quel film che si intitola come un pezzo dei talking heads

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Un film da sei stelle, perché le cinque di rito per i grandi eventi in questo caso stanno strette. Voglio dire, un qualunque regista americano con tutta quella roba lì ne avrebbe fatto almeno tre di film. Uno su Robert Smith alle prese con il supermercato e altre amene quotidianità. Uno sulla morte di un padre che ti fa chiudere i conti con l’adolescenza che porti nei capelli e nell’eyeliner. Uno sulla ricerca dei criminali nazisti e le popstar alle prese con la storia. E vedendo Davd Byrne mentre canta e si china sotto il living room vintage che sfida le leggi di gravità e si intona perfettamente con il suo genio, mi sono chiesto quanto manca alla reunion dei Talking Heads.

l’omonima insalata

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Il Belgio è uno di quei posti che pochi associano a una vacanza, o a un paese in cui trasferirsi. O quelle nazioni che quando pensi all’estero ti vengono in mente. Non so, magari succede solo a me, ma prima di arrivare al Belgio la mia classifica di luoghi del mondo passa in elenco una sfilza di altri stati e città. Complice anche qualche episodio di cronaca che ha alimentato il generatore di luoghi comuni e relative battute sui comportamenti di chi vive lì. Però pensavo proprio questa mattina a una serie di prodotti culturali del Belgio che si posizionano molto bene nelle mie personali categorie di appartenenza, trovo giusto quindi rendere omaggio a una piccola grande civiltà.




odio dirti che te l’avevo detto

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Conoscete questa canzone?

Si tratta di “I hate to say i told you so”, uno dei brani più riusciti del gruppo svedese The Hives, il cui titolo sembra una tipica esclamazione di un personaggio immaginario noto al grande pubblico come Puffo Brontolone. Non a caso, un frammento della canzone si coglie nel trailer del film dedicato agli onnipresenti folletti blu, in visione nelle sale cinematografiche in questi giorni.

Non è la prima volta che sento uno dei miei brani rock preferiti nei film per bambini, e la cosa, seppur banale, mi ha già divertito in passato. E oggi ho avuto l’occasione di accompagnare tre minorenni a vedere i Puffi, non in 3D perché una delle suddette tre minorenni soffre di male al setto nasale (così mi ha confessato) quando indossa gli occhiali per gli spettacoli tridimensionali, che su di lei sembrano giganteschi perché, malgrado abbia otto anni e mezzo, raggiunge a malapena i ventun chili. Le ho accompagnate perché era il turno mio e di mia moglie. Si tratta di tre compagne di classe, una delle quali ha il mio stesso cognome, e, per dire, poche sere fa erano a cena da noi. Oggi al cinema.

Ma lo spettacolo non in 3D delle quindici e venti al multisala era sold out. Potete immaginare la ressa per i Puffi in 3D, sta di fatto che affrontare la coda immersi nella puzza dei popcorn e poi, sempre nella suddetta puzza, ammazzare il tempo fino allo spettacolo successivo non era un’impresa percorribile. Non li biasimo, tutti questi fanatici dei Puffi, oggi è domenica e piove a dirotto, sono sfumate tutte le attività organizzate per prolungare al meglio l’estate che da oggi non c’è più. Insomma, il tempo di controllare con la mia app preferita in quale altro cinema della zona proiettassero lo stesso film (la mia app preferita è un’amica che è a casa la domenica pomeriggio, ha un numero di telefono a cui contattarla e ha un collegamento domestico a Internet) e via verso il paesello vicino, dove il film è programmato per le diciassette.

Anche lì coda inumana, ma l’arrivo con oltre trenta minuti di anticipo ci ha messo al riparo da ogni rischio e ci ha consentito di scegliere, per le bambine, i posti migliori. Io e mia moglie ci siamo piazzati nella hall di quel piccolo cinema parrocchiale, libro alla mano, Pringles e Moretti a disposizione. Il film infatti dura quasi due ore, e dalle diciassette in poi ogni momento è buono per l’aperitivo.

Ma il mio libro in realtà era una copertura, lì nella hall di quel piccolo cinema parrocchiale; ho trascorso tutto il tempo con le orecchie ben tese a cogliere il momento del film con il sottofondo degli Hives. D’altronde si sentiva tutto, la sala non è perfettamente insonorizzata. Va da sé che di “I hate to say i told you so” nemmeno l’ombra, non ne ho percepito nemmeno una battuta, una nota, il prodigioso riff di chitarra, niente di niente. A meno che non mi sia davvero lasciato distrarre dalla lettura. La cosa peggiore è che mia figlia non è stata in grado di confermarmelo, le ho canticchiato il ritornello ma mi ha detto di no, quel pezzo lì non lo ha sentito, ha riconosciuto solo, verso la fine del film, “Back in black” degli Ac/Dc.

la dura legge del salotto

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Carnage, il nuovo film di Roman Polanski presentato all’ultima edizione del Festival di Venezia, è un delizioso quanto spietato gioco delle parti tra due coppie chiamate a sottoscrivere un accordo per risolvere le conseguenze di una scaramuccia che ha coivolto i rispettivi figli undicenni: una lite al parco, una parola di troppo, un bastone usato come arma, due denti che saltano e un labbro rotto. I genitori della vittima, una coppia della classe media newyorkese, organizzano l’incontro riparatore presso il loro salotto con gli altri genitori, un avvocato al servizio delle multinazionali e una consulente finanziaria. La storia si svolge tutta lì in un’unica scena teatrale, ottanta minuti per un’escalation comportamentale interpretata magistralmente da quattro fuoriclasse. I padroni di casa, Jodie Foster e John C. Reilly, progressisti e idealisti, da una parte. Gli upper class, Kate Winslet e Christoph Waltz, snervati dalle continue telefonate di lavoro ricevute da lui, dall’altra. E se ai nastri di partenza ci sono i genitori di un ragazzino apparentemente problematico, figlio di un padre poco presente e già al secondo matrimonio, contro una famiglia solo apparentemente unita intorno ai valori dell’america democratica,  presto si scopre che la distinzione tra buoni e cattivi non è così definita. Man mano che la storia si dipana, le dinamiche tra i quattro, le parole di troppo, la finta cortesia, le accuse e i tentativi di conciliazione corrono per la stanza a formare nuove e impensate alleanze, mariti contro mogli o tre contro uno o battibecchi tra singoli e crisi interne alle coppie stesse. L’alcol e gli stereotipi culturali spuntano in alternanza a sottolineare i piccoli colpi di scena e le innaturali confidenze di sconosciuti che fanno e disfano allo stesso tempo il percorso narrativo, spostando continuamente il punto che potrebbe sancire o l’accordo o la definitiva rottura, in un continuo gioco al rilancio. L’impressione è di mettere il naso in una finestra altrui spalancata, la lite del vicino di casa che ti infastidisce e che ti spinge a impicciarti delle cose degli altri, diretta da una regia che fa correre gli occhi dello spettatore sul protagonista del momento, chi volta per volta tiene stretto il centro dell’attenzione e si attira le ire dell’avversario di turno. Il tutto per nulla penalizzato dal doppiaggio.

fantasia a rischio

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Fate molta attenzione prima di far vedere un cartone animato ai vostri pargoli. Lo so, non siete sprovveduti, e se è così converrete con me che spesso ci si trova di fronte a delle boiate pazzesche. Bambini e anziani sono la componente più indifesa del mercato, quella verso cui l’industria in senso lato non va tanto per il sottile nella creazione di prodotti dedicati, tantomeno in ambito entertainment. Un problema che, lato anziani, avevo già trattato qui (mi sento un po’ in imbarazzo a citare me stesso, ma meglio linkare che ripetere, che già lo faccio perché non ricordo quello che scrivo), mentre di riferimenti sul sistema che bada fin troppo a spese per il divertimento dei più giovani è pieno tutto questo spazio. Quindi mi limito a consigliarvi di stare alla larga da un paio di titoli che, facendo ordine nel mediaplayer che a casa mia fa le veci della tv, ho ranzato via dall’hard disk con enorme soddisfazione. Cartoni animati che mi sono procurato (diciamo così) per forza di inerzia più che per convicimento, ma che alla prima visione hanno suscitato il raccapriccio famigliare, nei grandi e (un po’ meno) nei piccini. Per finire nel dimenticaio dei sentimenti e la conseguente cancellazione dalla memoria fisica. Perché vi assicuro che non ho ancora visto nulla di peggio del branco di dinosauri parlanti e canterini, una serie di lungometraggi – oltremodo lunghi, probabilmente pensati per chi vuole sedare i figli per due ore con l’obiettivo di sbrigare più faccende possibili –  e le loro storie ispirate alle dinamiche umane e moderne. Si tratta di minestroni kitsch mescolati a canzoni che, già demenziali ab origine, tradotte e (non) adattate alla lingua italiana e interpretate da questo o quello lucertolone preistorico, generano una sorta di musical iperglicemico in grado di causare distorsioni senza ritorno della realtà dei più piccoli. Perché un animale antropomorfo qualsiasi è, tutto sommato, credibile e piacevole. Un cucciolo di Triceratopo che affronta temi quali la solidarietà e l’amicizia con uno Stegosauro un po’ meno.

Dio o chi per esso vi protegga anche dai pinguini da Mtv, come li chiamo io, ovvero il film di animazione Happy Feet. Anche in questo caso non ne critico il messaggio, addirittura ecologista. Ma quei pinguini minacciati dall’uomo sanno haimé cantare, e cantano come i cantanti e le star del nuovo r’n’b made in Usa, si esprimono con gorgheggi e mossette alla Beyoncé (le pinguinesse), mentre i pinguini maschi imitano i macho che mescolano la cultura afro-americana con quella dei latinos statunitensi. Insomma, tutto quello che reggo di meno del pop d’oltreoceano. Ma nemmeno gli urlatori dell’antardide hanno potuto vincere una ferrea volontà di esercitare un Ctrl+Alt+Canc, e anche questo film è sparito dalla nostra piccola parte di memoria collettiva. Grazie, non è stato un piacere. A mai più rivederli.

per un pugno di dollari

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David Bowie, vestito da cowboy, che suona la chitarra e canta una canzone. È doppiato da schifo, un timbro che nemmeno lontanamente ricorda il duca bianco, ma è Davie Bowie e altrove, stiamo parlando della tv in una sera qualsiasi d’agosto, quando è già disdicevole di per sé essere in casa con la tv accesa, ma può capitare, c’è il vuoto digitale. Non ricordavo che avesse fatto un film ultimamente; ho visto L’uomo che cadde sulla terra e Miriam si sveglia a mezzanotte, ricordo Furyo. Ma film recenti? E poi Mr. a lad insane che recita in un western? Stiamo a vedere. È questione di secondi e vedo anche Harvey Keitel, è di profilo e guarda dalla finestra. Tra me e me penso che la cosa si sta facendo interessante. Harvey Keitel, diamine, un tempo era il mio beniamino, soprattutto dopo Smoke. Ci sono buone probabilità che il film sia di qualità. Ma il terzo indizio fa piazza pulita: a fianco di Harvey Keitel fa capolino Pieraccioni. La tv si spegne come per incanto; ho deciso, per il mio equilibrio, di continuare a ignorare il motivo e i dettagli di un simile coacervo cinematografico. Bowie che ha accettato, non so quando e non so come, di fare un film con Pieraccioni. Vi prego di non dirmi nemmeno il perché.

è un po’ come perder tempo

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Le iniziative tipo “Cinema sotto l’ombrellone” o “Cinestate” o “R-estate al cinema”, insomma, naming a parte avete capito a cosa mi riferisco, sono perfette per chi, come me, come da copione – è proprio il caso di dirlo – ogni anno perde il meglio della stagione cinematografica perché organizzarsi e andare a vedere un film che non sia per bambini non è così immediato, e lo sarà finché tutti i membri della famiglia non saranno indipendenti. Ma tali rassegne, che appunto riuniscono il meglio o giù di lì di quanto realizzato negli ultimi 12 mesi, non dovrebbero mettere in scaletta film come Biutiful. Un film eccezionale, ma, converrete con me, estivo quanto un punch caldo al rum.

E tu, caro Alejandro Gonzalez Inarrittu, tu sei uno dei miei registi preferiti, e lo sai perché? Perché riesci a rappresentare i miei peggiori incubi in storie talmente ansiogene e deprimenti che il contenuto dell’incubo, alla fine, risulta talmente un tipo di paura così banale da rimanere confinato ai margini della storia, sopraffatto da altri contenuti pronti a soffocarti per tutto il resto del film. E alla fine ci ridi su, della tua paura. Ed è successo tutte le volte, in Amores Perros, in 21 grammi, in Babel, persino nel tuo cortometraggio incluso nel film sull’11 settembre: gli uomini che cadono dall’alto, pensa che io soffro di vertigini anche sui ponti di Venezia. Pensavo che la tua bravura fosse tale soprattutto grazie a Guillermo Arriaga, la sua scrittura e i montaggi a zig zag che hanno reso i vostri film ancora più capolavori, passatemi l’espressione. Ma sono certo che la vostra trilogia sulla morte può diventare una tetralogia e accogliere questo tuo nuovo film, perché, in Biutiful, di morte ce n’è ancora tanta.

E in un montaggio così lineare, questa volta, la vedi incorniciare tutti i protagonisti, la città di Barcellona, la Spagna intera e tutti gli spagnoli e i tanti clandestini che, nella finzione e nella realtà, sopravvivono oppure no. Ce l’hai sempre lì a fianco della narrazione, come i binari dell’alta velocità quando vai in autostrada verso Bologna. Non c’è un solo elemento di speranza, nemmeno Ana, la figlia maggiore di Bardem che raccoglierà l’eredità del padre, tanto povera quanto ingombrante. Un film che continua fuori, nella città vuota, quando cerchi dopo di addormentarti e le automobili che sfrecciano nelle partenze ignoranti sono l’unica forma di vita udibile nel mondo là fuori messo in stand-by. Di fronte a tanta miseria, anche se frutto di una favola, sono certo che non occorra volare fino a Barcellona per trovarne un esempio ma siano sufficienti pochi minuti di bicicletta per arrivare in un quartiere come Quarto Oggiaro. E ancora di fronte a tanta miseria, una delle notizie del giorno di ieri, inerente la depressione di un miliardario italiano, fa sorridere amaramente. Che non è che i soldi o la celebrità facciano la felicità o ti facciano morire meno soli. Ma io non ci credo.

il peggio cinema

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È questione di un attimo. Sei lì con un ghiacciolo in mano a guardare il circo in tv, se non altro perché tua figlia lo considera una sorta di rito familiare estivo, e poi adora gli animali – non dal vivo però – e al circo su raitre ci sono anche zebre e antilopi, non me ne vogliano gli animalisti e sappiate che sono dalla vostra parte e lo è anche lei, giuro. Ci sono tre acrobati sudamericani che stanno per lanciarsi in una impossibile traversata su una fune tesa uno sopra l’altro, il terzo addirittura in equilibrio su una sedia, ma l’anima del commercio ha regole rigide, se la pubblicità deve partire in quel secondo non c’è scampo. I funamboli sudamericani devono rimanere lì fermi, sperare che la pubblicità duri poco, e allora vai a spiegare ai bambini che è un programma registrato, che hanno messo in pause il file e la riproduzione partirà dal fotogramma successivo dopo gli spot. Spot che, per regole interne, è vietato seguire, quindi ci si concede un giro di canali.

Ed è questione di un attimo. Tra un canale e il successivo fanno capolino un paio di secondi de “La meglio gioventù”, la scena in cui la brava terrorista in erba Sonia Bergamasco estrae dalla tasca con nonchalance un sanpietrino seduta in un cortile dopo essere scampata alle cariche della polizia, il momento che ci fa intendere quali saranno le sue scelte politiche successive. Un esempio di finzione narrativa così scolastico da mettere i brividi, quasi quanto due innamorati che, non ancora rivelatisi, si chinano contemporaneamente per raccogliere qualcosa e, nella risalita, incrociano gli occhi languidi e capiscono di avere i destini incrociati. Oppure un amante che si nasconde nell’armadio della camera da letto perché è appena rientrato inaspettatamente il marito in casa. Ecco, il livello è questo. E nel pessimo minestrone di Giordana – non si confonda l’intento né l’argomento trattato con la qualità del film, direi la stessa cosa su quel altro capolavoro di cinematografia italiana che è “Il partigiano Johnny”- la vetta più alta è la comparsa, mi pare verso la fine, del fantasma di Alessio Boni a conferire il suo placet alla storia d’amore tra la sua ex e il fratello, una scena che meriterebbe la discesa di un’astronave dalla quale fuoriescono tutti i ragazzi uccisi negli scontri degli anni 70, di sinistra e di destra. Ma no, ripensandoci, di destra meglio di no.

le mura di malapaga

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In tema di vacanze, ecco un viaggio spazio-temporale alla portata di tutti, poco più di un’ora da trascorrere virtualmente non solo altrove, ma in un altro quando. Il film “Le mura di Malapaga” è un gioiellino francese di cinema neorealista tra il noir e il sentimentale d’antan, diretto da René Clément, vincitore addirittura dell’Oscar come miglior film straniero, interpretato dalla star dell’epoca Jean Gabin. Ma la vera protagonista del film è la città che fa da scenario alla trama, una Genova da poco uscita dalla guerra, bombardata, ancora tutta da ricostruire. Una nutrita serie di cartoline in bianco e nero, una delle poche e rare testimonianze visive di una città che – almeno parzialmente – non c’è più. Il porto, con le mura da cui è tratto il titolo parte dell’antica cinta che da porta Siberia si estendeva fino a Piazza Cavour. Le vie strette e buie del centro storico, sì, i caruggi, ancora fitti di botteghe, teatro di vita per comparse vere, i genovesi sopravvissuti alla guerra. Facce da neorealismo e lineamenti di gente che ha sofferto e che, in Italia, non si sarebbero mai più riviste. Gli interni delle case traboccanti di sfollati, tra cui una giovane Ave Ninchi, bambini chiassosi e pronti a riappropriarsi degli spazi che la storia aveva negato ai loro genitori. A contrasto, qualche vista sui palazzi borghesi di Castelletto, quelli a metà delle vie in salita con il doppio ingresso, dal portone e dal tetto tramite passerella dalla strada sovrastante. Un bel film, e un bel carico di tensione da spendersi in estate, quando il bianco e nero ridimensiona l’orgia di colori della bella stagione, la calma piatta dell’interno con tv accesa e contorno di ansia da ignoto attutisce il chiasso del divertimento forzato là fuori, la bulimia di contatto virtuale e la psicosi dell’always on diventano risibili capricci, paragonati al bisogno quotidiano e imprevedibile di una società, quella del dopoguerra, ancora in fase di ridefinizione.

castorama, roditori sul grande schermo

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[attenzione: spoiler] Mr. Beaver è un film anomalo. Fino a tre quarti segue una trama perfettamente in linea con i canoni della narrazione del cinema americano, ma ti accorgi subito che c’è qualcosa che non va, perché è tutto maledettamente anticipato. Cioè mentre sei a metà pensi che non può finire come sembra, è troppo un’americanata. E va avanti con Mel Gibson che fa il ventriloquo di se stesso che fa il ventriloquo di un castoro che fa il ventriloquo di Mel Gibson, e tutti non capiscono e sono spaventati e lo riaccolgono in famiglia e parte la musica mentre lui è un marito esemplare e un padre esemplare. Tranne per il figlio maggiore che non sa dove sbatter la testa. Poi il castoro esagera, Mel Gibson gli dà una mano e il castoro si prende tutto il braccio fino a un mini-radio edit di “Exit music for a film” dei Radiohead che infatti è l’exit music del castoro, del braccio, del film e anche un po’ di Mel Gibson. Che però vince la depressione.