in un batter d’occhio

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Forse eravamo solo un po’ tristi perchĆ© c’era una settimana che stava finendo e un’altra alle porte con tutti quegli annessi e connessi che a un certo punto devi indossare di nuovo per esser pronto la mattina dopo perchĆ© ĆØ un attimo a chiudere gli occhi e a cadere nel sonno. Poi tutti questi gradi in meno, nessuno era preparato a una tale regressione. Altro che un’ora in anticipo, sembrava di essere ancora nel mezzo della battaglia, con parka e cappellino, a lottare per un raggio di sole e uno squarcio nel cielo grigio stabilimento. CosƬ non siamo andati tanto per il sottile e abbiamo messo in pratica la soluzione finale, l’extrema ratio, il punto di non ritorno, il colpo che se lo sbagli implode tutta la materia dell’universo che non mi ricordo chi lo diceva, non vorrei confondermi ma era proprio Ken. Il guerriero, non l’amico di Barbie. Comunque prima di spegnere la luce ci siamo fatti reciprocamente il solletico sulla faccia con le cigliaĀ®, che ĆØ una cosa semplicissima ma che metterebbe di buon umore anche uno che ha appena visto l’ultimo di film di Gus Van Sant “L’amore che resta”, che ĆØ una delle cose piĆ¹ struggenti e delicate allo stesso tempo mai viste ma se sei uno di quelli facili a commuoversi (come avevo giusto qualche ora prima letto qui) insomma, ĆØ meglio cambiare canale. E nemmeno a farlo apposta il film era appena finito e ci guardavamo cosƬ, come se era chiaro che ci volesse qualcosa. E a quel punto non c’ĆØ stata scelta. Il solletico sulla faccia con le cigliaĀ® ĆØ un mio brevetto ma che lascio utilizzare in esclusiva ai lettori di questo blog, e consiste proprio nello sbattere le palpebre velocemente in prossimitĆ  del viso di qualcuno a cui volete bene, diciamo molto bene. Il sollievo e il buonumore sono assicurati, ĆØ quasi meglio del bacio della buonanotte, genera una sensazione di rinfresco sulla pelle del viso e mette in pace con il mondo chiunque. Provate anche voi il solletico sulla faccia con le cigliaĀ®. ƈ un’idea a impatto zero per il benessere comune e per una migliore qualitĆ  della vita.

home theatre

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Mi sono addormentato al cinema in vita mia solo una volta, ma ho la giustificazione signora maestra. Avevo due giorni e due notti di lavoro consecutivi alle spalle e, pur avendo trascorso il pomeriggio a letto, alla fine mi ero lasciato convincere. Il film era molto divertente, “Fratello dove sei?”, e malgrado tutta la mia buona volontĆ  sono crollato nei primi dieci minuti per svegliarmi poi sui titoli di coda. Ammetto di aver visto il film anni dopo, e pur adorando i fratelli Coen un po’ ho capito il perchĆ© di un cosƬ scarso coinvolgimento.

E una volta sola ho lasciato la sala a metĆ  proiezione, insomma sappiamo tutti che l’unico modo per ammortizzare la spesa del cinema ĆØ quello di andare fino in fondo anche se la storia non convince e si fa di tutto per resistere. E “La mia Africa” non mi aveva convinto per nulla, anzi per dirla tutta mi aveva fatto due maroni che non vi dico, per di piĆ¹ allo spettacolo del sabato sera con la sala gremita. Ho approfittato dell’intervallo per uscire a bere qualcosa, morivo di sete e probabilmente pagavo lo scotto di una pizza con le acciughe, un classico del divertimento gastronomico. Il bar era a fianco del cinema. LƬ ho incontrato un paio di amici e non sono piĆ¹ rientrato, lasciando la mia fidanzatina dell’epoca sola con l’altra coppia con cui ci accompagnavamo, ma non ricordo se se la siano presa oppure no. Forse si, tenete conto che ĆØ passato tanto tempo.

Poi ci sono alcuni film che non ho proprio visto, sapete come si faceva una volta quando non c’erano molte opportunitĆ  per trascorrere momenti a tu per tu con la propria amata. In questa categoria rientrano titoli del tutto irrilevanti del cinema per adolescenti dei primi anni ’80, roba che “Il tempo delle mele” in confronto ĆØ Inarritu. Ecco, anche il film che ha segnato la mia generazione a tredici e quattordici anni ha la sua storia, perchĆ© ricordo che non riuscimmo ad entrare tanta coda c’era fuori, era un sabato pomeriggio, e proprio a causa della calca sfumĆ² per sempre un’occasione di quelle che poi non capitano piĆ¹, ci siamo capiti. ChissĆ  se fossi entrato, magari la mia vita sarebbe stata tutt’altra cosa. Ho rivisto anni dopo non lei, quella dell’occasione, ma Sophie Marceau completamente nuda in “Al di lĆ  delle nuvole” e finalmente si ĆØ spezzato un incantesimo.

Poi ci sono stati gli anni del cinema da solo perchĆ© il resto mi annoiava. Le tessere del cineclub con centinaia di timbri e ogni quindici ne avevi uno gratis. Costava poco e mi permetteva di entrare in quella che era la dimensione che preferivo: sedili comodi e poco meno di due ore altrove, un posto differente ogni sera. Un periodo in cui ho visto davvero di tutto, e andavo matto per il cinema dell’estremo oriente, film come “Cyclo” che quando c’ĆØ la scena in discoteca con Creep dei Radiohead stavo per piangere, ed ero l’unico spettatore in sala allo spettacolo delle 22.30 e quindi non se ne sarebbe accorto nessuno.

Ma l’esperienza piĆ¹ intensa l’avevo avuta molti anni prima con “The wall”, visto in condizioni diciamo non proprio lucidissime, seduto a terra davanti alla prima fila della platea a causa del tutto esaurito. La scena di inizio, quando i ragazzi sfondano le porte dopo il ronzio della lucidatrice, il tutto a pochi metri dal grande schermo. Un’esplosione che mi ha cambiato i connotati, sono sicuro che non dimenticherĆ² mai quella specie di colpo di frusta che ho preso.

Ora il cinema ĆØ vera evasione, nel senso che mia moglie ed io cerchiamo di scappare e lasciare nostra figlia a parenti o amici, quindi ci fiondiamo a vedere i film ma solo quelli davvero imperdibili, che negli ultimi otto anni, da quando siamo appunto genitori, si contano sulla punta delle dita. Non che siano pochi i film, ĆØ che sono poche le possibilitĆ . Altro che evasione. Il resto, tutto il resto, lo vediamo qui, ma nemmeno alla tv. Proprio sul portatile, al buio e con le cuffie per non disturbare nessuno, al caldo delle coperte del letto. Che non ĆØ proprio la vera magia del grande schermo ma ha un suo perchĆ©, credetemi.

[attenzione spoiler] alla fine il cantante muore

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C’ĆØ quella scena in cui Jim Morrison, interpretato da Val Kilmer, attraversa un muro di fans che gli lanciano tutte le droghe possibili e lui se le cala o le accende tutte, innaffiando quella merenda itinerante con bourbon o superalcolico equipollente, e sƬ che era giovane e forte ma riesce male immaginare un essere umano cosƬ alterato in grado di sopravvivere il mattino dopo. Ma forse ĆØ lƬ che Oliver Stone ha cercato di condensare la vera essenza di una rockstar entrata nel mito, uno che apre tutte le porte della percezione contemporaneamente senza preoccuparsi della corrente e degli acciacchi che ne possono derivare.

E c’ĆØ anche quella scena che racconta il processo creativo del loro successo con la esse maiuscola, come on baby light my fire. Ci sono i Doors al completo in sala prove che provano il pezzo, poi Ray dietro le tastiere sembra un po’ perplesso e fa uscire tutti. Ragazzi andate fuori a impasticcarvi per bene, lasciatemi solo che devo trovare una introduzione di Hammond all’altezza. Due scale, due accordi e miracolosamente il riff ĆØ pronto. Okay ragazzi, tornate pure dentro, one two three four e qualche metro di pellicola dopo il pezzo ĆØ quello che conosciamo noi. Allora ditelo subito che ĆØ lo spettatore che dev’essere piĆ¹ aperto e pronto a recitare egli stesso una finzione, quella di colmare con la propria fantasia tutte le ingenuitĆ  narrative, scorporare l’opera a cui sta assistendo da tutti gli accessori interpretativi lasciati lƬ come trappole nella sceneggiatura, oppure se sei davvero un fan dei Doors ti fai una canna prima e ti vedi il film e a quel punto allora vale tutto, si giunge al nocciolo della biografia che consiste in una vicenda che si sa giĆ  come va a finire e alla celebrazione di chi ha fatto la (tua) storia. Forse allora non ha nemmeno senso farci un film sopra, se non per ascoltare un po’ di buona musica sempre che i Doors ti piacciano, o come me li trovi gradevoli ma piuttosto sopravvalutati e offuscati dalla celebritĆ  del loro front man.

Ecco, se c’ĆØ un genere di film a cui sono allergico ĆØ il biografico di gruppi musicali. Ed ĆØ naturale che i soggetti selezionati per la trasposizione sono quelli di maggiore valore artistico, possibilmente maledetti e che hanno fatto una fine piĆ¹ o meno tragica entrando nel mito. E per dimostrarvi che non faccio figli e figliastri, posso dire la stessa cosa di Control, il film sui Joy Division e sulla controversa personalitĆ  di Ian Curtis. Finale analogamente tragico al compimento di una trama ricca di clichĆ© su chi sceglie di calcare il palcoscenico e farne il proprio lavoro. Qui le droghe sono piĆ¹ difficili da racimolare, nessuno te le tira addosso o sul palco ma occorre andare a trovare le vecchine con qualche scusa e frugare tra i loro medicinali. D’altronde se vuoi caratterizzare un isterico inventato, faccio un esempio, ci sono ennemila modi per guidare la recitazione dell’attore che hai scelto. Il cantante depresso e fattone invece ĆØ cosƬ ĆØ basta, devi rimanere fedele alla realtĆ  perchĆ© hai gli occhi della stampa specializzata puntati contro. Pure il tema della groupie che se lo vuole fare ĆØ analogo, come la nascita stessa della hit: artista in posa da riflessione con bloc notes e lapis in mano, ed ĆØ un attimo ad essere giĆ  in studio di registrazione a sperimentare lo spray per il charleston di “She’s lost control”. Per finire con i titoli di coda con la canzone che ti aspetti essere utilizzata per i titoli di coda, che nel caso di Control ĆØ “Atmosphere”. Ecco, io avrei scelto “The eternal”, non lo trovate piĆ¹ adatto?

post blu

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Si riempivano la bocca con Kieślowski, un nome anzi un cognome altisonante che conferiva autoritĆ  solo a pronunciarlo. Il cinema di Kieślowski, il linguaggio di Kieślowski, il Decalogo di Kieślowski. In quel gruppetto di cinefili un po’ off Kieślowski costituiva un modello estetico, oltre che contenutistico, laddove lo specifico cinematografico superava l’eventuale implicazione politica conseguente. La Polonia, il dissenso, il papa, insomma esprimere un giudizio e prendere una posizione non era cosƬ semplice. Fino a quando si unƬ al gruppetto un tizio nuovo, era il figlio di un intellettuale di successo, uno di quelli che lavoravano per la tv quando lavorare per la tv era un mestiere da persone colte, quindi l’essere colto geneticamente lo posizionava come un possibile opinion leader interno, o comunque un referente autorevole. E alla prima retrospettiva su Kieślowski il nuovo entrato fu il primo a formulare una critica, netta e laconica. Kieślowski non mi piace, ĆØ borghese. I membri storici del gruppetto si guardarono dapprima interdetti, come adepti al caldo di una deflagrazione da bestemmia. Davvero ĆØ borghese? Iniziarono a chiedersi l’un l’altro, grattandosi il mento punteggiato dalla barba di qualche giorno, i capelli informi e in taluni casi giĆ  parzialmente mancanti. Kieślowski ĆØ borghese? Era la domanda che rimandava da uno sguardo all’altro, con sempre piĆ¹ convinzione, forgiando a martellate il punto interrogativo incandescente con la volontĆ  ferrea quanto la materia prima di quell’incognita concettuale di raddrizzarlo fino alla forma verticale di un punto esclamativo. Kieślowski ĆØ borghese! finalmente disse uno. Confermarono pian piano gli altri. Si convinsero tutti. Finirono cosƬ le retrospettive su Kieślowski, nessuno lo nominĆ² piĆ¹, ci si orientĆ² su registi piĆ¹ adeguati alla svolta politica, ma nessun cognome sarebbe mai riuscito a dare maggiori soddisfazioni e a generare espressioni di meraviglia e ammirazione negli altri come Kieślowski.

difficoltĆ  di concentramento

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Si avvicina il Giorno della Memoria, che come ogni anno cercherĆ² di celebrare rileggendo “Se questo ĆØ un uomo” e “La tregua” (almeno spero). La commemorazione ĆØ rispettata ovviamente anche dalle scuole, la terza di mia figlia seguirĆ  la proiezione de “La vita ĆØ bella”, un film di cui conosce giĆ  il contenuto, sua cugina piĆ¹ grande le ha fatto vedere qualche scena in rete e le ha anticipato l’elemento narrativo dell’equivoco intorno al quale si sviluppa la trama. Oltre al film di Benigni, mia figlia arriva al suo primo appuntamento “serio” con le ricorrenze e il relativo approccio della scuola con un’altra opera cinematografica, di cui la prima volta ĆØ stata spettatrice assolutamente casuale. Il film in questione ĆØ “Il grande dittatore”, a cui si appassionata immediatamente tanto da, in pochi giorni, ripeterne la visione piĆ¹ volte. Sapete come sono i bambini e quanto amino la reiterazione degli stimoli che li solleticano di piĆ¹.

Il problema ĆØ che la microvacanza che abbiamo giĆ  pianifcato in primavera a Berlino ora ha un ostacolo. Ho paura che ci siano ancora i figli degli amici di Hitler, mi dice dall’alto della sua ingenuitĆ . Cara, le faccio notare, purtroppo i figli e i nipoti e i pronipoti degli amici di Hitler, ce ne sono stati e ce ne sono tuttora tanti anche qui in Italia, troppi da giustificare se si ripercorre tutto quello che ĆØ successo. Ma come non corriamo alcun pericolo, qui, questo ĆØ un vantaggio della democrazia, a maggior ragione i Tedeschi oggi non sono piĆ¹ come quelli descritti sul grande schermo da Charlie Chaplin. Nessuno giocherebbe con il mondo in quel modo facendolo scoppiare. Ecco, forse questo non avrei dovuto dirlo, giĆ  mentre chiudevo la frase mi sono reso conto di quanto fossi poco convincente, lei non ha detto nulla ma ha percepito che si trattava di un’accelerazione per chiudere il discorso, convincerla sull’infondatezza dei suoi timori e mettere in salvo i biglietti del volo giĆ  acquistati. E allora le ho promesso che, una volta in Germania, cercheremo insieme un barbiere che si prenda cura dei clienti cosƬ.

effe come film, a come anni ottanta

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i miracoli secondo Kaurismaki

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Se, come me, avete visto Welcome, il film di Philippe Lioret che fa da scenario al tentativo fallimentare di un giovane clandestino di raggiungere il Regno Unito a nuoto da Calais, e vi ĆØ rimasto quindi un conto aperto con il cinema in generale per non aver provveduto a un lieto finale almeno lƬ dove la finzione dovrebbe fare da antidoto alle nostre coscienze al caldo, ecco finalmente la rivincita. Miracolo a Le Havre ĆØ un film sorprendente soprattutto per la naturalezza con cui Kaurismaki innesta il proprio mondo, quello che si porta appresso in tutta la sua filmografia, in un tema urgente e attuale come l’immigrazione, la sfida delle umanitĆ  piĆ¹ povere di superare l’inaccessibilitĆ  delle barriere dell’occidente europeo e di arrivare alle nostre, di povertĆ . PerchĆ© ci sono le facce da film di Kaurismaki, innanzitutto, che non si trovano in nessun altro lungometraggio e ci si chiede in quale realtĆ  parallela riesca a trovare un tipo di sottoproletariato cosƬ fedele alla realtĆ  e perfette per il messaggio da trasmettere. C’ĆØ quindi una dimensione in cui il tempo si ĆØ fermato ad almeno trent’anni fa fatta di telefoni a disco, automobili e autobus e i rivestimenti stessi dei sedili di altri tempi, bar, dialoghi e musiche da jukebox e c’ĆØ una storia di solidarietĆ  tra gente al di sotto del comune, quella sƬ senza tempo. Sono pochissimi gli elementi in grado di riportare lo spettatore alla realtĆ , forse il blu delle tute degli agenti che perquisiscono le case alla ricerca del giovane Idrissa, il colore dell’esercizio del potere che non ammette eccezioni. Ma alla fine anche loro, gli agenti, devono arrendersi alla visione di Kaurismaki. Nemmeno un personaggio da odiare, neanche il delatore perchĆ© scopri poi trattarsi di un attore in arrivo direttamente dai film di Tuffaut. Nemmeno l’investigatore che sembra cattivo ma che poi condivide con il protagonista, Marcel Marx di professione lustrascarpe, la complicitĆ  di quei bassifondi francesi di una volta nei quali manca solo un cameo di Jean Gabin, in un angolo al bancone con la sigaretta accesa a sorseggiare un pastis.

gente piccola piccola

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Non saprei dirvi se si tratti del migliore film a cartoni animati dell’anno perchĆ© non ho abbastanza termini di paragone, di certo Arrietty, l’ultima lavorazione dello Studio Ghibli (quelli che possono permettersi un logo come Totoro) distribuita in Italia ĆØ una delle produzioni cinematografiche di animazione piĆ¹ sorprendenti alle quali il sottoscritto e la sua discendente abbiano mai assistito. La favola degli gnomi come vicini di casa, anzi di stanza, uno dei temi piĆ¹ sfruttati dalla letteratura per l’infanzia che pur nella loro dimensione ridotta hanno sentimenti ed emozioni extralarge. E nell’anno del ritorno dei Puffi, ecco questo sƬ lo conosco anche io, da oriente arriva un punto di vista alternativo sulle creature antropomorfe piĆ¹ piccole che si possano immaginare. La famiglia a cui appartiene Arrietty ĆØ umana al 100% e vive esattamente come una qualunque famiglia costretta ad arrangiarsi perchĆ© di natura gnomica. Costretta a una sorta di esproprio delle cose piĆ¹ piccole, spesso cose di minima importanza dei giganti che abitano la villa che sovrasta il loro mini-appartamento, il padre trascorre le sue ore lavorative in continua spedizione, turni rigorosamente di notte, a spasso tra cose piĆ¹ grandi di lui alla ricerca dei generi necessari, e per fortuna i suoi congiunti si accontentano di poco. In questo scarto di proporzioni, Arriety non riesce a sottrarsi ai sentimenti di amicizia verso il ragazzo malato e costretto a una clausura forzata pre-operatoria proprio in quella villa di campagna. Ma nelle leggi della natura non ĆØ concepito un rapporto alla pari tra specie diverse, essere grandi e grossi impone l’istinto della dominazione. Un film perfetto per chi ama contornarsi di miniature, sbirciare nelle case delle bambole, costruire plastici in scala ridotta. Tratta da un mondo dove un gatto ĆØ piĆ¹ che un dinosauro, un corvo ĆØ un temibile predatore e una cavalletta equivale a un nostro equino adulto, Arrietty ĆØ un storia in grado di lasciare a bocca aperta adulti e bambini, un viaggio in una dimensione sotto i dieci centimetri per tornare ad essere piccini piccini e meravigliarsi di tutto quello che, visto da laggiĆ¹, puĆ² essere di nuovo una grande scoperta.

l’uomo del pan di stelle

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sovradimensionato

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Il primo di novembre, inteso anche come il primo pensiero di novembre che si traduce in post, va aĀ  Tin Tin in 3D, un film da pomeriggio di festa per il quale di certo Spielberg non ha lesinato con gli effetti speciali, giĆ  pronto per il sequel. Il secondo va ai 46 euro per quattro biglietti, due adulti e due ridotti, 11 e 12 euro a cranio, novantamila lire circa per entrare al cinema che se me lo avessero detto quando ne spendevo quattromila per vedere i film d’essai al Filmstudio non ci avrei creduto. E il terzo pensiero non va a chi ha sostituito la lira con l’euro, ma con chi ha sbagliato i calcoli nel cambio.