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Dopo appena un anno dal loro lancio, i moduli formativi in e-learning per i Corsi di Lingue pensati ad hoc per chi vuole imparare a litigare in un idioma straniero sono tra i più richiesti nel settore dell’educational on line a livello europeo. Stasera mi è stato facile riconoscere un alunno – che se non ricordo male dev’essere stato tra i primi ad aver conseguito il diploma – incazzarsi come una iena in francese tra antipasto e primo al ristorante con la sua compagna. Vi invidio tantissimo, voi che riuscite a portare avanti discussioni con la terminologia tecnica delle discussioni in un’altra lingua che non è la vostra. Il segreto è nella velocità: nel momento in cui subisci la cosa che ti fa scattare la cattiveria in italiano, essa viene smorzata dal tentativo di renderla in inglese o tedesco o quel che ci occorre al momento, cercare le parole giuste, coniugarle o declinarle se è il caso, quindi concatenarle secondo la/le regole grammaticali elementari che dovremmo – appunto – conoscere dalle elementari ma che invece in quel momento sono in pausa pranzo. Ma quando sento un italiano parlare americano con un’americana e parlarlo bene, si mantiene comunque sul tono di chi vuole alla fine provarci, quindi si tratta di esercizi di stile finalizzati allo scopo (quello, appunto) ma per la conversazione piacevole. In caso di dissidio siamo destinati invece a soccombere, ci sprizza il nostro derivato del latino da tutti i pori dell’apparato fonatorio perché nei programmi scolastici non c’è nemmeno una lezione dedicata a come incazzarsi al di fuori dalla lingua madre. Probabilmente esistono, oltre a parolacce e bestemmie, anche abitudini comportamentali, prossemica e gestualità che cambiano di paese in paese. Questo è il motivo del successo dei moduli formativi in e-learning per i Corsi di Lingue pensati ad hoc per chi vuole imparare a litigare in un idioma straniero. Se non saltate i preliminari e partite con il body language di un ceffone dritto in faccia, sempre meglio tentare il dialogo e insultarsi a dovere. Basta capirsi.

l’aria di francia ai tempi della telefonia spagnola, e viceversa

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Non potete pretendere la nostra tolleranza verso gli stranieri considerando che veniamo da una provincia che ha visto il primo ristorante cinese aprire a metà anni 80 e solo nello stesso periodo i primi venditori ambulanti africani sulle spiagge. Noi usi solo al suono dei cognomi tipici della zona, gli stessi a cui sono intitolate le strade e quelli che pronunciavamo per chiamare il dottore, il direttore della filiale della banca, il marmista del cimitero, il benzinaio. Nella frazione da cui proviene mio padre si chiamano tutti come me, per dire, tanto che la prima cosa che ho fatto sull’Internet è stata quella di cercare i miei omonimi in tutto il mondo. Per il resto, famiglie inglesi non si erano mai viste, per esempio, non essendoci fabbriche di automobili come quelle della pianura dove venivano ingaggiati manager americani che arrivavano con mogli e figli che poi andavano a fare gli spacconi con i ragazzini della superata borghesia locale. Da noi al massimo c’era qualche bambino, non più di due o tre in una scuola pubblica di un quartiere popolare, con il cognome francese che attirava la curiosità di tutti. Erano persino invidiati i loro compagni di classe che potevano beneficiare di feste in case di persone di altre nazionalità, storie che si leggevano nel sussidiario o in qualche telefilm per ragazzi. C’era un gioielliere rampollo di una antica famiglia ebraica ma dalle origini provenzali che vantava l’insegna della bottega nella piazza principale a tre vetrine. Il figlio, sempre con il golfino a vu e alla camicia, sfoggiava un taglio troppo moderno per le frangette e i sorrisi sdentati delle foto ricordo a fine anno scolastico. Ve li elencherei tutti qui i franco-italiani o italo-francesi che mi hanno messo in soggezione nella mia vita se non fosse per un problema di privacy. Il fisico perfetto e il look da manichino della Rinascente che da noi non c’era nemmeno, al massimo arrivava la Standa e il Carrefour non era stato ancora inventato. Sarà per questo che quando incontro persone dal cognome francese, ancora adesso, riesco a cogliere sempre tutti i segni dell’aristocrazia pre-giacobina che in qualche modo è riuscita a sfuggire alle ire terzostatiste della rivoluzione. Quadri del Decathlon mandati a colonizzare la nostra grande distribuzione disorganizzata. Intere dinastie dalle bionde chiome alsaziane con quella pelle che i raggi terroni del mediterraneo non osano scalfire nemmeno nella canicola ferragostana che spazzano via i ferramenta dai centri abitati a colpi di Castorama e Leroy Merlin. Persone apparentemente normali che mi aspetto rivendichino prima o poi il loro castello sulla Loira o qualche appartamento di lusso nell’Île de la Cité da utilizzare come base logistica per un futuro radioso dei propri figli lungo carriere universitarie alla Sorbona. In Vespa per le strade i Parigi. Noi, che al massimo possiamo aspirare alla facoltà di legge a Pavia da raggiungere con i treni delle ferrovie Nord.

gli italiani lo fanno così così

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Capisco che l’esterofilia fine a se stessa sia scostante, e non vorrei certo sembrarvi antipatico. Anzi. E vi assicuro che mi impegno a seguire il panorama locale in ambito musicale, editoriale e cinematografico. E probabilmente lo farò ancora, anche solo per un briciolo di campanilismo. Ma, diamine, mi cadono sempre più le braccia.

Per farvi un esempio, anzi tre ma partiamo dal primo, fino a qualche anno fa seguivo con acceso interesse la musica italiana, le nuove band e il trend del momento, affidandomi soprattutto ai principali siti specializzati, come quelli che organizzano i festival dei baci e degli abbracci. Il motivo? Da una parte era il retaggio che mi portavo dietro da sempre, avendo occupato gran parte della mia vita (almeno 30 anni) a suonare in gruppi più o meno underground. Se volete saperne di più, questo blog è pieno di riferimenti alla mia vita precedente, e vi consiglio di iniziare dalla fine di quella esperienza. Seguivo i forum, partecipavo alle discussioni. Ma anche prima di Internet, ho letto e mi sono costantemente tenuto aggiornato, in un percorso che parte dagli Area passando per Diaframma, Litfiba e CCCP, poi svolta con Almamegretta e Casino Royale, sempre dritto per arrivare a Scisma e Subsonica. Ho parcheggiato di fronte agli Offlaga Disco Pax e sono sceso dal mezzo, autoradio alla mano, perché era subentrato nel frattempo il nulla più assoluto.

Più difficile argomentare la mia esterofilia in ambito letterario, sono meno competente (o più cialtrone, dipende dai punti di vista), il campo è oltremodo più vasto, più difficile da conoscere approfonditamente e da valutare. Diciamo che, esaurita la bibliografia del ‘900 italiano, ho perso l’orientamento passando da Pavese, per fare un esempio, a un qualsiasi autore emergente. Le poche volte in cui ho dato un’opportunità a uno scrittore locale (passatemi l’aggettivo), mentre mi si ripresentava a menadito il metro quadrato storico, politico e geografico in cui erano state ambientate le vicende descritte nell’opera di turno, già rimpiangevo la sicurezza dei parametri che utilizzo in fase di scouting di nuovi autori per il mio tempo libero. Ovvero: nati possibilmente tra l’Oceano Atlantico e il Pacifico (procedendo verso ovest), a nord del Messico e a sud del Canada (con l’eccezione di Coupland e degli autori nati in Alaska), tra il 1900 e il 2011. Un sottoinsieme già di per sé infinito.

Il terzo e ultimo elemento di riflessione riguarda il cinema. Qui converrete con me della difficoltà (mi veniva da scrivere dell’inesistenza, poi ho pensato che sarei risultato antipatico agli estimatori di Moretti, Martone, Costanzo, Sorrentino e Virzì, quei pochi di cui ho seguito l’attività) di mettere insieme un elenco sufficientemente corposo di prodotti di oggettivo valore, se comparati a omologhi lavori indipendenti o no realizzati all’estero. E anche in questo caso non so quanto sia determinante il fatto che altrove il cinema è un’industria mentre da noi è un hobby per figli di papà. Non so se il mio disagio di fronte ai film italiani dipenda dal gap qualitativo tra la recitazione degli attori (e dei loro accenti) e quella dei doppiatori di film stranieri, dalla piccolezza (si dice così) delle storie raccontate, un po’ come avviene per la letteratura, dalla scarsa attendibilità delle facce degli attori, dai registi.

Tutto questo per lanciare un appello: ridatemi speranza. Consigliatemi voi: libri, film e dischi italiani, di cui ne valga la pena.