due o tre cose che vengono in mente dopo i titoli di coda

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Il successo del nuovo film di Sorrentino ha dimostrato come se non ce fosse il bisogno che c’è una sola proiezione possibile ed è quella in avanti, potremmo cioè fornire qui di seguito una efficace sintesi delle tematiche di “Youth” ovvero: giovinezza un cazzo, abbiamo le ore contate, nel peggiore dei casi ti portano i fiori in una struttura per i malati di Alzheimer ma, manco a dirlo, in quel caso difficilmente te ne accorgi. Spero che l’uso del termine proiezione in ambito cinematografico non vi abbia tratto in inganno, questa volta il gioco di parole non c’entra. Ho cercato così in rete alcune alternative alla depressione in cui possiamo incorrere se ottemperiamo a questa prospettiva, fermo restando che il miglior rimedio resta comunque appendere se stessi al chiodo e immolarsi al futuro altrui così ti distrai un po’ (figli, prossimo, cause comuni e, perché no, animali), anche questo è un punto di vista rispettabile. Ma se preferite rimanere nel vostro orticello il primo suggerimento è lasciare il telefono sempre acceso, perché spegnerlo significa perdere delle opportunità, ti chiamano per l’occasione della vita che può riguardare la sfera personale o professionale e magari lo fanno da un fuso orario sfavorevole per noi, com’è il dollaro oggi. Tu dormi e quelli dall’altro capo della linea sentono che al momento non sei raggiungibile, così chiamano senza pensarci su quello dopo nella lista e ciao. Si tratta di un caso differente dal classico “un produttore viene a sentirmi per caso mentre canto le mie canzoni al pub sotto casa” o “scrivo cose in Internet e un facoltoso agente letterario mi scopre e mi finanzia il primo romanzo” perché se qualcuno ha il tuo numero vuol dire che cerca proprio te, per questo è meglio stare sempre pronti e indossare biancheria pulita e calzini senza buchi. Senza contare che, per qualsiasi evenienza, vi godrete il lusso di non dover inserire il PIN ogni volta. La seconda alternativa è che se ritenete di aver talmente bisogno di parlare con qualcuno fate prima a inventarvi gente che vi fa domande e a costruirvi dialoghi con i controcazzi. Scambi di opinioni su misura. È una pratica che aiuta. – “Ne sei sicuro?”.

dietro a un grande autore c’è sempre un grande gatto

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Ho finalmente visto Interstellar che è un gran bel film anche se si ferma una tacca prima dei capolavori che fanno la storia, quella soglia che nella fantascienza – che peraltro a me piace solo quando è spuria come in Interstellar e nei titoli che sto per darvi – è occupata da avventure un po’ border per il genere come il capolavoro kubrickiano e il classico dei classici di ho visto cose che voi umani eccetera eccetera. Interstellar mi è piaciuto perché è una storia con i piedi ben piantati per terra, quella coltivata e del settore primario che negli USA è e sarà ancora per molto un serbatoio di ricchezza, ma allo stesso tempo è un film con la testa in aria su nel cielo e tutto il resto in una dimensione che è tutta di fantasia e che alla fine, secondo me, ti dà la certezza che già averne tre, di dimensioni, basta e avanza. Infilarsi nei buchi neri messi da chissà chi per andare chissà dove a – è proprio il caso di dirlo – perdere del tempo è un’usanza da lasciare ad altre forme di vita che magari a differenza nostra non c’hanno un cazzo da fare. Quello che però mi ha trasmesso il film di Nolan con maggior forza è la conferma che il retro delle librerie è davvero un posto misterioso che – sono stato lieto di appurare – non causa una vertigine per l’incommensurabile solo a me. Un modo di pensare molto “feliniano” con un elle sola e quindi nel senso di gatti e non del maestro del cinema italiano. Bella questa, eh? Sentite qui. Uno dei miei due mici, la gattina che si chiama Doremi, trascorre nell’interstizio tra i libri e lo schienale del mobile della sala molto del suo tempo. Ne avevo già parlato qui per un altro motivo, e anzi se avete voglia leggetelo quel post, che fa ridere e magari vi piace anche. Ma dicevo che la gatta là dietro ai libri ci dorme e ci si va a nascondere in caso di pericolo, questa è la versione ufficiale, ma nulla mi vieta di tentare una spiegazione metafisica: dietro alla fila dei miei romanzi americani preferiti Doremi percepisce un’alterazione della gravità ed entra in contatto con una se stessa da una dimensione parallela che l’avvisa di qualcosa che succederà in un altro tempo e chissà con quale marca di crocchette. Ah dimenticavo: questo post contiene gattini e anche uno spoiler, quindi se non avete visto Interstellar meglio che passiate ad altro. Ops, troppo tardi?

uaioming

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Domenica sera ho tirato davvero tardi perché su uno di quegli assurdi canali del digitale terrestre davano Ovosodo, un film per il quale io ero già un fuori quota quando è uscito – era il 97 e anche se allora mi sentivo ancora un ragazzino dentro, fuori si palesava il mio trentesimo anno d’età – e che visto ora che ne ho quasi cinquanta dimostra tutto il reale scarto come doveva essere allora tra il me alle prese con quel genere di cose di cui parla la trama e la trama stessa, per non parlare di come uno alle soglie della terza età ma con una spiccata sensibilità blog-oriented come il sottoscritto si possa sentire di fronte a cose che sembrano ancora fresche di vita vissuta e invece distano dal presente più o meno quanto l’anno di nascita distava dalla liberazione dal nazifascismo. L’ironia della sorte è proprio che in questi giorni il dibattito verte sugli ennesimi rigurgiti di croci celtiche e sulla ribalta di gente che è disposta a farsi tiranneggiare da intellettuali del calibro di Salvini e dei suoi sodali avvezzi al saluto romano pur di tenere fuori dalle brutture dell’occidente cristianizzato e soggiogato all’Euro le brutture di qualche mendicante in più proveniente da continenti più sfortunati del nostro. Ora non vorrei ridimensionare un allarme legittimo né banalizzare la questione, ma di rigurgiti nazifascisti della povera gente in Italia è una vita che ciclicamente se ne parla con maggiore o minor enfasi sulle pagine della cronaca nera (nel senso nazifascio del termine). C’erano i terroristi nazifasci tra i 70 e gli 80, e che dire dei tempi di Ovosodo in cui grazie alla vittoria di Berlusconi si erano aperte le fogne e tutto il liquame della destra italiana era tornato ad alzare la testa. Per non parlare di Livorno stessa, che oggi ha pure un sindaco pentastellare. Ma tornando al film di Virzì, permettetemi un encomio al personaggio di Lisa, la bella cuginetta alternativa e altolocata di Tommaso Paladini alias Marco Cocci, sul quale ci sarebbe tutta una letteratura personale in quanto perfetta riproduzione cinematografica di un modello femminile ricorsivamente presente nella mia giovinezza e potrei scommettere anche in quella di tutti voi. Alla fine del film resta soprattutto quel senso di inadeguatezza che induce a due fondamentali domande: perché sprecare la gioventù anelando al conseguimento della maturità quando poi si passa la maturità guardando alla gioventù come un’età dell’oro? E soprattutto perché tenendo duro fino all’una passata di notte per vedere un film come Ovosodo poi la mattina dopo ci si sveglia devastati e cappottati dalla stanchezza mentre quando si era come i protagonisti della storia ci voleva ben altro per arrestare il nostro vigore?

nano nano vulcaniano

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Tutto il baraccone della fantascienza tele-cinematografica e delle sue derive nelle saghe dei supereroi – quello che Paola Casella nella recensione di Birdman su Mymovies definisce “infantilizzazione irreversibile del pubblico” – e che ha trovato nell’Internet un canale disinvolto di raccolta, catalizzazione, divulgazione e cura nerd dei dettagli prima esercitata solo nell’equivalente dei cosplayer a quelle strambe riunioni dei fan dei titoli che hanno fatto la storia di quel genere, si è affacciato con foga su socialcosi e webzine specializzate a piangere la scomparsa di Leonard Nimoy, le orecchie più famose dei viaggi interstellari e vera e propria icona della saga di Star Trek. Si tratta di un filone da ragazzini che a un certo punto un paio di generazioni di ragazzini ha fatto diventare un filone da adulti e, di conseguenza, roba di culto. Ci sono cascato pure io, anche se sono più della parrocchia di Spazio 1999 se non altro per il fascino della dottoressa Russell e, in generale, lo stile più consono ai miei gusti e l’estetica del Capitano Koenig e dei colleghi e degli ambienti del comando della base lunare Alpha. Poi non ho mai capito se è stato Mork a copiare il signor Spock (o come alcuni lo hanno sempre chiamato Dottore) nel suo gesto vulcaniano o viceversa, insomma chi cita chi o magari si tratta solo di una coincidenza. Ma la vera coincidenza è che ieri sera ho visto Birdman, un film senza confronti per il modo in cui il cinema parla del cinema e del teatro, con attori che nella trama fanno riferimento ai se stessi attori nella vita reale, e che mi ha fatto riflettere sull’identificazione tra chi recita e il personaggio per il quale viene ricordato poi dai posteri. Il mondo e non solo Hollywood è pieno di esempi, e va bene così perché comunque è tutto business ed è il bello dell’industria cinematografica, ma sarebbe interessante vedere poi dentro alle donne a agli uomini che la massa considera solo una tracimazione tra la pellicola e la vita in carne ed ossa che cosa rimane. Si impazzisce a causa del proprio ruolo? Davvero si impara a volare se si acquista notorietà per gli effetti speciali applicati alla propria persona? Non so. Comunque Star Trek non l’ho mai seguito con costanza,l’eccessiva sovraesposizione alla lunga me lo ha reso inviso.

quello che può succedere ad aver visto troppe volte “Fuori orario”

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Ciao, mi chiamo Roberto e ho l’ossessione del labiale. L’ossessione del labiale è una patologia che induce le persone come me che vi sono soggette a osservare le labbra (quelle della bocca, nel senso che è bello osservare anche le altre e anche quella può diventare un’ossessione ma in quel caso il concetto di labiale necessita di ben altro genere di definizione) dicevo a osservare le labbra trovando il piacere della massima comprensione nell’associare i suoni emessi durante la fonazione al movimento esercitato dalla componente più esterna dell’apparato preposto a ciò. Che significa che tu parli e a me, anziché guardarti negli occhi, mi viene da osservarti la bocca.

Vivo nella convinzione che seguire questa pratica consenta di comprendere meglio le parole e il loro significato, prova ne è che al telefono devo concentrarmi il doppio e basta un niente che mi perdo ampi passaggi della conversazione. Non solo: all’università cercavo sempre di prendere i posti più vicini agli insegnanti quando seguivo le lezioni, adducendo la scusa di problemi di udito per poter usufruire di quel meraviglioso rinforzo comunicativo che è la bocca intenta a esprimersi, cosa che permette una doppia ricezione dei significati. Quello della parola, che passa attraverso le orecchie e arriva al cervello, e quello dei movimenti di labbra, denti e lingua che ti anticipano la sequenza dei suoni che seguirà nei successivi millesimi di secondo consentendoti di cogliere prima la parola pronunciata di lì a momenti e conseguentemente un back up con un ritardo impercettibile ma fondamentale, che raddoppia il messaggio in arrivo e ne moltiplica l’assimilazione. Il vantaggio è che sembra di sentire due volte ogni termine, ogni frase, ogni passaggio e questo ne consente una migliore comprensione.

Ma a parte sembrare un po’ spostati o affetti da una sorta di strabismo verticale, l’ossessione per il labiale comporta un ulteriore effetto collaterale. Provate infatti a seguire un film straniero doppiato in italiano e le vostre abitudini allo studio della bocca altrui termineranno schiacciate dall’istinto di sopravvivenza o, per lo meno, da quello stato d’animo per cui, se avete pagato il biglietto del cinema, per una volta potete anche dimenticare le vostre assurde fissazioni. Senza contare che esistono anche molti film e telefilm in italiano in cui l’audio non viene registrato in presa diretta ma aggiunto con la stessa tecnica, per cui l’impressione della non perfetta corrispondenza tra lettere e movimenti dei muscoli della bocca induce a forti traumi psicologici. L’ossessione del labiale è utile anche a individuare se non c’è perfetta sincronizzazione tra una ripresa video e la sua traccia audio, ci sono scene su dispositivi digitali in cui per motivi di velocità del processore la codifica delle immagini rispetto a quella del suono non è perfettamente allineata, così uno può accorgersi subito se c’è qualcosa che non va.

Comunque se soffrite di ossessione del labiale dovreste fare come me e trattenervi. Almeno nella vita reale, a meno di casi soprannaturali o in presenza di persone possedute, difficilmente assisterete a fenomeni di enricoghezzismo, quindi sforzatevi di guardare altrove se non ricambiando lo sguardo di chi si sta rivolgendo a voi, eviterete inoltre l’inutile imbarazzo di chi non si sente molto a suo agio con la propria dentatura, autentica, fittizia o approssimativa, in pubblico.

il regista che scegliereste per un film sulla vostra vita

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Probabilmente i vostri genitori, come i miei, hanno trascorso trenta o quarant’anni nello stesso posto di lavoro, magari iniziando con altri colleghi stanziali quanto loro, in forza alla stessa organizzazione o azienda da chissà quanto e magari in quelle dinamiche di una volta in cui entravi fattorino e, a furia di studio e impegno, andavi in pensione direttore di qualcosa. E forse i vostri genitori, come i miei, hanno assistito ai primi segnali di cedimento della baracca, nel senso del sistema Paese e del lavoro su cui per costituzione era stato fondato, la modernità fatta di quel carrierismo misto a inappetenza professionale e a trasformazione sociale ed economica con una spruzzata di informatizzazione, per cui la gente dopo qualche tempo si spostava, cambiava reparto, se ne andava e chi si è visto si è visto.

E non ditelo a me, che in quasi vent’anni ho cambiato sei posti di lavoro. So bene cosa vuol dire imballare le proprie scartoffie, il portapenne e i gadget che nell’ufficio successivo saranno soppiantati da complementi d’arredo obbligatori e che quindi destinati a finire in cantina. Portare la focaccia e i pasticcini in onore di tutto il tempo trascorso insieme, le battaglie, le sconfitte, i caffè alla macchinetta, i dialoghi superficiali nei tempi morti, le pause pranzo surreali quanto qualunque altra attività naturale come masticare del cibo con commensali con cui non ci si trova così a proprio agio. Per fortuna, o per disdetta, si tratta di situazioni sempre più rare, vi sfido a trovare qualcuno che sua sponte cambia lavoro di questi tempi in cui butta davvero male.

Restano però le esperienze professionali chiuse per motivi anagrafici, come quella che chiamiamo pensione e alla quale non sappiamo più se avremo diritto o meno. Cerco di immaginare così come possa essere l’ultimo giorno di lavoro per professioni particolari, o almeno molto diverse da un banale impiegato quale sono io. Il bagnino che provvede a chiudere ombrelloni e sdraio l’ultima sera e poi si avvia a una cena a base di pesce presso lo stabilimento balneare in cui lavora. La guida che racconta il dipinto nella sala che conclude il percorso del museo in cui svolge la sua attività e magari, proprio in quella descrizione finale, riesce a cogliere un particolare che, nella riproduzione mnemonica dei suoi studi di storia dell’arte, non aveva mai notato in tutta la sua carriera. L’arbitro che fischia la fine dei tempi supplementari di una finale e si avvia definitivamente tra gli insulti del pubblico vero gli spogliatoi, una metafora mica male per una vita professionale.

Ma leggevo poco fa di un tizio della NASA che, a ottant’anni e in pensione da un pezzo, amava tanto il suo lavoro da continuare a voler trascorrere le sue giornate portando i turisti a spasso per Cape Canaveral e di come ha condotto l’ultimo giro per i suoi visitatori prima di doversi ritirare per sempre. Ho pensato che uno così potrebbe essersi procurato, come me, il documentario che tenta di spiegare che il primo allunaggio in realtà è stata tutta una messa in scena, una specie di complotto cinematografico ordito contro gli avversari della guerra fredda per il quale è stato scomodato come regista addirittura Stanley Kubrick. Ecco, magari l’ex impiegato della NASA ha pensato di celebrare il primo giorno di lontananza dall’ambiente astronautico con un programma televisivo che avrebbe potuto aprirgli un nuovo punto di vista su quello che è stato il lavoro di una vita e dare una inedita chiave di lettura dei valori che ha cercato di trasmettere da sempre a migliaia di americani. Per poi scoprire che in quel documentario non c’è niente che possa essere considerato veritiero, come è successo a me, e cambiare canale dopo un po’, fino a spegnere la tv e a cercare un altro modo per passare il tempo.

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il ritorno degli otto otto trash

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In certi ambienti funziona così. C’è qualche pensatore aderente a una lobby di opinion leader che a un certo punto va a prendere l’opposto del senso comune con l’ovvio motivo di ribaltare i parametri del buon gusto con il paradosso. E lo fa per motivi a noi ignoti, probabilmente gli hanno negato un abbraccio da bambino e quel trauma lì lo ha interiorizzato con il primo input che è sopraggiunto dall’esterno. Una linea di design, il profumo della mamma guastato dopo una giornata passata alla cassa del VèGè, la superficie della vigogna di quei pantaloni corti invernali che non voleva indossare a scuola per la paura di mostrare le ginocchia. Fatto sta che questo transfert emotivo gli rimane dentro e a un certo punto, quasi per manifestare una reazione contro le fortune altrui superiori alla propria frustrazione remota ma sedimentata, ecco che il flashback riemerge.

Il che non sarebbe un problema se l’artefice di questo rigurgito culturale non fosse qualcuno inserito negli ambienti giusti, quelli che in quattro e quattr’otto con il loro spirito di influencer operano, in modo che più virale non si può, affinché quella quisquilia dalla profondità dell’oblio comune e giustificato ad un certo momento diventa tremendamente e oggettivamente figa. Questi bastian contrario delle tendenze che più le cose sono agli antipodi dell’estetica vigente meglio è facile convincere l’opinione pubblica che ne vale la pena, e il verbo si diffonde con una velocità inaudita.

Non si spiegherebbe perché una ventina d’anni fa, per esempio, qualcuno ha tirato fuori dalla discarica del pensiero popolare tutta quella merda di cinema anni 70 con i vari Pierino e i Monnezza che, se già facevano cagare ai tempi in cui sono stati realizzati – mi perdonerete spero se sono così diretto nel linguaggio – figuriamoci a così tanto tempo di distanza. Se non che, siamo passati dalle bobine con lo strato di muffa, tanto era che non venivano proiettati, alle loro versioni tirate a lucido in digitale, il tutto amplificato dal web tanto che di Bombolo e di Edvige Fenech sono ancora pieni gli archivi video di youtube.

Dico questo perché da qualche mese a questa parte è tutto un parlare di Max Pezzali. Ho visto per caso una trasmissione di rapper che lo idolatravano come maestro di vita per aver cantato le gesta dell’Uomo Ragno quando questi zarri tatuati facevano a malapena le elementari. Ogni due per tre c’è un articolo con lui che racconta le sue gesta musicali di quell’album con i punti cardinali che in molti, oggi, mettono tra i fondamentali del loro vissuto. Ora se non sbaglio è uscito pure il disco nuovo ed è facile incrociarlo in qualche canale tv, ad ogni ora del giorno e della notte.

Il problema è che poi questi guru delle tendenze passano oltre e ci lasciano nella nostra broda trash che nel frattempo è diventata di culto, non so se mi spiego. Così chi si è perso il primo passaggio, quello originale, in cui il paradosso era una provocazione per sondare la capacità di convincimento della massa, ora pensa che Pezzali non sia per nulla lo sfigato che era con gli 883 e da solista, ma anzi uno che ha costruito le basi del nostro presente. Come con quell’altra moda dell’assurdo: ormai ci siamo scordati che pellicole del calibro della dottoressa che ci sta con il colonnello erano già state seppellite una volta nel dimenticatoio e tutt’ora, come zombi, deambulano resuscitate nel nostro immaginario con fame di vendetta. Ma di cervelli buoni da mangiare, ormai, ce ne sono più pochi.

multisala, tanti divertimenti in uno

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Sto aspettando che termini il sequel di un film per bambini di cui non ho visto nemmeno il primo episodio, seduto su una specie di divano nella hall di un multisala di provincia. Dalle mie parti funziona cosi: nel limite del possibile si portano i bambini al cinema parrocchiale che è una causa da sostenere, sia per una questione di principio che sotto il profilo economico. Costa poco e fa provare quell’effetto di comunità che nei posti come quello in cui vivo, in cui non si capisce bene la fine di un paese e l’inizio di un altro e quando tutto diventa città e metropoli, tutto sommato dà l’ebbrezza dei vecchi tempi, quando i bambini giocavano in strada e altre superficialità di un’epoca finita da un pezzo. La scelta di riserva, quando si vuole andare al cinema ma alla sala dell’oratorio non c’è niente di interessante, è il multiplex al profumo di secchiello di popcorn.

In entrambi i casi la dinamica è la stessa. Si mettono insieme tre o quattro compagni di classe e un genitore li accompagna, fa i biglietti, gli indica la sala e i posti. I bambini si sistemano e l’adulto di turno, oggi sono io, può fare quel che crede. La spesa nel centro commerciale annesso, per esempio. Io questa volta mi sono portato da leggere, sono al primo romanzo di Richard Ford che con Sportswriter è balzato nella top ten personale al fianco dei vari Auster, Delillo, Homes, Everett, Coupland e compagnia bella. Mi accomodo su un divanetto multicolore e per farvi capire quanto mi piace quel libro non mi distrae nulla, né il casino delle famiglie che corrono dietro ai figli né gli adolescenti all’assalto delle sale.

Fino a quando rifletto proprio su quell’utenza e mi meraviglia quel contrasto tra bambini troppo piccoli e le sagome cartonate dei loro eroi, le bestiole gialle di Cattivissimo me o i mostri della Pixar. Per non parlare delle scritte a caratteri cubitali: multisala con una freccia che campeggia sopra l’ingresso del cinema, per differenziarlo dal centro commerciale che gli fa da contorno, i cartelloni pubblicitari di attività locali che sperano nell’investimento in advertising tradizionali puntando a una clientela che i soldi li spende diversamente, a botte di 16 euro a testo per un film con occhiale 3D per esempio. E mentre osservo le famiglie mi sovviene un articolo che mi ha letto dopo pranzo mia figlia, una biografia di Martin Luther King, che è nato lo stesso anno di mio padre ma è stato assassinato a 39 anni. Questo solo perché tra un gruppo e un altro di paganti che si dirigono alle varie sale poso gli occhi su una pagina del libro e leggo proprio quella data, 1968, e l’attenzione sulla storia dura un’altra volta poco.

Vengo distratto da un dialogo tra un coppia di trentenni che si sono seduti a fianco a me. Sfogliano il dépliant con tutta la programmazione della giornata e si scambiano pareri molto vaghi sentiti altrove per scegliere quale film vedere, il che mi sembra curioso perché a me non verrebbe mai in mente di passare un pomeriggio in un multisala in quanto tale e poi lì, a seconda di cosa danno, decidere il film. Voglio dire, se vado al cinema vado a vedere un film non vado a vedere l’edificio indipendentemente dalla programmazione. Non so se mi sono spiegato.

Nel frattempo qualche spettacolo finisce. Escono di gran carriera dal corridoio cui si affacciano tutte le sale due ragazzi nordafricani, vestono giubbe smanicate di colori sgargianti e si allontanano di corsa, potete immaginare che cosa ho pensato. Là dentro, da qualche parte, c’è mia figlia e due sue amiche da sole. Vedo passare tante ragazzine e ragazzini e penso che un posto così, con tanto andirivieni di giovanissimi, potrebbe essere un posto perfetto non solo per la delinquenza tradizionale, avete capito cosa intendo. E per certi versi mi sento sospetto anch’io che osservo le persone passare, seduto da quasi due ore nello stesso punto della hall del multisala con un libro in mano che trascuro per tutte queste cose ed è inutile aggiungere che sono l’unico che è lì di domenica pomeriggio a fare una cosa anomala come leggere un romanzo anziché spippolare sullo smartcoso, mangiare gelati o popcorn o chiacchierare con altri. Non lo scrivo perché poi so già cosa uno può pensare, la superiorità morale e la cultura e cose così.

Insomma, qualcuno potrebbe pensare male, sono anche vestito abbastanza trascurato anche se non indosso smanicati di colore sgargiante. E mi rendo conto di tutto questo quando mi alzo, da lì a poco le bambine di cui sono in attesa usciranno da una delle sale, e due inservienti mi vengono incontro con passo piuttosto nervoso e penso che oddio, ora mi chiederanno cosa ci faccio qui e ci farò una figuraccia con tutte le famiglie e invece no. Mi fanno solo notare che ho lasciato il mio telefono sul divanetto, mi è caduto dalla tasca dei pantaloni. Li ringrazio, lo raccolgo e, non avendo con me carta e penna, lo uso per annotare l’accaduto.

i personaggi incredibili dei film di Sorrentino

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Secondo me si tratta di una citazione.

la-grande-bellezza-giovanna-vignola-sul-set-del-film-276054_mediumIncredibili Incredibles (06) Edna Mode