che poi non si acquista mai nulla – così passo oltre rapito da chissà quale pensiero ma qualche passo più avanti mi viene d’istinto di fermarmi perché sento che mi manca qualcosa, così torno indietro perché lei è ancora immobile dinanzi la stessa vetrina di prima. Siamo insieme, le ripeto, camminiamo in linea. Perché visti da fuori quelli che procedono disallineati, con un’avanguardia che per la maggior parte dei casi è femminile e una retroguardia mi mettono ansia tanto che mi si riaccende l’istinto del border collie che è in me. Riunire il gregge, ristabilire la compattezza dell’assetto, rimanere raccolti. Stare vicini ispira armonia a chi osserva, anche di sfuggita. Camminare distanziati è uno spreco di risorse, non si condividono pensieri e impressioni suoi luoghi e sulle cose. Ma magari l’obiettivo è proprio quello, sentire in comune il meno che si può, mettere in mezzo alle proprie vite una forza che respinge poli opposti. Uno di qui, uno di là. Con la speranza di perdersi che è una speranza che non si avvera mai, al massimo si fa finta che la voglia di proseguire, nella strada e nella vita, abbia tempi differenti da percorrere con falcate diverse, ma del tutto casualmente.

granny music awards

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Ma andiamo al nocciolo, e prendiamo i 60 di Pietro e Gigetto. La loro musica da ballo è quella: valzer, mazurche e tango. Negli anni 60 hanno sessantanni. E la loro generazione, nel loro caso peraltro di estrazione contadina, ha avuto altro a cui pensare che l’emancipazione della cultura giovanile. Quando cioè gli under 20 sono diventati un movimento, dal ’68 in poi. Non hanno quindi uno specifico musicale (non so se si dice così, ma passatemi il termine) di riferimento, giusto? Continua a leggere (da Alcuni aneddoti dal mio futuro del 27/01/2011)

Disclaimer: in estate chiunque si barrica dietro un autoreply di chiuso per ferie e mette in sua vece un ologramma giusto per tenergli caldo il suo centimetro quadrato di spazio on line per il ritorno. Sapete, di questi tempi meglio non lesinare in sicurezza, i posti si fanno presto a perdere e mettere un surrogato di sé stessi può essere una strategia vincente. Così noi che apparteniamo a una sottospecie di categoria di esodati ma solo perché abbiamo preso parte come milioni di altri alle partenze molto poco intelligenti, ma allo stesso tempo non vogliamo che vi dimentichiate di noi, abbiamo pensato di pubblicare in questo periodo di vacanza qualcosa di già edito, nostro o altrui, o qualche pezzo a cui siamo particolarmente affezionati. Ciò non toglie che l’ispirazione, dai mari della Sardegna, faccia capolino di tanto in tanto.

libera la spiaggia

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In tre bambine hanno in tutto una quindicina di Barbie corredate di vestiti e accessori, e a loro modo incrementano la densità abitativa di questo fazzoletto   di spiaggia libera ligure che, proprio stamattina, in una classifica redatta da un quotidiano locale, svettava nelle posizioni più alte in fatto di qualità. Una media   tra pulizia dell’acqua, attrezzatura e non saprei cos’altro perché proprio qui dietro c’è un parcheggio abusivo. Ora, se fossimo una nazione civile, questo   dettaglio sarebbe sufficiente a squalificare l’intero comune e non solo quella spiaggia libera. Si tratta proprio di un parcheggio abusivo, nel 2012 e in una   cittadina turistica del nord Italia. Un tizio che ha una sottospecie di cascina con un ampio sterrato racchiuso in un recinto davanti, c’è pure una sottospecie di cassiera dalle fattezze abusive quanto la sua mansione che fa finta di niente, ma non si spiegano altrimenti le decine e decine di auto allineate dentro e il via vai malgrado l’assenza di una qualunque indicazione.

E proprio da lì esce un omaccione in costume sul cui torace depilato sono impressi i segni  inequivocabili del malaffare: un tatuaggio di Gesù Cristo, che non è che in sé Gesù sia un emblema del’Italia in nero, però chi se lo tatua è come se ne  incarnasse in automatico – almeno da un punto di vista lombrosiano – le sembianze. A fianco si riconosce un tatuaggio di Cochise, proprio il capo indiano.  Quindi un tribale che sembra scarabocchiato lì per caso quasi a incorniciare il nome di una donna in inchiostro blu, Assunta, chissà, forse la moglie, o l’amante, o la madre. Spero  non la figlia. L’uomo ha appena sganciato una banconota da dieci alla signora oversize alla cassa, si accende una sigaretta e ritorna sul fazzoletto di spiaggia ad incrementare la concentrazione di bagnanti, come le tre bambine e le loro Barbie.

Il gioco però ora sembra essere decontestualizzato rispetto al  giocattolo. Le bimbe si divertono a lanciarsi una delle bambole completamente nuda tirandola come fosse una freccetta, e il vigore dei lanci si fa via via  sempre più forte fino a quando la più rude del gruppetto effettua il suo tiro come a voler marcare la supremazia sulle altre. La Barbie nel frattempo ha  assunto una postura da tuffatrice, con le braccia e le mani giunte in avanti, il che ne aumenta l’aerodinamicità tanto che, sulla spinta di tanta veemenza,  la Barbie va a conficcarsi nel polpaccio di una signora che, in piedi sul bagnasciuga e all’ombra del suo cappellino verde, cade in acqua dolorante. Il padre della lanciatrice accorre a estrarre le mani di plastica di marca dalla carne viva e si prodiga in scuse a profusione, un gesto non sufficiente a placare l’ira vendicativa del marito della donna ferita che estrae il suo fucile da pesca subacquea e con una flemma da killer di professione  sazia con il sangue la sua sete di giustizia sommaria.

Nulla però sembra distrarre la ragazza dai punti neri del naso del suo partner, sdraiati a terra poco distanti dall’accaduto e immolati più che al dio sole alla dea estetista. Aiutandosi con un fazzoletto di carta rimuove attentamente tutte le impurità della pelle ripetendogli, come un mantra, che quel tipo di operazioni con i pori dilatati dal sole sono più efficaci. Un’altra coppia, ben più rodata, una volta assicuratasi la relativa gravità dell’accaduto, riprende l’eterna sfida a carte, una partita dopo l’altra nella totale assenza di dialogo se non a stabilire il vincitore di ogni mano.

Molto più chiassosi invece sono un gruppetto di ragazzotti tedeschi, che già fanno  tenerezza per essere in vacanza in Italia e in vacanza proprio lì, insomma avrebbero potuto essere più fortunati o per lo meno informarsi prima. Stanno   cercando di farsi capire dal gestore del chioschetto – quello che probabilmente ha permesso a quella spiaggia libera di ottenere un punteggio così alto sul   quotidiano locale – su quello che vorrebbero bere. “Bàrbara”, dicono in un italiano stentato, “noi voliamo bàrbara”. Finché si avvicina una signora che di   certo è la più anziana di tutta quella densità abitativa e ha un colore che tende al marrone scuro. “Guarda che i signori vogliono bere del barbèra”. I   tedeschi esultano perché era lì che volevano arrivare, ma l’accento e l’assonanza con il nome femminile aveva mandato in crisi il barista.

Troppa caciara, pensa così l’unico che è nei pressi di tutta quella gente spensierata a ridosso del ferragosto con un libro in mano. Dopo aver registrato a mente il vivace quadro vacanziero, in cui solo uno tra tutte le situazioni accadute risulterà poi essere frutto della sua fantasia, si sposta più in là e continua della lettura di “Fidanzata in coma”, un classico della letteratura da ombrellone.

uomini e pesci rossi

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Fallita l’idea dello stato come ammortizzatore sociale, una debacle in fieri che mostra tutto il suo cinismo proprio in questi tempi di distribuzione trasversale delle nuove povertà, quelle che in un periodo di bagordi sarebbero state salvate in tempo da cassa integrazione e impieghi pubblici di basso profilo, il nostro vivere ha modi sempre più soggetti ai processi del lavoro privato – quando c’è – e dai suoi tempi che dettano uno stile in cui l’uomo ricopre un ruolo tutt’altro che centrale. Il profitto e la pratica del suo salvataggio – non esprimo un giudizio etico, non ne ho le competenze – ci hanno soffiato la parte da protagonista, forse con merito, chissà. Siamo ormai ridotti a comparse marginali e facilmente sostituibili nel nostro compito di “far funzionare la macchina”, che poi alla fine ci sarà un qualcosa di virtuale anche lì che accenderà il tutto nel momento del bisogno e a quel punto, a parte i tecnici e gli aggiustatutto, non ci sarà più necessità di nessuno. Ma, scenari apocalittici a parte, da un lato l’essere sempre meno quello che facciamo perché sempre più spesso non facciamo più nulla ci induce a crisi di identità dovute all’assenza di personalità al di fuori dell’ufficio. Dall’altro, la rincorsa a disporre delle nostre esistenze nei ritagli di tempo che il mercato ci offre e nelle pause caffé ci ha spinto verso passatempi on line di questo genere, coltivabili senza togliere la testa da quella che è la nostra occupazione. Ci divertiamo con l’e-mail sempre accesa e quando riceviamo un nuovo messaggio non ci costa nulla scoprire se è l’ennesimo spam o, peggio, una comunicazione importante che arriva dall’altra parte del mondo dove sì che c’è il vero inferno, altro che weekend di 48 ore e chiusura aziendale. Quelli lavorano sul serio, senza sosta. Hanno un intero continente da far crescere, mica come noi che spostiamo risorse solo nei punti dell’osso in cui è rimasta ancora un po’ di ciccia. Così viene da pensare al grande bluff. Anni di studi universitari dentro e fuori corso in cui – parlo per me – è stato impossibile staccare la spina, spegnere anche solo per qualche settimana un sistema perennemente funzionante e programmato per portare a termine un progetto pluriennale. C’era sempre qualcosa di cui preoccuparsi indipendentemente dalla stagione. L’ultimo esame prima dell’estate, il primo della sessione autunnale. C’era sempre da studiare, volendo. E quando poi, terminato il tutto, si riesce a entrare nel sistema produttivo, la possibilità di godere di momenti più o meno lunghi di respiro, in cui la stanza mentale della propria sfera professionale è davvero chiusa a doppia mandata, è solo un privilegio di pochi. E si tratta di un meccanismo senza tregua che ci è ostile perché ci impedisce di stare vicino a chi vorremmo sia fisicamente che mentalmente e che ci consegna un giorno all’inattività prosciugati di tutto, talvolta anche degli affetti, dimenticati in appartamenti privi di aria condizionata e pronti per sentirci disabituati ad avere una vita double face, dietro e davanti, dentro e fuori.