the waiting room – S1E1

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In un presente distopico che non ha nulla da invidiare a un futuro ucronico ci troviamo nella città di Watts, Massachusetts, nella quale, durante il Covid, sono triplicati i casi di specchietti retrovisori per automobili in cui ciò che si vede durante la guida non corrisponde affatto alla verità. Il rischio è evidente: abbandonando un parcheggio non è detto che quando sembra via libera si possa davvero occupare la corsia o la carreggiata di marcia. Una formazione di terroristi informatici russi al soldo dell’ormai dilagante asse ispirato ai movimenti nazionalisti europei ha hackerato il sistema di controllo elettronico delle automobili più vendute in occidente, lo stesso che, nei casi più estremi e sofisticati, consente la guida automatica del veicolo senza pilota. Lo scenario che ne risulta è a dir poco apocalittico. Un virus consente infatti di proiettare negli specchietti il risultato della ripresa della stessa porzione di spazio di qualche ora dopo il passaggio dell’autovettura, con l’aggiunta di inserti di realtà aumentata. La sicurezza dei cittadini è in pericolo, per non parlare dell’economia mondiale. Ted Crowner, programmatore informatico in una multinazionale del settore delle assicurazioni, si sta aggiornando sulla trama di questa nuova serie in attesa del suo turno dall’ortopedico dando un’occhiata alla pagina culturale di una rivista di gossip che comprende, come tutte, una rubrica dedicata ai programmi tv della settimana ricca di anticipazioni. Da nessuna parte c’è scritto però che il dottore presso il quale ha prenotato una visita è uno dei più richiesti a causa della sua straordinaria somiglianza con David Bowie anche se è evidente che, nel caso questo plot twist riesca a diventare il momento topico della nuova stagione della serie sugli specchietti retrovisori grazie a un post di uno dei più letti blogger italiani di trame inventate, sarà difficile individuare un attore all’altezza, almeno così si legge sulla rivista. Ted si trova lì per un problema ai piedi da risolvere e il dottor Bowie, chiamiamolo così, sta attraversando la fase della sua vita che lo farà diventare il luminare che conosciamo tutti. Il suo specchietto funziona bene, al momento, e si è appena iscritto al corso di specializzazione a Berlino, quello grazie al quale pubblicherà i tre saggi più importanti della sua carriera. Ora ha i capelli rosso mogano e sta lavorando alla sua tesi che, purtroppo per Ted, non riguarda le malformazioni degli arti inferiori tantomeno un sistema di protezione informatica per le automobili. Non c’è dubbio che il dottor Bowie ha qualcosa a che fare con la serie e che Ted, in qualche modo, ne sarà il protagonista. Il nostro eroe in potenza si appresta a saperne di più ma è arrivato il suo turno ed è un peccato perché, per come è iniziata, chissà cosa può succedere dopo.

ncc

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A casa di Adriana ho notato una stampa di Emanuele Luzzati che conosco benissimo raffigurante una scena con un tizio che suona una serenata con la chitarra e la sua bella che ascolta innamorata dal balcone, un regalo di nozze che Adriana ha ricevuto da alcuni amici del marito. Il fatto è che, con il tempo, si è perso un pezzo del corpo della ragazza destinataria delle attenzioni del suo spasimante. Se passate da loro fateci caso perché non è facile accorgersi della parte mancante. Non so se avete presente lo stile un po’ strampalato di Luzzati. Sarò campanilista ma a me fa impazzire. Ai miei bambini ho già mostrato alcuni dei suoi cortometraggi animati sulle musiche di Rossini ottenendo feedback sorprendenti. Anche a mia figlia, quando li ha visti da piccola, sono piaciuti molto. Ho chiesto informazioni sull’accaduto e il marito di Adriana mi ha confessato di non sapere quando si sia staccato il pezzo, probabilmente durante qualche trasloco o semplicemente si è scollato e poi la signora delle pulizie ci è passata sopra con il Dyson. A vederli da vicino fanno un po’ impressione, Adriana e suo marito. Lui supera i due metri e lei, che sarà un metro e cinquanta, gli arriva all’ombelico. Con Adriana non sono molto in confidenza e non ho mai capito che lavoro faccia lui. Solo solo che quando esce dall’ufficio si fa venire a prendere in macchina da un autista perché in quei venti minuti che impiega per rientrare a casa gli piace schiacciare un pisolino. Poter usufruire di un servizio quotidiano di un noleggio con conducente è un lusso che si possono permettere anche se, lo so per certo, non sono una coppia di miliardari. Mi sembra però di aver capito che per lui sia una sorta di esigenza fisica. Intorno alle 18, l’ora in cui si congeda dai colleghi, sviene letteralmente dal sonno. Non importa quanto abbia riposato la sera prima, se fuori ci sia buio o ancora il sole, se faccia caldo o freddo, se abbia particolarmente faticato al lavoro, se abbia mangiato lo stinco o solo un’insalatina con i pomodori. Tè e caffè non gli fanno effetto. Tra le 18 e le 18:30 deve trovarsi in un posto in cui gli è possibile chiudere gli occhi e sonnecchiare per una mezz’oretta. Non lo biasimo perché anche me è successo. Ho fatto per tantissimi anni il pendolare e addormentarmi sul treno del ritorno, provato dalla fatica tutta mentale del mio impiego di copywriter e creativo, era un vero e proprio ristoro psicofisico. Ancora oggi, se mi trovo in casa a quell’ora, non disdegno di sdraiarmi sul divano e chiudere gli occhi qualche minuto. Il marito di Adriana all’andata va con i mezzi e per rientrare a casa ha sottoscritto una specie di abbonamento vita natural durante con un servizio privato di trasporti. Mi chiedo perché non si avvalga di un taxi, secondo me spenderebbe di meno. Quando torno da scuola anche a me viene un po’ sonno e devo prestare molta attenzione alla guida. Penso ad Adriana e a quanto sia fortunato suo marito mentre russa sui sedili posteriori tra il traffico della tangenziali all’ora del rientro. Penso anche ai numerosi modi che esistono per riparare la stampa di Luzzati e mi chiedo perché non abbiano ancora provveduto.

nel solco

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Il giorno in cui Anna mi ha portato a casa del padre per conoscerlo – i genitori erano separati – lo abbiamo trovato nell’orto, chinato ad accudire non so quale coltivazione di verdure con i calzoni che gli erano scesi a metà sedere e da lì mi sono chiesto come sia possibile che ad ogni essere umano di genere maschile, giunto a una certa fase della sua vita, inizino a cadere i pantaloni dietro mostrando il peggio di sé. Ci ho pensato proprio ieri: ero accucciato a giocare a tris con Erik sul cemento del campetto di basket che abbiamo in giardino usando dei sassi come gessetti e Anna e Sofia, che erano sedute sulla panchina dietro di noi, mi anno avvertito. “Maestro ti si abbassano i jeans”. Non so se sia una questione di età o della moda che è cambiata rivoluzionando il taglio dei vestiti perché vi assicuro che non mi era mai successo prima d’ora. Mi ricordo benissimo di aver avuto più volte in passato la necessità di piegarmi verso il basso senza mai offrire alcuno scorcio delle mie nudità posteriori. Cos’è cambiato da allora? Spero che non si tratti di una prima avvisaglia di una terza età all’insegna della scarsa attenzione al comportamento verso il prossimo, come quegli individui – ancora di sesso maschile – che si fermano per strada ovunque ci sia una corsia di emergenza per abbassarsi la zip e pisciare davanti a tutti. Possibile che non si riesca a capire la bruttezza del gesto? Possibile che l’urgenza sia tale da non poter attendere un autogrill o una qualsiasi struttura attrezzata con il bagno? Ne ho incrociato uno anche stamattina, venendo a scuola, e nella foga di strombazzargli con il clacson ho persino urtato l’accrocco porta-smartphone che ho sul bocchettone dell’aria condizionata, facendolo cadere. Malgrado la qualità (e il prezzo a cui l’ho acquistato) non si è rotto ed è un vero record in quanto a durata di prodotti made in China di cui mi sono provvisto nel tempo, complice il fatto che c’è stato il lockdown e l’auto l’ho usata molto meno rispetto agli altri anni nello stesso periodo. Sono queste le cose principali che mi fanno distrarre quando guido e infatti cerco di trattenermi e controllarmi. Mi viene in mente il meme del tipo che si volta a guardare il sedere della ragazza che passa mentre cammina insieme alla fidanzata. Potrei realizzarne uno per mettere nero su bianco la prontezza con cui mi lascio sviare dall’attenzione che pongo alle nuove uscite della musica alternativa contemporanea ogni volta in cui mi capita sottomano un video restaurato dei Genesis dal vivo con Peter Gabriel. Da qualche settimana è online quello che vedete qui sotto, una registrazione che, come dice un mio amico, sembra davvero fatta ieri.

follow up

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Rossana sa di chiamarsi come una caramella fuori moda e ha descritto in un racconto pubblicato sul quel blog che raccoglie contributi di aspiranti autori (la più diffusa anticamera del self-publishing) la sensazione di aver scoperto che qualcuno ha davvero parlato di lei. «Non ho fatto fatica a riconoscermi», scrive nel suo pezzo. «Ho rintracciato diversi riferimenti agli incontri che aveva avuto con quel tale in alcuni dei passaggi narrati, a partire dai nomi in codice dei punti della città in cui amavano incontrarci». Comunicavano solo tramite sms nemmeno si trattasse di un canale cifrato della sicurezza nazionale, e l’unica volta in cui uno dei due ha superato la barriera della chiamata vocale l’altro ha compreso subito l’emergenza riflettendo su quale comportamento adottare mentre leggeva il nome sul display che squillava e si illuminava come se si trattasse di un ologramma. «Nella paura che scaturissi fuori da lì come un genio dalla lampada», continua Rossana, «si è affrettato a trovare una battuta efficace per avviare la conversazione e esordire nella risposta». Mi sembra di vederli, mentre comprano focaccine da consumare sulla panchina con vista sul moderno ingresso della sede della start-up in cui sognano di essere assunti in coppia, nemmeno coprissero mansioni complementari. «Mio padre lavorava come ingegnere di produzione nella più conosciuta azienda di stampanti industriali prima che gli smartphone condensassero nella loro tecnologia anche la componente visiva delle nostre vite, oltreché quella sociale», gli racconta tra un morso e l’altro, consapevole del fatto che le briciole attirano i piccioni e che nessuno, dal vivo, si esprima così. Una rivelazione ineccepibile, però, dal punto di vista della sintassi, pronta per essere riportata scritta da qualche parte. Chiacchierano seduti in linea, mai di fronte. Poi si precipitano al supermercato sotto casa di lei. Una sede storica: a quanto risulta dalle foto incorniciate sui muri deve trattari del primo aperto in tutta Italia. «Io gli ho comprato un pain au chocolat industriale, lui una stecca di Novi al latte», così Rossana conclude il racconto di quel momento, nella sua versione dei fatti, tutta da verificare. «Oltrepassate le casse, ce li siamo scambiati come fossero regali di natale, nascondendoli dietro la schiena come in quel film della nouvelle vague in cui i due innamorati fanno finta di farsi una sorpresa. Sembrava dovessimo baciarci, ma forse mi sono sbagliata io».

dalla parte degli esclusi

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Lo Psyco Club a Genova, in Vico Carmagnola 7, è stato un locale decisamente all’avanguardia per tutto il corso degli anni 80 e, se non eravate ancora nati, peggio per voi. Se siete della zona e nei ruggenti eighties vi vestivate di nero, vi conciavate come Robert Smith e ascoltavate quella musica lì, almeno una volta vi sarà capitato di trascorrere una serata – se non un sabato pomeriggio – a ballare, vedere concerti e mostre, partecipare a incontri e iniziative, ascoltare buona musica. E se volete saperne di più, qui trovate un bel po’ di informazioni.

Il fatto è che il fondatore dello Psyco è su Facebook e ha da poco raccolto, in una delle solite pagine commemorative, un nutrito gruppo di nostalgici ex-frequentatori e il gruppo sta raccogliendo foto, volantini, testimonianze, aneddoti e contributi di vario genere da parte degli iscritti. Ho aderito immediatamente all’iniziativa, ovvio, e da quel momento la mia giornata si è arricchita di un nuovo modo per perder tempo sui social. Contemplo il feed nutrirsi in tempo reale con l’intento di dare consistenza, grazie alle voci di altre persone, agli echi del vissuto che mi è rimasto di allora sotto forma di reminiscenze. Una vera e propria droga proustiana, quella della ricerca del tempo perduto.

Sto lì a leggere e a sbirciare nelle foto aspettando che si materializzi qualche istante in cui poter commentare ehi, c’ero anch’io, ricordo benissimo, quello lì di spalle forse sono io. Non vi è mai successo di ritrovarvi per caso sullo sfondo di foto altrui? Io dello Psyco Club non ho nessuna reliquia materiale ma potrei contribuire lo stesso con qualche spunto scritto. La verità è che mi piacerebbe postare qualcosa ma non mi sento ancora pronto, non chiedetemi il perché. Scrivo e riscrivo un aneddoto da pubblicare ma poi lo lascio sotto forma di bozza. Così ho pensato di riportarlo prima qui, per vedere che effetto fa vederlo nero su bianco.

Una volta abbiamo portato la demo di una band in cui suonavo, sarà stato l’85 o l’86, so solo che faceva freddo perché poco prima avevo accompagnato uno del gruppo in un negozio di abiti usati del centro storico a comprare un cappotto nero. Non ricordo con chi abbiamo parlato, non era il proprietario, so solo che la conversazione è stata surreale. Non saprei dirvi se eravamo più fuori noi, con la nostra cassetta e il nostro approccio industrial-elettronico alla Cabaret Voltaire (già ampiamente fuori moda), o il tizio dietro alla postazione che metteva i dischi a cui ci siamo rivolti. La demo riportava fedelmente i recapiti ma, malgrado ciò, nessuno ci ha mai ricontattato per suonare allo Psyco. A riascoltare oggi quei pezzi, onestamente, non ho nulla da recriminare. Non mi sarei mai richiamato nemmeno io.

bis

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Vedo sempre più gente compiere piccoli gesti due volte. Mettersi il dopobarba due volte, lavarsi i denti due volte, cercare il portafoglio nello stesso ripiano dell’armadio nell’ingresso due volte. Controllare se c’è tutto nello zaino prima di andare al lavoro, aggiungere un po’ di sale all’acqua della pasta per sicurezza nel caso non si fosse già messo prima, verificare l’ora della riunione che magari nel frattempo è cambiata. Aprire due pagine di Gmail sul browser e prendere il bis della pastiglia per la pressione, per fortuna innocua, a differenza di altri farmaci. Vedo sempre più gente compiere piccoli gesti più volte. Mettersi il dopobarba due volte, lavarsi i denti due volte, cercare il portafoglio nello stesso ripiano dell’armadio nell’ingresso due volte. Controllare se c’è tutto nello zaino prima di andare al lavoro, aggiungere un po’ di sale all’acqua della pasta per sicurezza nel caso non si fosse già messo prima, verificare l’ora della riunione che magari nel frattempo è cambiata. Aprire due pagine di Gmail sul browser e prendere il bis della pastiglia per la pressione, per fortuna innocua, a differenza di altri farmaci.

insegnare domani

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Sono le 18:12 del 10 agosto 2016 e lo smartphone nella retina portabibite della sedia da mare brandizzata Ichnusa su cui sono seduto emette un inequivocabile tono di avviso. Mi aspetto l’ennesima rottura di scatole dall’ufficio, d’altronde sul bagnasciuga le conversazioni al telefono che cominciano con “sono in ferie ma dimmi pure” sono all’ordine del giorno. L’oggetto della e-mail, questa volta, è però qualcosa di completamente diverso: “Concorso docenti – Convocazione prova orale Scuola primaria”.

Una ditata sullo schermo e, in quella manciata di istanti che il dispositivo impiega per aprirla, capisco che è qualcosa di grosso. Passo in rassegna il colore del mare della Costa Rei, gli amici del campeggio che – come me – si godono le ore migliori della spiaggia, mia moglie sdraiata sul telo che legge, mia figlia che chiacchiera con le sue amiche, sul materassino al largo. Quindi torno a osservare il display. Mi colpisce l’intestazione del MIUR, il fatto cioè che ci sia gente che usa il logo della Repubblica Italiana in una e-mail, e che si tenti addirittura di ricreare l’impaginazione delle lettere cartacee, con la data da una parte, il destinatario dall’altra, il titolo al centro, senza rendersi conto che i client di posta e le webmail si comportano a modo loro, soprattutto se gli allineamenti a sinistra e a destra li fai aggiungendo gli spazi.

Il testo del messaggio però mi toglie ogni dubbio: il 2 settembre sono chiamato a sostenere la prova orale del concorso bandito con D.D.G. 105/16 per la scuola primaria. Questo significa che, contro ogni previsione, ho superato la prova scritta, il vero osso duro dei concorsi per entrare di ruolo. Se tutto va bene, sarò un insegnante.

A questo punto della storia è doveroso un flashback. Ho conseguito il vecchio diploma magistrale ai tempi dei Duran Duran e per caso. In terza scientifico mi sono accorto che avevo scelto un liceo fuori dalla mia portata. In più non avevo voglia di studiare, volevo diventare una rockstar e anche la prof di matematica si era messa di mezzo, sbattendomi in faccia la mia inadeguatezza. L’unica alternativa per ottenere un diploma senza ripartire da zero e senza perdere l’anno erano le magistrali, la scuola che ora si chiama liceo delle scienze umane. Nella piccola città in cui vivevo non c’era molta scelta. Ho preparato privatamente le materie d’indirizzo – pedagogia e psicologia, ho superato l’ammissione e, in due anni, sono giunto indenne alla maturità.

Ai tempi, a 18 anni scarsi potevi dare subito inizio all’iter per diventare docente di ruolo nella scuola elementare. Io però ho fatto tutt’altro. Mi sono laureato in lettere – erano i primi anni 90 – e ho avuto la fortuna – più che l’intuizione – di mettere a frutto una latente passione da smanettone per i computer entrando in quello che allora, con il web agli albori, si chiamava “multimedia”. Ho iniziato come programmatore di cd-rom, quindi mi sono occupato di contenuti per Internet per poi fare a tutti gli effetti il copy in un’agenzia di comunicazione specializzata in tecnologia. Tutto questo per più di vent’anni, durante i quali non mi è mai passato per il cervello l’idea di insegnare. Da dipendente privato, il meccanismo dei concorsi pubblici mi sembrava un sistema di recruiting anacronistico e fuori mercato, prima che impossibile da affrontare. Per non parlare dell’inferno delle graduatorie, i sindacati, la burocrazia, le supplenze e tutte quelle inutili leggi da imparare, parte del programma.

Nel frattempo ho cresciuto mia figlia e sono entrato in contatto – da utente – con la scuola pubblica italiana. Ma mi ero anche in parte stufato della routine professionale. Ore e ore al pc, creatività a comando, aspettative non corrisposte mettevano in ombra i lati positivi del mio lavoro: l’ambiente dinamico, la modalità flessibile e la consistenza della busta paga.

Avevo letto che il concorso per diventare docente di ruolo alla scuola primaria del 2016 sarebbe stata l’ultima occasione per i candidati come me, in possesso del vecchio diploma, privi della laurea in Scienze della Formazione e senza nemmeno un’ora di servizio. Ma, a dirla tutta, pur sentendo il bisogno di dare una svolta alla mia vita, fare il maestro continuava a rimanere all’ultimo posto delle priorità. Mi sembrava uno spreco, però, rinunciare a quella opportunità in extremis e sapevo che, se non ci avessi provato, mi sarei pentito per sempre.

Il processo però sembrava tutt’altro che semplice. L’iscrizione al concorso passava tramite l’attivazione di un profilo su un portale dedicato e la richiesta andava posta a una qualsiasi segreteria scolastica, che non è certo l’ambiente più user-friendly per i non addetti ai lavori. Non solo. Una volta attivato l’accesso, il sistema mi ha confuso con un omonimo, riportando dati anagrafici errati. Benvenuto nei database della PA. Alla fine, sempre per fortuna più che per caparbietà, ce l’ho fatta e ho inoltrato la domanda.

Il 30 maggio del 2016 mi sono presentato alla prova scritta “computer based” che mi ha catapultato nell’universo degli aspiranti insegnanti. C’era uno come me che si vedeva che era fuori luogo, aveva persino le iniziali cucite sulla camicia. Un altro, salito apposta da un paesino della Calabria, faceva il muratore ma “un concorso è un concorso”, mi ha detto. E poi quella ragazza che aveva fatto appena ritorno da un anno in Australia. Chissà che fortuna i suoi bambini, ho pensato, con una maestra cosmopolita.

Il fatto è che non mi ero minimamente preparato – il lavoro e la famiglia assorbivano tutte le mie energie – e persino mia moglie aveva tentato di farmi desistere dalla volontà di andare a fondo. La prova di inglese, la prima a cui mi sono sottoposto, si è rivelata alla mia portata. Nella comprensione dei testi e nella traduzione me la cavo piuttosto bene. A quella sono seguite alcune domande di cui ora non ricordo granché, se non il fatto di aver dato sfogo alla mia esperienza di copy e di aver scritto come un forsennato. Sono stato molto attento alla grammatica e alla forma e sono persino riuscito a mettere qua e là certe parole di tendenza – storytelling su tutte. Ero in un istituto tecnico per geometri a Cantù e fuori pioveva a dirotto. Uscito da lì mi sono persino sentito a disagio per aver sprecato un giorno di ferie per quella messa in scena. Ero consapevole che nessuno, leggendo le fanfaronate con cui avevo riempito le risposte alle domande aperte, mi avrebbe mai dato il minimo credito per qualunque posizione, tantomeno per quella di educatore di bambini.

Invece mi sbagliavo, e di grosso.

Torniamo così sulla spiaggia del campeggio, in Costa Rei. Metto al corrente mia moglie del contenuto della e-mail e lei mi guarda come se avessi vinto alla lotteria. Ci precipitiamo a Cagliari dove è tutto chiuso per Ferragosto. C’è solo una Feltrinelli aperta a ridosso del porto dove, ancora per puro caso, trovo l’ultima copia di un testo adatto per preparare l’orale. Il titolo è beneaugurante: “Insegnare Domani”.

Eppure, ancora una volta, mentre sfrutto al massimo i pochi giorni di tempo per approfondire i vari esempi di lezioni da simulare riportati nel libro – la prova orale consiste proprio in quello – mi convinco che la cosa non fa per me. Che cosa ci azzecca un copywriter, ex-musicista, collezionista di vinile, blogger ed esperto (a parole) di trasformazione digitale con una classe di mocciosi?

Il giorno precedente all’orale, sorteggio al cospetto del presidente della commissione la lezione di prova che dovrò tenere 24 ore dopo. Conservo ancora, tra le reliquie professionali, quel bigliettino. Traslazione, rotazione e simmetria delle figure piane in una quarta di una scuola ubicata in un paese rurale. Già, non ho pensato che i maestri della primaria insegnano anche matematica. Ecco un altro segnale: non è la professione che fa per me.

Rientro a casa mi metto a scartabellare su Internet, coinvolgo mia cognata insegnante e capisco che, privo di qualsiasi competenza pedagogica, posso solo contare sul mio background professionale e sull’improvvisazione.

Metto insieme una serie di spunti scommettendo tutto sull’interdisciplinarietà: il tangram, le foglie da raccogliere dal vero in una passeggiata nel bosco, la visita alla mostra di Escher a Milano, le frasi palindrome, le scale musicali, le melodie trasportate in diverse tonalità che mantengono i rapporti tra le note, le funzionalità di editing grafico per trasformare le figure con i software open source più comuni. Riporto quindi tutto su una presentazione PowerPoint creando vere e proprie infografiche e scegliendo accuratamente le illustrazioni, proprio come faccio per i miei clienti in ufficio. Aggiungo persino un titolo creativo alla lezione: “La geometria fa riflettere (ma anche traslare e ruotare)”. Quindi, atteggiandomi a relatore di TED, mi esercito ripetendo più volte fino a notte fonda il mio intervento scorrendo, come vedo fare agli eventi business di cui curo i contenuti, le slide dalla prima all’ultima. Forse, davvero, insegnare è un po’ così.

Avevo fatto un sopralluogo presso la sede del concorso un paio di giorni prima per verificare in cosa concretamente consistesse la prova. I candidati, anzi, le candidate erano numerosissime e c’erano diverse commissioni. Alcune mi avevano sorpreso per l’approccio piuttosto garantista che mi aveva rincuorato. Una, invece, si distingueva perché composta da commissari decisamente ingerenti nello svolgimento delle simulazioni e pignoli della discussione. L’abbinamento mi penalizza, assegnandomi proprio a loro. Nell’attesa della sessione in cui sarei stato valutato e molto probabilmente umiliato, nel frattempo ritrovo, destinati alle commissioni più abbordabili, il candidato con le iniziali sulla camicia, che al posto del Powerpoint ha con sé un foglietto a quadretti con qualche appunto e basta, e la ragazza tornata dall’Australia. Del muratore calabrese, invece, nessuna traccia.

Del mio gruppo vengo estratto per primo. Inserisco la chiavetta USB (avevo preso la precauzione di esportare l’elaborato in pdf in modo da mantenere il Google Font a cui tenevo moltissimo) e parto con il mio show. Il più severo dei due membri, però, mangia immediatamente la foglia e, alla terza slide, mi ferma per chiedermi su quale corrente pedagogica si basassero le tecniche che stavo mettendo in pratica nella mia finta lezione. Mi sembra corretto mettere in chiaro, così, il mio caso: a differenza delle candidate che si sarebbero avvicendate davanti a loro e di tutte le altre che, nelle aule attigue di quella scuola del centro, stavano sostenendo la stessa prova, avevo zero esperienza. Nonostante ciò mi sentivo motivato, entusiasta e pronto a mettere al servizio della scuola pubblica le mie competenze nella comunicazione, nel digitale, nella tecnologia, nella lingua inglese e nella musica. La tensione si stempera, gli esaminatori si incuriosiscono, notano persino la cura nella grafica delle slide. Porto così a termine la mia esposizione, sostengo una veloce e formale conversazione in inglese, racconto di ciò di cui mi occupo in agenzia e, infine, mi accomiato. Mi prende una sete mostruosa unita al down che segue alle imprese che mettono adrenalina. Mi fiondo in un bar nei pressi per consumare alla goccia una Lemonsoda ghiacciata.

Il verdetto sarebbe stato pubblicato sulla porta dell’aula in cui avevo appena dato il meglio di me stesso solo al termine delle prove di tutti e sei i candidati. Rientro nella sede del concorso e seguo gli altri orali. Una ragazza con diversi anni di esperienza in una di quelle graduatorie dagli acronimi fantasiosi da cui le scuole attingono personale precario ogni anno, cade ingenuamente sul rimando a una teoria poco opportuna per la lezione sorteggiata. Da lì, l’esaminatore più intransigente si accanisce per smontare tutta la ricerca che, a mio parere, trasmette comunque una certa preparazione. Quella dopo non sa spiccicare nemmeno una parola di inglese. E non ricordo se la quarta o la quinta, quando le viene chiesto di copiare il file della presentazione dalla chiavetta al pc per metterla agli atti, ammette di non aver dimestichezza con la tecnologia. Per fare un copia e incolla. L’ultima, invece, si presenta lanciatissima e super-professionale e prende il voto più alto di tutti.

Insomma, per farla breve, alla fine sono stato promosso anch’io. La candidata a cui avevano contestato tutto è risultata invece insufficiente e, pur felice per il mio esito, mi sono sentito fortemente in colpa, come quando rubi il posto a qualcuno che ne ha diritto più di te. Tornata a casa, avrà sicuramente inveito contro quel cialtrone che ha fatto persino la beatbox durante la prova di un concorso per la scuola, per dimostrare che si può insegnare musica con qualsiasi cosa a disposizione. Ma la cosa più importante è che, uscito da lì, ho ripensato all’entusiasmo e alla motivazione che avevo millantato poco prima per convincere i commissari e, in tutta sincerità, mi è sembrato che fosse davvero così. Non avevo mentito più di tanto. Quella sera sono rimasto a cena sui navigli con mia moglie e mi sono persino ubriacato.

Superato o no il concorso, era comunque tardi perché la macchina organizzativa riuscisse a portare a termine l’operazione nell’anno scolastico in corso. Le graduatorie sono state pubblicate a novembre e l’Ufficio Scolastico ha emanato solo a fine luglio 2017 la convocazione dei primi millecinquecento neo-docenti. Io venivo poco dopo, mille seicento e qualcosa, un ritardo che ho vissuto nuovamente come un ostacolo al cambiamento a cui anelavo. Ai miei datori di lavoro, ovviamente, non avevo detto nulla. Il mio contratto in agenzia prevedeva tre mesi di preavviso. Così avevo messo in conto di prendere servizio con la chiamata che presumevo si sarebbe tenuta alla fine dell’estate successiva, nel 2018. Avrei dato le dimissioni verso maggio in modo da rimanere in agenzia fino al 31 agosto, per poi iniziare a scuola il primo settembre.

Si vede che non conoscevo per nulla il rocambolesco mondo della scuola pubblica. Non passa nemmeno un mese dalla prima convocazione e a pochi giorni dal rientro dalle vacanze (niente più campeggio in Sardegna ma un viaggio in UK) scopro una seconda chiamata per i successivi cinquecento candidati, programmata per il 28 agosto.

Mi precipito all’ufficio scolastico il giorno stabilito, firmo l’entrata in ruolo, scelgo l’ambito territoriale e, nel pomeriggio, la scuola in cui dovrò insegnare. Questo significava tre giorni utili appena per salutare l’agenzia in centro a Milano in cui avevo lavorato per sedici anni senza alcun passaggio di consegne e un inizio in affanno della nuova vita di maestro elementare, in una primaria di provincia. Non mi sentivo assolutamente pronto.

Su suggerimento di una ex collega che aveva seguito lo stesso percorso prima di me, ho proposto al dirigente della scuola a cui ero stato assegnato un anno di aspettativa per portare a termine ciò che avevo in mente. Durante i successivi dodici mesi, oltre a continuare il mio vecchio lavoro, mi sono dato da fare studiando, informandomi, seguendo corsi online e, soprattutto, trascorrendo diverse ore di tirocinio volontario in classe. Un’esperienza utilissima perché mi ha restituito l’idea cosa sarei andato a fare. La futura collega che, sempre volontariamente, si è prestata a seguirmi in questo percorso, mi ha anche permesso di tenere una lezione ai suoi bambini, per la quale mi sono preparato meticolosamente proprio come avevo fatto per la simulazione al concorso. Ho allestito un percorso di musica nella sua quarta. Sono partito da Miles Davis, cosa che mi ero promesso di fare se avessi mai messo piede in un’aula scolastica, e ho coinvolto la classe lungo un viaggio nel ritmo, nella melodia e nella storia della musica che ascoltano a casa.

Il racconto finisce qui, perché, da allora, è filato tutto liscio, Covid permettendo. Ho comunicato le mie intenzioni ai miei datori di lavoro ad aprile e, dal primo settembre 2018 e a 51 anni, mi sono reinventato insegnante. E ho davvero messo le esperienze di una vita al servizio della scuola pubblica. Nell’istituto comprensivo in cui lavoro da allora gestisco il sito, il laboratorio di informatica compresi i dispositivi di classe e tutto ciò che riguarda la piattaforma di didattica integrata. Ho tenuto corsi di digitalizzazione agli altri docenti. Cambio persino i toner alla fotocopiatrice. Quando ci siamo trovati in lockdown ho messo in piedi e amministrato il sistema che ha permesso ai colleghi e agli studenti di continuare l’attività a distanza.

Ma la cosa più bella del lavoro che faccio ora è stare ogni giorno in mezzo ai mocciosi, proprio quello che temevo di più. Lo scorso anno ho preso una prima che ora è una seconda. Se non ci fossero problemi di privacy vi farei vedere le loro facce, perché sono loro i veri protagonisti della storia che ho appena raccontato. Io mi diverto moltissimo. Insegno matematica, informatica, inglese, arte e musica. Li aspetto in classe ogni mattina e, quando arrivano, ognuno mi saluta a suo modo. Il sorriso si capisce dagli occhi e si intravede sotto la mascherina. Non so se sono bravo, ma secondo me lo sto diventando.

prospettiva niente

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Ci sono posti dove non c’era nessuno in giro nemmeno prima del lockdown e la quarantena non ha certo cambiato le cose. Luoghi come questi si prestano a pratiche a rischio di insuccesso zero, per esempio rimettere in sesto una vecchia Nikon che non uso più. Un po’ perché ha mille funzioni ma non credo di aver mai spostato il selettore dalla posizione di automatico. Un po’ perché con lo smartphone si fa prima. Mentre immortalo strade vuote posiziono la mascherina sotto il mento, tanto non c’è anima viva. Mi viene in mente il titolo per la foto: “Prospettiva Niente”, nel senso che nessuno, se non la superstizione, può prevedere che quest’anno sia finalmente quello dell’emancipazione dalla malattia. Nella vetrina di un fioraio ci sono ancora dei vasi con le stelle di Natale. Non so perché ma mi viene da parlare da solo per ricordarmi che non sono integerrimo. Non fate come me. Non prendetemi di esempio, mi verrebbe da scrivere in uno di quegli avvisi che si appendono sulle bacheche pubbliche con il numero di telefono stampato in tagliandi da strappare ripetuti per tutto il lato corto in basso. Cerco sul manuale d’istruzioni della macchina fotografica il modo per rendere più efficace lo zoom digitale ma qualcuno lo ha scambiato con un libercolo di aforismi dal retrogusto filosofico, mai così fuori contesto. C’è scritto che c’è sempre da scrivere e che è per questo che è importante arricchire il lessico degli esseri umani sin da quando sono piccoli. Coltivare la scrittura a partire dai rudimenti, dalla grammatica, dalla struttura del periodo, dalla forma al servizio della sostanza. C’è anche un disegno con la silhouette di omino che scarabocchia un taccuino con uno di quei lapis di una volta e ha un sorriso inequivocabile stampato sulla faccia. Mentre guidavo per arrivare qui il tempo è peggiorato e ho pensato al grande dilemma di interrompere il funzionamento dei tergicristalli in galleria quando piove, considerando che se c’è traffico gli altri veicoli spruzzano gocce d’acqua (nel migliore dei casi) dall’asfalto sul parabrezza. Mi è sembrato un buono spunto da cui partire e l’ho memorizzato grazie al riconoscimento vocale del telefono perché ho pensato che, prima o poi, potrebbe tornarmi utile.

la società delle decisioni

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La mamma di Marta lavora all’ufficio delle decisioni. Marta sa che quando i suoi amici o gli insegnanti le chiedono «Marta, che lavoro fa la tua mamma?» lei deve rispondere che lavorare all’ufficio delle decisioni non vuol dire prendere delle decisioni. La mamma di Marta fa l’impiegata e immette dei dati in un computer a seconda delle decisioni che prende chi dirige la società in cui lavora. Ma le decisioni che la società della mamma di Marta deve prendere, e che la mamma di Marta scrive nel computer, a volte sono decisioni anche importanti. «Cosa farò da grande?», chiedono i clienti di quella società. «Meglio comprare questo modello di lavatrice o quell’altro?» «Gianfilippo è l’uomo della mia vita?».

Di decisioni come queste, la mamma di Marta non sempre viene a sapere. Il responsabile dell’ufficio delle decisioni passa alla mamma di Marta un codice. La mamma di Marta digita il codice sul computer e poi immette la risposta che le viene trasmessa da chi, nella società, ha preso quella decisione. «Il ragioniere». «Il secondo modello ha un miglior rapporto qualità/prezzo ed è di classe energetica più efficiente». «Lascialo perdere, è un lazzarone».

La mamma di Marta legge le risposte, clicca sul quadratino a fianco di quella che gli hanno detto esser quella corretta, e poi clicca su invio. Quindi passa alla pratica successiva: apre una nuova pagina del programma che usa, immette il codice, verifica la risposta da inserire, clicca invio e la pratica si chiude. Da qualche parte nel mondo, un altro cliente della società in cui lavora la mamma di Marta ha preso la decisione giusta.

La società delle decisioni in cui la mamma di Marta fa l’impiegata non fa dei favori ai suoi clienti. I clienti pagano perché qualcuno prenda per loro una decisione difficile. Un po’ come la banca che investe i risparmi dei correntisti che custodisce, o le assicurazioni che prendono le difese di chi fa un incidente in cambio di una quota. Il costo delle decisioni cambia a seconda delle conseguenze che una decisione può avere. «Metto la cannella o il cacao sulla panna?» è una decisione che costa pochissimo. In inverno, quando sono pochi a mangiare il gelato, è sempre in offerta speciale. Dopo le vacanze di Natale, quando tutti i negozi fanno i saldi, salgono alle stelle i prezzi di decisioni come «Vado al liceo classico o al liceo scientifico?» perché tutti i ragazzini che frequentano la terza secondaria di primo grado devono pre-iscriversi alla scuola del nuovo corso. Potete immaginare, in primavera, quanto costa una risposta alla domanda «Mare o montagna?», in vista delle vacanze.

Marta sa però che la sua mamma è molto brava nel suo lavoro. Ogni tanto le racconta di quando riesce a origliare dalle porte dell’ufficio dei responsabili delle decisioni e sente cose buffissime. Nelle pause caffè, la mamma di Marta e suoi colleghi si divertono a simulare come avrebbero risposto loro alle scelte più bizzarre di cui hanno sentito discutere. Scelte di persone importanti e gente qualunque, poveri e ricchi, adulti e bambini, di ogni posto del mondo, gravi o sciocche, nuove fiammanti o di seconda mano.

le avventure del signor Gioacchino: il signor Gioacchino e l’auto più grande che c’è

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Il signor Gioacchino vuole comprare un’automobile grandissima e partire per una bella vacanza. Così un sabato mattina si mette un bel completo blu e va al negozio di automobili del centro.
«Buongiorno», lo accoglie il concessionario, «in che cosa posso servirla?»
«Voglio cambiare l’automobile», risponde il signor Gioacchino, «mi mostri l’automobile più grande che ha».

Il proprietario del negozio di automobili apre una porta e lo conduce in una sala gigantesca. «Che enorme garage!», esclama il signor Gioacchino. «Questo non è un garage», lo incalza il concessionario, «questo è il nostro show-room». Dietro a modelli di tutti i colori e le forme, il Gioacchino vede un’automobile color canna di fucile, grande tre volte tutte le altre.
«Ecco l’automobile più grande del nostro catalogo», dice l’addetto alle vendite. «Può provarla, se crede».

Il signor Gioacchino si arrampica sulla scala di acciaio, apre lo sportello e si mette al volante. Poi si guarda intorno e ammira l’abitacolo. Lì dentro ci potrebbero giocare una partita di calcio, tanto è ampio lo spazio a disposizione. Armeggia un po’ con i comandi, fa una smorfia nello specchietto retrovisore, e poi scende.
«Mi piace», dice il signor Gioacchino appena rimessi i piedi sul pavimento del garage che poi è uno show-room, «ma vorrei qualcosa di più grande». Così, sotto gli occhi sorpresi del concessionario e dell’addetto alle vendite, prende e se ne va.

Il secondo negozio di automobili è alle porte della città, e per raggiungerlo decide di prendere il tram. «In periferia i negozi sono più grandi», pensa il signor Gioacchino, «e sicuramente vendono automobili più grandi». E le premesse non tradiscono le sue aspettative: nel negozio di automobili di periferia non c’è lo show-room ma una maxi-esposizione.

Il pezzo forte della maxi-esposizione è un’automobile che, vista da fuori, sembra la fabbrica delle automobili che vede sempre alla tv. «Cominciamo a ragionare», dice il signor Gioacchino alla Responsabile Clienti mentre chiama il montacarichi che conduce allo sportello dell’automobile grande quanto uno stabilimento. Da lì, per raggiungere il posto di guida deve prendere uno scooter e, nel tragitto, il signor Gioacchino osserva con interesse quell’area sconfinata che, a occhio, potrebbe racchiudere un’intera città. Il cruscotto sembra quello di un’astronave di un film di fantascienza e il clacson fa tremare il suolo fino al paese vicino.

Terminato il sopralluogo, la Responsabile Clienti, sicura del fatto suo, chiede al signor Gioacchino se voglia concludere l’acquisto. Il signor Gioacchino dà un’ultima occhiata all’automobile grande come una fabbrica di automobili ma tanto ha già deciso. «Mi spiace ma non è ancora abbastanza grande come la vorrei».

L’ultima speranza per il signor Gioacchino è trovare un’automobile grande come la vuole lui nella gigantesca città mercato che si estende oltre la periferia. Il signor Gioacchino prende il treno e poi, con un taxi, raggiunge la città mercato. Nella città mercato si affida al servizio di navette interne gratuite e, dopo quasi un’ora, finalmente fa l’ingresso nel dipartimento delle automobili. «Mi faccia vedere l’automobile più grande che ha», si rivolge al receptionist che, in un lampo, gli affianca uno steward a bordo di una specie di macchina volante e insieme raggiungono un hangar che contiene un’auto dalle dimensioni inimmaginabili. «Questo modello è appena stato immesso sul mercato e sono convinto che la soddisferà».

Gioacchino si fa trasportare fino alla portiera del guidatore e, una volta dentro, rimane strabiliato. Quell’auto è davvero enorme, è il mezzo di trasporto più grande che abbia mai visto in vita sua. Prova ad esplorarlo e, passo dopo passo, chilometro dopo chilometro, si accorge che quell’automobile è grande come il mondo. Raggiunge i sedili posteriori, si affaccia dal finestrino e vede una prateria africana. Si sporte dall’altro ma lo chiude subito perché fuori c’è il Polo Sud e fa molto freddo. Il portellone sul retro dà su Central Park mentre il tettuccio apribile offre uno scorcio di un atollo nell’Oceano Pacifico. Quella è l’automobile che fa per lui.

Così, per tornare in fretta dallo steward e concludere l’affare, prende un volo di linea e atterra proprio nell’ufficio commerciale. «Sono contento che la nostra automobile sia di suo gradimento», dice lo steward porgendogli il contratto da firmare. «Devo dire che ho trovato quello che fa per me», risponde il signor Gioacchino stringendogli la mano. «Finalmente ho un’automobile grande abbastanza per partire per una bella vacanza».