la suburbia ha dell’incredibile e nel fine settimana dà il meglio di sé

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La suburbia ha dell’incredibile e nel fine settimana dà il meglio di sé. A me capita di soffermarmi ad ascoltare gli abitanti di queste aree decentrate quando si riversano, nel tempo libero, nei luoghi più frequentati, perché a volte parlano dialetti meridionali così chiusi che non è immediato capire se sono italiani o no. Non solo adulti e anziani, ma anche ragazzi, ventenni e trentenni. Provo a indovinare da quale paese del nordafrica o da quale ex repubblica sovietica provengano, fino a quando un ascolto più attento – ai limiti dello stalking – me ne rivela l’origine. Che poi per me è un generico sud, non sono così colto da distinguere Campania, Calabria, Puglia o Sicilia.

Ma la sorpresa è indifferente alla parlata, nel senso che mi meraviglio di questo culto del dialetto anche tra persone che magari hanno anche un’istruzione di base e che magari vivono nei pressi di Milano da qualche anno, dove frequenteranno scuole o lavoreranno con colleghi nati qui, e mi chiedo come faranno a capirsi. Quelli che mi hanno indotto a questa riflessione stanno sostando insieme a me di fronte a una vetrina di una bigiotteria di un centro commerciale. Ho appuntamento con mia moglie, così ho il tempo di decriptare la loro crittografia orale e venire a capo di quel codice linguistico apparentemente primitivo. Cerco quindi di seguire i loro commenti circa una serie di articoli in vendita proprio nel negozio di fronte al quale ci troviamo sui quali non avevo mai fatto caso prima, a prova del fatto che certe cose si notano solo il sabato pomeriggio.

A catturare il plauso di quella coppia di giovani dall’idioma incomprensibile, un uomo e una donna sui venticinque, è una specie di kit da tamarro dei nostri tempi. Un collier con la scritta love come ciondolo, una coppia di orecchini con un vistoso pitone dorato, anelli con l’effigie del dollaro che imbarazzerebbero persino uno come Flavor Flav. E in effetti sembrerebbero tutti monili da rapper old school di serie B se non fossimo in Italia. Ma poi osservando meglio il pattern grafico sui leggings di lei a forma di teschio capisco di trovarmi proprio qui, nella culla dell’orrore estetico.

Provo anche a paragonare tutto ciò con il senso dell’orrido che vigeva ai miei tempi. C’era un negozietto al mio paesello che si chiamava “La pulce nell’orecchio” e che era una sorta di “Inferno e suicidio” dei poveracci della provincia, ma che tutto sommato aveva una sua dignità e pur vendendo cose piuttosto kitsch non raggiungeva lontanamente le vette agghiaccianti di ora. Ma il peggio deve ancora venire. Dentro vedo un ragazzone supermuscoloso con una canottiera di una squadra di boxe – non so se reale o immaginaria – insieme a una bellezza da Maria De Filippi con pantaloni così aderenti che spiegano la presenza di quell’energumeno a suo fianco. Più ostentano l’inclinazione all’accoppiamento e più necessitano di qualcuno sufficientemente prestante da allontanare gli attacchi degli esemplari in calore. In natura funziona così. In cambio della protezione c’è più possibilità di usufruire dell’esclusiva dell’offrirsi.

Per fortuna la coppia che è lì fuori con me si ricongiunge finalmente con la famigliola di cui era in attesa, qualche parente immigrato con cui hanno pensato di stemperare il ricongiungimento in quel tempio della sintesi socio-culturale. Ma non posso non provare tenerezza per la figlia, già con evidenti problemi di alimentazione in eccesso così piccola, avrà dieci anni come la mia. Magari i genitori cercano di stare attenti ma, dovendo trascorrere tutto il giorno al lavoro e lontano da lei, non possono tenere sotto controllo i nonni che non si fanno tanti problemi nel chiudere un occhio su un boccone in più. Mi immagino il nonno che di nascosto divide il lardo in mezzo al panino con la nipotina, ma solo per una reminiscenza personale.

La suburbia milanese ha un altro primato: è l’unica zona in Italia con un microclima tale per cui a marzo gli adolescenti maschi indossano già le bermuda. Mi viene in mente l’episodio dello stolido che ha contestato il sindaco Pisapia qualche giorno fa che si è presentato in pantaloncini corti di fronte a un’autorità. Ma in quel caso, oltre al qualunquismo del suo intervento, era già abbastanza sconvolgente il rivolgersi a un adulto dandogli del tu. Mi sono immaginato così i genitori di quel Salvini o Di Battista in miniatura, quelli che quando il figlio va male a scuola se la prendono con gli insegnanti con il loro italiano stentato da visioni televisive di massa.

Finalmente arriva mia moglie e, prima di allontanarmi, vedo l’insegna di un protagonista dei non luoghi commerciali della periferia che è uno dei tanti franchising di “Piazza Italia”, più volte alla ribalta per campagne pubblicitarie basate su alcuni aspetti dello squallore della nostra miseria culturale. Mi chiedo, e lo chiedo a voi, se non avrebbe avuto più successo chiamandosi direttamente “Pazza Italia”, quasi quasi provo a proporglielo.

il posto in cui sei nato si riconosce dall’odore. Senti qui.

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Il posto in cui nasci dilata inevitabilmente la prossimità con certe situazioni, magari non sempre rischiose ma diciamo quelle in cui si fa più fatica. Ma hanno ragione anche quelli che sostengono che i luoghi e gli ambienti della geografia umana sono tutti mentali. Città, periferia, campagna, mare, monti, lago, bassifondi, Parco della Vittoria, sono solo come il posto in cui ci sentiamo appartenere, quello dove sosteniamo avere ancora le radici, ciò da cui fuggiamo per poi ricrearlo ovunque e giustificarci dicendo che è naturale. Naturale coltivare i pomodori sotto i piloni dei viadotti della tangenziale perché lo si faceva anche al paesello, naturale imporsi come taglieggiatore in una nuova scuola dopo che si è stati espulsi da quella precedente con lo stesso motivo, naturale stendere i panni sulla via del centro che non ha mica lo stesso passaggio dell’aia all’ingresso della cascina.

Le coordinate terrestri sono assegnate random prima di essere abbandonati con tanto di anima nuova di zecca da qualche parte sul globo terracqueo, ed è lì che cominciano i veri guai. Io che non mi posso certo lamentare, osservo con rammarico il percorso di cui mia figlia è stata provvista, una di quelle dotazioni entry-level completamente priva di optional, a cui a fatica mamma e papà stanno provvedendo. Siamo sempre dietro a investire in cose che il posto in cui è nata non offre. Una scuola in grado di stimolarla, attività per crescere mente e corpo sani, passioni e interessi sempre da stanare negli anfratti della società che nella maggior parte dei casi sono organizzate maluccio, che se fosse per lei, la società intendo, ti vorrebbe sempre nel tempo libero nel cortile dell’oratorio o al parchetto, preda di coetanei con gli ormoni a palla che sputano intorno per marcare il territorio che, a dirla tutta, possono pure tenerselo.

Certo, poteva andare peggio. La provincia depressa da cui vengo io, per esempio, quella in cui sono nato, dove i bambini facevano la cresima con i jeans e si raccontavano del figlio della entreneuse da outdoor – avete capito cosa intendo – che aveva sorpreso il suo prof di matematica tra i clienti della madre. Poi, da quando hanno aperto negli anni novanta il primo centro commerciale, in ritardo rispetto alle altre regioni del nord che hanno più spazi pianeggianti, in molti li vedi lì a riempire scaffali di prodotti in scatola o a servire caffè ai rappresentati di prodotti per la grande distribuzione.

Ora, come sapete, invece vivo nei pressi di Milano, quello che tutti chiamano hinterland, e lavoro in centro. Quando percorro quei tre o quattro isolati della metropoli che separano la fermata del treno dal mio ufficio e osservo i genitori che accompagnano i loro figli nelle scuole di quartiere, che è un quartiere di Milano centro, penso che vedere cose diverse da quelle che vedo io, nel posto dove vivo, è già una bella fortuna. Io vedo un muretto tutto scarabocchiato da sedicenti writers che  sarei curioso di conoscere i loro punteggi nelle materie letterarie e di fronte un campo che prima o poi sarà costruito. C’è una gru smontata ormai da un anno ma poi qualcosa si dev’essere inceppato. Il costruttore in potenza sarà fallito o chissà cosa. Ma non è tanto quello. Il campo è transennato tutto intorno da tubi innocenti arrugginiti, sui quali è posato uno di quei reticolati arancioni a maglie larghe in plastica, probabilmente ha un nome tecnico ma non lo conosco. Il campo verde e marrone, un classico dell’incuria padana, con intorno il reticolato messo però in modo approssimativo, un po’ fuori e un po’ dentro i pali, complici anche le intemperie dell’inverno ma nessuno che sia venuto a toglierlo o a sistemarlo. Il reticolato di plastica arancione è lì che svolazza, ogni mattino.

Mia figlia è nata qui, nel paese della gru abbandonata e del reticolato di plastica arancione dimenticato. Frequenterà una scuola mediocre, avrà amicizie dozzinali e niente. Sembra che non ci siano grandi margini di miglioramento.

viva verdi, abbasso strauss, ovvero la classica del campanilismo

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Se funzionassimo come gli animali che vanno in letargo, di sicuro per il prossimo mese potremmo tranquillamente smettere di mangiare e lasciare che tutte le provviste che abbiamo ingurgitato in questi giorni di baldoria si consumino da sé. Macché natività o re magi o anno nuovo. La vera festa è quella che abbiamo fatto al nostro stomaco buttando giù qualunque cosa ci sia capitata a tiro con la scusa che dal sette gennaio cambia tutto, si torna in ufficio, ci si rimette a dieta. Che magari poi uno ci sta attento, ma a furia di spiluccare antipasti che altrimenti non prepareremmo mai, il dolce a fine pasto che in periodi ordinari dell’anno riserviamo solo come eccezione, l’accompagnare ogni cosa con un vino appropriato – dall’aperitivo al pandoro con la cremina al mascarpone – anche il 2014 inizia con qualcosa in più di noi ma nei punti del nostro corpo in cui vorremmo farne a meno.

Considerando che l’Epifania è la solennità che tra tutte è quella a cui è meglio rinunciarvi in partenza, il fanalino di coda per di più troppo a ridosso della ripresa di tutto, il mio consiglio è quello di abituarsi prima all’ennesima fine di qualcosa di piacevole – quasi tutta la nostra vita è così, facciamocene una ragione – con una colonna sonora degna di uno scempio. Avete capito dove voglio arrivare, vero?

Prima del nostro risorgimento personale, quello che ci condurrà alla rinascita della nostra forma fisica più o meno verso Pasqua, diamoci dentro a combattere gli invasori calorici a partire da oggi, due gennaio. Ieri è passato sui nostri corpi fiaccati da zamponi e lenticchie uno dei nostri più acerrimi nemici in persona, Josef Radetzky. Mentre scartavamo uno dei tanti panettoni aziendali scoprendone nostro malgrado la sua natura contraffatta, ovvero palline di cioccolato al posto di uvetta e canditi, ripieno di una roba al cacao che in confronto la nutella è l’acqua della mozzarella, strato di glassa cioccolatosa solidificata a ricoprire e compattare il tutto, il feldmaresciallo nemico dell’unità italiana marciava tronfio sul nostro colesterolo a colpi di rullante e piatti, con tanto di pubblico austriaco plaudente e telespettatori commossi fuori luogo.

Già, perché anche se Strauss ci fa due maroni con la sua ampollosità e la sua retorica, ogni anno siamo lì in prima fila e con il cuore tra gli archi della filarmonica di Vienna. Anche se in differita. Perché non ditemi che siete di quelli che vedete il concerto dalla Fenice, vero? Quell’inutile rassegna di brani classici messi insieme solo per dimostrare ai mitteleuropei che non siamo meno di loro, che la culla della musica è a sud delle Alpi eccetera eccetera? Un’iniziativa tipica del nostro spirito di rivalsa di cui ci armiamo a sproposito e per le cose che, nel mondo, contano di meno, solo per negare a quelli come me che sono cresciuti con le schermaglie tra direttore d’orchestra e pubblico il piacere dei bei danubi blu ad accompagnare in diretta il pasto del primo dell’anno.

Be’, non so voi, ma a me non importa. Attendo la trasmissione registrata del Concerto di Capodanno da Vienna che va in onda con un’ora di differenza, facendo finta che al di là del Brennero ci sia un fuso orario diverso, e lascio che Radetzky e i suoi soldati calpestino la mia indipendenza dai trigliceridi e soggioghino me e la mia cultura – che è la stessa che lascia allo sfacelo posti unici al mondo come Pompei o consente i parcheggiatori abusivi fuori dalla Valle dei Templi di Agrigento – e almeno mettano definitivamente fine alle festività natalizie, visto che l’annessione alla monarchia asburgica purtroppo è fuori tempo massimo. Prosit.

l’aria di francia ai tempi della telefonia spagnola, e viceversa

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Non potete pretendere la nostra tolleranza verso gli stranieri considerando che veniamo da una provincia che ha visto il primo ristorante cinese aprire a metà anni 80 e solo nello stesso periodo i primi venditori ambulanti africani sulle spiagge. Noi usi solo al suono dei cognomi tipici della zona, gli stessi a cui sono intitolate le strade e quelli che pronunciavamo per chiamare il dottore, il direttore della filiale della banca, il marmista del cimitero, il benzinaio. Nella frazione da cui proviene mio padre si chiamano tutti come me, per dire, tanto che la prima cosa che ho fatto sull’Internet è stata quella di cercare i miei omonimi in tutto il mondo. Per il resto, famiglie inglesi non si erano mai viste, per esempio, non essendoci fabbriche di automobili come quelle della pianura dove venivano ingaggiati manager americani che arrivavano con mogli e figli che poi andavano a fare gli spacconi con i ragazzini della superata borghesia locale. Da noi al massimo c’era qualche bambino, non più di due o tre in una scuola pubblica di un quartiere popolare, con il cognome francese che attirava la curiosità di tutti. Erano persino invidiati i loro compagni di classe che potevano beneficiare di feste in case di persone di altre nazionalità, storie che si leggevano nel sussidiario o in qualche telefilm per ragazzi. C’era un gioielliere rampollo di una antica famiglia ebraica ma dalle origini provenzali che vantava l’insegna della bottega nella piazza principale a tre vetrine. Il figlio, sempre con il golfino a vu e alla camicia, sfoggiava un taglio troppo moderno per le frangette e i sorrisi sdentati delle foto ricordo a fine anno scolastico. Ve li elencherei tutti qui i franco-italiani o italo-francesi che mi hanno messo in soggezione nella mia vita se non fosse per un problema di privacy. Il fisico perfetto e il look da manichino della Rinascente che da noi non c’era nemmeno, al massimo arrivava la Standa e il Carrefour non era stato ancora inventato. Sarà per questo che quando incontro persone dal cognome francese, ancora adesso, riesco a cogliere sempre tutti i segni dell’aristocrazia pre-giacobina che in qualche modo è riuscita a sfuggire alle ire terzostatiste della rivoluzione. Quadri del Decathlon mandati a colonizzare la nostra grande distribuzione disorganizzata. Intere dinastie dalle bionde chiome alsaziane con quella pelle che i raggi terroni del mediterraneo non osano scalfire nemmeno nella canicola ferragostana che spazzano via i ferramenta dai centri abitati a colpi di Castorama e Leroy Merlin. Persone apparentemente normali che mi aspetto rivendichino prima o poi il loro castello sulla Loira o qualche appartamento di lusso nell’Île de la Cité da utilizzare come base logistica per un futuro radioso dei propri figli lungo carriere universitarie alla Sorbona. In Vespa per le strade i Parigi. Noi, che al massimo possiamo aspirare alla facoltà di legge a Pavia da raggiungere con i treni delle ferrovie Nord.

gli invasori parte terza

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Chiudiamo questo rotocalco oltreconfine per parlare di quello che i tedeschi possiedono, ciò di cui si contornano, la bellezza e la praticità che amano che se non trovano nei pressi un tempo andavano a prendersela fuori ma oggi, con il loro potere d’acquisto, possono comprarsela e farne sfoggio ma a loro insaputa, nel senso che per i tedeschi è normale avere il massimo mentre per noi che ci possiamo permettere solo i Decathlon e i vari omologhi nelle diverse discipline o ambiti a partire da quello alimentare siamo usi alla qualità entry level quando va bene, altrimenti di livello discount. Gli accessori dei tedeschi sono unici e mi piacerebbe davvero sapere dove vanno a prenderli e quanto costano, si vede che fanno investimento nelle cose belle che migliorano la qualità della vita, gli spazi che i tedeschi occupano Polonia compresa. Scherzo. A partire dalla biciclette. Avete mai visto i tedeschi in vacanza quando si muovono con i loro camper e roulotte o con i Caravelle quando arrivano a destinazione che razza di mountain bike tirano fuori? Marche e modelli mai visti in Italia, dove vanno per la maggiore le sottomarche di city bike a novanta euro al Carrefour o alla Coop, articoli nemmeno ambiti dai ladri delle suddette alle quali preferiscono di gran lunga le carrette di una volta che danno più garanzia di continuità. Parlo per cognizione di causa perché ne possiedo una giusto per andare in stazione, l’ho presa apposta per far sì che non sia appetibile per nessuno, come quel mio amico che si fidanzava con tipe interessanti ma di certo non belle proprio per paura che diventassero oggetti del desiderio altrui. Ho provato invece a segnarmi qualche marca che ho notato in dotazione ai vicini di piazzola al campeggio, devo comprare la bici nuova a mia figlia con le ruote più grandi, ma so già che la ricerca su Amazon smorzerà ogni velleità di acquisto. Ma l’attrezzatura stessa da mare possiamo considerarla invidiabile, tutta in alluminio di ultima generazione che a seconda di come la giri fa da carrello, da sdraio, da tavolino, da piattaforma per trasporto infanti con fasciatoio incorporato eccetera. Per non parlare degli ombrelloni che non sono ombrelloni, sono tende che noi potremmo in scioltezza abitarci pure o per lo meno utilizzare come seconda casa, di certo meno fatiscenti di certe abitazioni lasciate appositamente incomplete per ovvie ragioni di convenienza che si vedono lungo le coste del sud. Si vede che i tedeschi investono su ciò che amano e si circondano di bellezza anche nei momenti di tempo libero. Io ho notato per esempio che vanno in vacanza tutti insieme, anche con i figli già grandi, adolescenti che continuano a fare le ferie con i genitori perché tanto sanno benissimo che l’indipendenza non c’entra nulla con il dimostrare la rottura generazionale con i matusa, come facciamo qui da noi facendoci la cresta, riempiendoci di anelli il corpo o impiastrandolo con disegni indelebili scopiazzati da culture distanti anni luce dalla nostra. Padri e figlie diciassettenni che girano tenendosi per mano, fratelli alle soglie della maturità che giocano a beach volley con i genitori, non so voi ma io dalle nostre parti li vedo raramente. L’unità della famiglia è un accessorio sul quale i tedeschi investono, è una cosa bella da portarsi appresso ovunque.

gli invasori parte seconda

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Comunque alzi la mano a chi di voi non sarebbe piaciuto nascere altrove, giusto per tornare velocemente su quanto si discuteva ieri. Per carità, non sputo nella provincia che mi ha partorito e mantenuto perché poteva andare peggio, tipo nascere nel Darfur o ad Haiti o, se aggiungiamo la variabile temporale, nascere ebreo a Berlino nel 1938 o giù di lì. Però quante volte leggiamo cose su gente come Briatore poi ci guardiamo intorno e scorgiamo il padre di famiglia francese che passa ore a costruire un vermone preistorico con la sabbia, una specie di drago che si inabissa nel bagnasciuga, mentre il figliolo a bocca aperta senza panfilo e, soprattutto, senza chiamarsi Nathan Falco ne ammira estasiato le gesta non vedendo l’ora di emularlo.

In quel caso a quale popolo vorreste appartenere, dite la verità? Lo sapete che io ho la fissa dei tedeschi, ma anche se l’Italia fosse una colonia francese non mi dispiacerebbe, anche lì non dimentichiamo che poteva anche andare che Napoleone facesse di San Pietro un granaio e oggi non saremmo qui a non dover ogni volta rimproverare il vicino perché sbaglia a differenziare i rifiuti, o al massimo potremmo farlo apostrofandolo ma con l’erre moscia. Di certo non dovremmo fare i conti ancora con l’immigrazione di prima generazione anzi nemmeno, di mezza generazione e a far di tutto per non riconoscere i problemi, figuriamoci per risolverli. Avremmo, chissà, afroitaliani presidenti del consiglio e non quelle mezze calzette di parlamentari con le loro battute che nemmeno ai tempi del nostro colonialismo da operetta.

Per esempio non mi dispiacerebbe essere inglese, con la mia bella lingua che mi capiscono tutti in tutto il mondo e non con questo idioma che con la scusa di Dante e Manzoni siamo qui tutti preoccupati di dimenticarcelo tra abbreviazioni, tecnicismi e tanto analfabetismo di ritorno. Mi piacerebbe pensare in inglese e poter sfoggiare tutte quelle parole che da sempre ascoltiamo alla radio anche se proprio quelle della radio, che oggi è diventata MTV, spesso non hanno un senso. Noi ci aspettiamo chissà che cosa e invece quelli hanno messo insieme due frasi a caso ma comunque a elevata musicalità e che stanno bene. Mi chiedevo per esempio se ho una strofa da musicare in inglese e devo troncarla per forza in due battute diverse, mi chiedevo se gli inglesi che conoscono ovviamente l’inglese troncano la frase in un determinato punto perché altrimenti non sarebbe più di senso compiuto, oppure se lo fanno apposta affinché a chi ascolta cresca la curiosità di sapere cosa dice dopo il testo perché fino a quel punto ha un significato oscuro o equivoco, o magari pensano che si voglia dire tutt’altro. Questo è pensare inglese, e per quanto un italiano lo studi non penso riuscirà a raggiungere simili livelli di immedesimazione.

Ma, speculazioni a parte, io ho questo pessimo difetto che quando vedo uno non italiano mi sento subito di dovergli chiedere scusa. Mi spiace che voi dobbiate preoccuparvi così tanto di noi, non so perché non veniamo mai a capo delle nostre enormi contraddizioni malgrado tutte lo occasioni che ci avete concesso. Vedo i figli dei turisti nordeuropei e non ce n’è uno non in forma, avete presente i ragazzini che incontrate ogni giorno con i rotoli di uanza che spuntano dai jeans sformati ma di marca o dagli elastici dei leggins. Son tutti sportivi e hanno la faccia serena come se non fossero alla perenne ricerca di un modello da imitare, un nuovo smartphone da farsi regalare o un nuovo reality da seguire. Si fanno bastare quello che hanno, e lo so che spesso hanno di più, di migliore qualità e meglio funzionante.

Stamattina ho cercato di configurare un tablet bellissimo a un signore tedesco che aveva appena acquistato un accesso al wireless ma non riusciva a connettersi a Internet. Mentre smanettavo sul suo Windows 8 già un po’ mi vergognavo per non conoscere la sua lingua e perché in Italia connettersi costa e anche salato. QUi c’è un hot spot che ha tariffe da rapina, sei euro al giorno e non vi dico il prezzo settimanale. Per farla breve, non c’è stato verso di far accedere alla rete il suo dispositivo e la vergogna è cresciuta ancora di più perché non sono riuscito a fornirgli aiuto. Gli ho suggerito di chiedere assistenza al gestore dell’hot spot. Alla fine il problema era che stamattina la rete non funzionava. It doesn’t work, mi ha detto rientrando, forse per consolarmi del fatto che il mio aiuto era stato vano ma non per colpa mia. E in realtà questo mi ha fatto vergognare ancora di un livello in più. Non mi sono sentito un bravo attendente come dovrei essere nei suoi confronti. Così ho provato con l’ironia, gli ho risposto “welcome in Italy”, lui ha capito che cosa intendevo e abbiamo riso insieme.

gli invasori

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Qui al campeggio sono arrivati da qualche giorno una manciata di ragazzini tedeschi, sono una decina, avranno tra i sedici e diciotto anni e sono tutti maschi. Hanno occupato una piazzola qui vicino con tende da spiaggia, quelle che estrai dalla confezione sono già pronte all’uso, che oltre a essere inadatte come riparo e come contenimento per gli oggetti personali, nel loro caso sono anche in numero insufficiente a ospitare tutti. Tanto che oltre a vederli dormire la notte con gambe e piedi che spuntano fuori, hanno attrezzato lo spazio con un’amaca e uno addirittura dorme sdraiato per terra su un tappetino da yoga. Ma giorno dopo giorno si sono procurati qualche sedia e un tavolo in plastica almeno come appoggio per i pasti, e con teli di risulta, quelli che i campeggiatori abbandonano nella spazzatura prima di partire – quelli che sovente recupero anche io – sono riusciti a ricavare un po’ d’ombra e di riparo dal sole cocente di metà agosto. Naturalmente, vista l’età, sono senza mezzi di locomozione propri, suppongo siano arrivati con un autobus di linea dal più vicino porto o aeroporto. All’ora di cena li vediamo tutti riuniti alla luce di un paio di candele anti- zanzare intorno al tavolo, stanno lì ore a chiacchierare, bere birra, fumare sigarette – penso – e godersi la reciproca compagnia all’aria aperta. Che cosa c’è di strano, vi chiederete, e perché un gruppo di ragazzini un po’ scrausi che non fanno nulla di particolare sono così interessanti tanto da essere oggetto di un post. Il punto è proprio questo. Sono persone normalissime. Provate infatti a immaginare un gruppo di ragazzi italiani di pari età in vacanza da soli. Intanto non sarebbero qui, in un campeggio per famiglie della Sardegna che non ha una discoteca o un locale nel raggio di chilometri ma soggiornerebbero come minimo in un villaggio turistico e come minimo a Ibiza, Marbella o varie altre amenità del turismo diciamo di massa. Non sarebbero poi così rispettosi degli altri occupanti del campeggio, vi giuro che non li senti né quando sono lì tutti insieme a farsi la pasta né quando sono nella spiaggia antistante a godersi il mare o giocare a pallavolo. Data la quantità di bottiglie di Ichnusa che si vedono nei pressi è chiaro che anche a loro piaccia trascorrere il tempo in spensieratezza, ma malgrado ciò non ho sentito mai nessuno di loro alzare la voce, atteggiarsi a spaccone come fanno spesso i nostri adolescenti, divertirsi a sfottere le persone che passano, cantare cori da stadio e così via. Non li vedi mai fare i galletti con le ragazze della loro età – e qui ce ne sono tante, molte tedesche ancora in vacanza con i genitori – e malgrado stiano svegli fino a tardi a raccontarsela nessuno si può lamentare del loro comportamento. Nessuno di loro poi sfoggia acconciature che celebrano quelle dei calciatori più in voga o veste cercando di emulare Fabri Fibra, suppongo che ci siano rapper anche in Germania. E sapete una cosa? Non c’è nessuno di loro che abbia un tatuaggio. Nemmeno uno.

cioccolato e orologi a cucù

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Quelli che, per motivi anagrafici, hanno provato l’esperienza di cominciare l’anno scolastico solo il primo di ottobre, gli stessi che hanno fatto l’esame di seconda elementare nel 1975 come, tra gli altri, Max Collini e il sottoscritto, si ricorderanno di settembre come di un mese estivo e di vacanza a tutti gli effetti. Magari uno di quelli meno prevedibili degli altri dal punto di vista meteorologico, almeno qui al nord e prima del cambiamento climatico protagonista degli ultimi vent’anni o giù di lì, ma che comunque rientrava nel periodo del dolce far niente, in montagna, al mare o giù in città.

E a vederla da qui, dove ogni due per tre si attenta ai ponti con sabotaggi istituzionalizzati per ridurre l’otium e incentivare il negotium, sembra un’epoca davvero di un secolo lontano, quando si poteva emulare l’epopea dei “cento giorni di Jula” perché tra baby pensionamenti o ammortizzatori sociali ad oggi impensabili, i bimbi più fortunati potevano sempre contare su qualcuno che in famiglia poteva far trascorrere loro quel lunghissimo oblio dai propri doveri da studente. Ma poi la cuccagna è finita, e da allora l’anticipo scolastico a metà settembre ha spinto i nostalgici come me a scorgere avvisaglie autunnali ovunque e a vedere la colonnina di mercurio mezza vuota, un pessimismo volto a minimizzare i privilegi sottratti nel nome di uno sviluppo economico che poi, detto fra noi, non è che si sia mai raggiunto. Per non parlare poi dell’ingresso della mia generazione nel mondo del lavoro, laddove è stato possibile, che ci ha ridotto a una manciata di giorni il meritato riposo.

A me incuriosisce come invece succede per gli altri Paesi, perché chiacchierando con i gestori del campeggio in cui ho appena terminato le mie ferie sono venuto a sapere che ora che noi italiani riportiamo i nostri pargoli nella porzione del sistema produttivo che loro compete, arrivano gli svizzeri. Già in questi ultimi scampoli di agosto l’invasione dalla Germania è stata massiccia e di italiani eravamo rimasti ben pochi. Ma settembre, non chiedetemi il motivo perché nemmeno io l’ho chiesto ai gestori del campeggio e quindi non lo so, è il mese degli svizzeri. Non ci sarebbe nulla di strano, se non che a settembre il tempo comunque peggiora, l’acqua è più fredda, le giornate sono molto più corte e la bella stagione è quasi del tutto archiviata. Così ho provato a darmi una spiegazione che vada oltre il calendario scolastico vigente in Svizzera.

Probabilmente ci sono popoli che hanno un’idea molto diversa del mare in estate dalla nostra, che comprende il tendere il più possibile a una carnagione africana in barba agli eritema e a malattie della pelle ben peggiori. Ai racchettoni e ai tuffi a bomba che spruzzano i vicini. A sfoggiare polo con il colletto all’insù e cavigliere e infradito nei borghi turistici la sera, cercando il posto dove vanno a mangiare i calciatori. Ci sono persone per le quali il mare è una parte della natura, natura che è bella con il sole e con la pioggia, con la luce e con il buio, con il solleone e con quindici gradi la mattina e l’acqua ghiacciata ma che importa, il mare della Sardegna ha colori sempre invitanti e ci si tuffa dentro anche la mattina presto.

Ed è per questo se, come in questo momento in cui sto scrivendo e piove a singhiozzo, ci sono ragazzini non italiani che giocano a volley sulla sabbia umida, adulti che passeggiano sul bagnasciuga, altri che fanno lo stesso foto o stanno al coperto perché non hanno voglia di bagnarsi ma sembrano consapevoli che anche questa sia una parte di ciò che hanno acquistato. E che probabilmente venendo qui in agosto ci sarebbero solo emozioni di un unico tipo, poco varie e forse di qualità più standard. Ieri sono comparsi i primi due camper targati croce bianca in campo rosso a godersi la loro stagione fuori stagione. Noi si torna a casa.

keine gegenstaende aus dem fenster werfen

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Mentre tutti voi state salendo solo ora sul carro del vincitore, quello targato con la D di Deutschland, sappiate che io sono a bordo da tempo e vi ho pure tenuto i posti migliori dato che oltre ad accodarci ai potenti abbiamo la capacità di metterci alla destra del conducente, senza parlargli sennò poi ci danno la multa e di questi tempi in quanto a debiti direi che ne abbiamo già abbastanza. E poi è meglio non dare troppo nell’occhio che con il pagliaccio che abbiamo designato nostro rappresentante durante gli scorsi diciassette anni e rotti abbiamo fatto già abbastanza caciara, anche se vedo che ora siamo passati dalle pose di Berlusconi a quelle altrettanto farsesche di Balotelli, ti vedono con i capelli scuri e ti fanno la gag a torso nudo degli Europei e insomma se uno pensava di poter passare almeno un’estate senza essere preso in giro si sbaglia di grosso. Nessun tedesco ti indica come sostenitore di Monti e quindi impegnato a fare qualcosa di proattivo per salvare il tuo Paese e l’Europa intera.

A me i tedeschi stanno simpatici da un po’, e se seguite questo poco più che diario adolescenziale online ricorderete che sono stato pure in vacanza a Berlino qualche mese fa, ed è ovvio che questa strategia di captatio benevolentiae nei loro confronti ha un fine strumentale, cioè quello di farmeli amici che non si sa mai che tra un po’ tutti i nostri averi saranno loro. Le nostre case, i nostri monumenti e i nostri luoghi turistici, che poi questi ultimi già sono a loro uso e consumo e anzi non ci si spiega come dopo il modo con cui li abbiamo accolti nei decenni successivi a quando ce ne eravamo liberati – con disorganizzazione e strutture fatiscenti – ancora oggi vengono a spendere i loro euromarchi qui sulle nostre spiagge, preferendole ad altre malgrado la scarsa cura con cui teniamo le nostre cose. Io addirittura scelgo periodi estivi per le vacanze in Italia in cui sono certo che di italiani ce sono pochi e invece tedeschi ce ne sono tanti. Quest’anno poi mi trovo a cavallo tra il rientro dei miei connazionali e il loro arrivo, per ogni piazzola occupata da italiani se ne riempiono dieci di tedeschi, ed è un piacere averli vicino perché parlano poco tra di loro e sono attrezzatissimi il che può essere utile quando invece hai bisogno perché tu fai campeggio da principiante.

Anche se devo dire che quest’anno i tedeschi mi hanno un po’ deluso. Non tanto riguardo ai mezzi con cui hanno occupato il campeggio in cui sono ospite anche io e che è lo stesso dell’anno scorso, perché è sempre un piacere vederli arrivare con i loro Volkswagen Transporter o Caravelle metallizzati e in quattro e quattr’otto tirare su la tenda maggiolina, montare gazebo e mettere sulla piazzola set di sdraio e tavolini e biciclette che costano quanto la mia automobile. Addirittura ne è arrivato uno con una roulotte che, una volta sganciata dalla potente macchina trainante, sempre Volkswagen, aveva una specie di telecomando che pilotava un motorino della roulotte e questa si è praticamente sistemata da sola. A dir la verità il proprietario era un austriaco, ma non lo scrivo perché so che austriaci e tedeschi sono un po’ come noi e i francesi.

I tedeschi quest’anno lasciano un po’ a desiderare dal punto di vista della forma fisica. Quelli dell’anno scorso praticavano ogni genere di sport possibile all’aria aperta, mancava forse solo il lancio con il paracadute perché nessuno si era portato l’aeroplano dietro. Quest’anno invece li vedo tutti più sedentari. Ce n’è uno, che c’era anche lo scorso anno, che fa windsurf estremo che però poi compensa ogni uscita con almeno due Ichnusa da 66 cl a pranzo e a cena. Quello dall’altra parte invece le birre se l’è portate dalla Germania. La prima cosa che ha scaricato dal furgone sono state due casse da sedici bottiglie di weiss tedesca ciascuna di una marca mai vista prima con tanto di bicchiere dedicato. Alla sera, prima dell’immancabile grigliata di carne o pesce per i suoi tre o quattro o cinque figli si trinca un litro di birra ma è un’abitudine che non gli fa bene e lo si capisce quando si mette di profilo. C’è un altro poco più in là, anche lui con la famiglia numerosa come tutti e lo stomaco abbondantemente dilatato, che dalla stazza te lo immagini all’Oktoberfest con il boccale traboccante di schiuma intonare canti nostalgici, questo lo penso io considerando i vistosi i tatuaggi e la stazza della moglie. E poi molti vestono slip da mare, che qui in Italia consideriamo una delle mode più tamarre mai viste, anche se i loro sono più alti e tecnici dei nostri.

C’è infine un tizio tedesco di fronte che mi è simpatico perché ha una bambina piccola – la terza – che piange a dirotto da mane a sera e rompe abbastanza il cazzo ai vicini, me compreso. E mi fa piacere che i più rumorosi del campeggio siano dei tedeschi e non degli italiani con i loro mandolini amplificati e che comunque i gestori, che già su alcune regole infrante da loro non dicono mai nulla, ben se ne guardano dall’intervenire nei confronti di clienti che ogni giorno possono permettersi la spesa al market del campeggio che notoriamente è molto più cara che altrove.

Comunque, questo tizio dalla bambina che strilla senza interruzione mi ha notato mentre prendevo dalla spazzatura uno di quei teli verdi tutti bucherellati da utilizzare per mettere in ombra la piazzola in perfetto stato, che è una cosa che faccio perché non ci trovo nulla di male. Raccattavo mobili vintage dalla rumenta del centro storico di Genova, vuoi che mi schifi tirare su attrezzatura da campeggio? Anzi, mi sembra di evitare uno spreco, agendo così. Bene, di teli in realtà ce n’erano due ma prenderli entrambi mi pareva troppo, e così quando ha visto che ne portavo via solo uno il tedesco di fronte è arrivato anche lui a prendersi l’altro, dicendomi una cosa buffa nella sua parlata così autoritativa che non ho capito ma che poteva tranquillamente essere “li avevo visti anche io i teli nella spazzatura ma mi vergognavo a prenderli per primo perché sono un tedesco, e aspettavo che un miserabile italiano povero e che continua a vivere ben al di sopra delle sue possibilità lo facesse prima di me”.

troppo in là

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Questo è il post in cui voi mi spiegate il perché nel 2012 c’è gente ancora costretta a prendere ferie in agosto come negli anni della Fiat e dell’Alfa  Romeo, così uno si ritrova a metà estate e le vacanze non sono mai come le vorremmo fare perché costa tutto il triplo, c’è bordello ovunque, le giornate sono già corte e, soprattutto, ci si arriva stremati tanto che uno poi non si rende nemmeno conto di averle fatte, o quasi. E quando torni c’è praticamente una nuova stagione già nel pieno tanto che non riesci a riprenderti con sufficiente prontezza e gradualità perché devi essere già al top quando ti eri appena ambientato al riposo che ti spettava e che, essendoti stato imposto in un momento sbagliato, non ha comunque fatto l’effetto dovuto. Valgono ovviamente paragoni con le ferie dei francesi, tedeschi e olandesi. Stupitemi.