sic transit gloria mundi

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Non è la prima volta in cui Berlusconi porta sfiga.

la descrizione di un attimo

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Sono certo che passare alla storia per una foto così (peraltro con il logo del nemico sullo sfondo) non sia un modo efficace per entrare nel mondo del lavoro e della dignità collaterale che questo passo comporta. L’attimo in cui lanci un estintore, e per tua fortuna non c’è nessuno a spararti ma hai un obiettivo altrettanto feroce con fotografo annesso di fronte, rimarrà sempre così impresso nella memoria collettiva. Ha già occupato milioni di pagine stampate, rimarrà conservato in gigabyte di spazi virtuali, per sempre. Sarà il ritratto personale che accompagnerà il curriculum da presentare a un colloquio, se mai l’interessato avrà bisogno di trovare un’occupazione anche precaria.

nuggets e acqua naturale

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Chissà se i giovani rampolli dell’establishment anarco-insurrezionalista crescono terrorizzati dall’incubo McDonald’s come i nostri figli, così quando arriva un invito alla festa di compleanno di un compagno di classe vanno nel panico. “Mia mamma non mi porta mai al McDonald’s”, dice uno, “mi ha detto che si mangia troppo salato”. “I miei genitori mi hanno fatto vedere un film in cui un signore a furia di mangiare hamburger diventava grassissimo e rischiava di morire”. Allora è bene spiegargli che non è gentile rifiutare l’invito di un bambino con cui dovrai trascorrere ancora tre anni di elementari, adducendo come scusa “mi dispiace, non posso venire perché papà e mamma sono black bloc e anche un po’ no global”. Ma i primi a convincersene sono i genitori, che a vicenda si promettono di trattenersi dallo spaccare le vetrine accompagnando i propri piccoli. Così si cerca in qualche modo di equilibrare il messaggio per la famiglia del festeggiato con un regalo equo e solidale, un cencio ricamato per la causa del fair trade da bimbi nepalesi, che una volta sfasciato (nel senso di estratto dalla carta regalo) sarà riposto nel mucchio tra Barbie e altre icone del capitalismo su un altare nel tempio del food entertainment.  Ma no, spiegano i padri e le madri indignati, non succede nulla a mangiare qualche volta lì, non c’è un virus ogm che ti si infila dentro e ti fa venire voglia di consumare tutti i soldi che hai nel cibo del peccato. Qualche volta si può fare, basta aver sempre presente sempre di cosa si tratta. E dopo un’ora e mezza di giochi sotto la direzione creativa dell’animatrice a progetto di turno, i rampolli tornano nel c.s.o.a., in mano un regalino di rimando con il brand in bella vista che il festeggiato e il suo sponsor hanno donato in segno di ringraziamento a ogni invitato. L’ultimo trofeo che ricordo è una specie di radioregistratore di quelli di una volta in miniaturissima, un blocchetto di plasticaccia blu che gli infili dentro una schedina con la foto di un belloccio ingellato da total request live che fa partire, con un audio pessimo, pochi secondi di r’n’b per adolescenti, tipo quel Justin Bebier o come diavolo si chiama. Una vera maledizione ma che, purtroppo, non si riesce a far sparire dalla cameretta.

E chissà quale sarà il gadget di oggi,  penso mentre parcheggio, anche i posti auto sono marchiati. “Papà, ho paura di stare male dopo che  ho mangiato i nuggets”, mi dice mia figlia. “E se poi divento come quello di Supersize me”? Entriamo, cerco di non vedere le facce delle persone sedute e spero che non guardino noi. In fretta ci addentriamo nella stanzetta riservata, i saluti di rito, e subito l’addetta al divertimento iscrive mia figlia al programma della giornata. Il primo gioco è già iniziato, vedo due squadre con delle palline rosse in mano, una contro l’altra divise da una riga di sedie. “Ci vediamo dopo”, le dico, ma nemmeno mi sente, tocca già a lei lanciare la pallina.

ordine e fattori

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Leggo del Tenco assegnato a Ligabue e penso che poteva andare peggio, con il Ligabue assegnato a Tenco.

c’era una volta un re

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Le facce terrorizzate dei dittatori uccisi fanno paura, come se riprendessero vita nella foto e cercassero di vendicarsi con maggior ferocia proprio per il torto subito, l’unico, quello decisivo. E se volessero riunire intorno a sé il loro entourage, guardie e leccapiedi e sicari, tutti con quegli sguardi increduli che hanno gli uomini nell’istante in cui capiscono che l’istante successivo moriranno per morte violenta, e, una volta eliminati i loro giustizieri, volessero continuare a seminare sangue con chi gli ha fatto la foto o il video della loro esecuzione, e quindi tutti quelli che l’hanno vista o l’hanno segnalata agli amici? C’è la prima foto della serie dei dittatori uccisi, quella che per capire di chi si tratta devi capovolgere il libro su cui è stampata, o ruotare il canvas di centottantagradi gradi con Photoshop se maneggi la versione digitale. Poi Ceausescu, anche lui con la moglie. Il penultimo è Saddam Hussein, stretto da un cappio, e oggi l’esemplare più recente, la figurina di Gheddafi. Non c’è da preoccuparsi, sono stati uccisi e basta. Sono tutte facce che hanno gli occhi della paura della morte, la disperazione che assurge a protagonista della storia, uomini condannati perché non potrebbe essere altrimenti, una trama che si chiude con una semplice sequenza di titoli di coda prima della parola fine, mai più letale e documentata di così.

leggersi dentro

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E comunque ieri mattina sono uscito di casa per recarmi in ufficio e ho dimenticato di mettere in borsa il libro che sto leggendo. Era troppo tardi quando me ne sono accorto, avrei perso il treno se fossi tornato indietro dopo aver accompagnato a scuola mia figlia, quindi mi sono arreso all’ennesimo disagio da lunedì mattina. In stazione ho scelto di non comprare Repubblica, non avevo voglia di leggere le analisi sui fatti di sabato, e poi non compro mai il quotidiano al lunedì, una forma di protesta contro l’eccesso di pagine sui risultati delle partite di calcio e tutta la letteratura inutile che contengono. Insomma, ho deciso di affrontare i venticinque minuti di viaggio come fanno tanti, senza fare nulla. Mi sono seduto in treno e ho cominciato a passare in rassegna le cose che avrei dovuto approcciare di lì a poco, in ufficio. Qualche idea creativa sulla campagna a cui sto lavorando. Che peccato però sprecare il tempo libero pensando al lavoro, perché non riflettere sull’ennesimo disastro del finesettimana trascorso tra i drammi della mia famiglia d’origine? No grazie. Ho provato a ragionare su come avrei potuto scrivere un post a proposito, che poi non ho scritto. Mi sono guardato in giro, ma non c’era niente di particolare o di diverso dagli altri giorni. Pochissimi con libri o giornali, il resto dei viaggiatori come me, a guardarsi nel vuoto e a pensare. Pensa un po’. Poi il treno è entrato sottoterra, ne ho approfittato per guardarmi riflesso nel finestrino. Perbacco che sciatteria, mi sono detto, e sono certo che qualcuno mi ha pure sentito. Ho scrutato in giro in cerca di qualche viso interessante, qualche faccia intelligente. Ma se guardi troppo gli altri poi gli altri pensano che sei a caccia, o che sei un po’ suonato. A quel punto mi sono chiesto come fanno e cosa fanno quelli che non fanno nulla, guardano nel vuoto, ammiccano a se stessi nel vetro quando il treno è fermo in galleria. Ogni giorno, tutti i giorni, andata e ritorno. Ho acceso il lettore mp3, c’era “Real To Real Cacophony” già pronto da venerdì scorso, e per non lasciarmi vincere dall’imbarazzo ho chiuso gli occhi facendo finta di dormire fino a destinazione. Mai uscire dimenticandosi il libro, piuttosto le chiavi di casa.

indisposizione

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Una volta ho bucato in pieno un incontro importante di lavoro. L’appuntamento era Torino, nella sede di un importante cliente di un mio cliente un po’ meno importante. Il mio cliente un po’ meno importante aveva promesso al suo importante cliente che avrebbe portato con sé un giornalista per un’intervista, quei marchettoni edulcorati che vanno spalmarsi su pagine a pagamento mascherate da informazioni, note agli operatori del settore e non come publiredazionali o pubbliredazionali (ci sono due correnti di pensiero sull’uso della doppia, io preferisco la seconda). Era programmato da più di due settimane, troppo per la mia capacità organizzativa, in un ambiente in cui ci vengono chieste cose dalla mattina per la sera, al massimo per il giorno successivo. Una volta stabilito giorno e ora, non so il perché e il percome ma ho dimenticato di annotare l’appuntamento in agenda e mi sono tuffato nuovamente nella sala macchine della produzione fatta di urgenze, imprevisti, tecnologia che si ribella e lotte contro il tempo. Ah, e io sono tutto tantomeno un giornalista.

E quella mattina è arrivata, come tutte le altre. L’incontro era fissato per il dopo pranzo. Il mio cliente, che comunicava con me tramite una collega pierre di sicuro perché più carina e comunque del sesso giusto per giustificare un rapporto epistolare professionale quotidiano e un fee all’agenzia, per scrupolo le chiede se era tutto confermato, e che mi avrebbe atteso all’ora stabilita all’ingresso della sede del loro cliente. La collega mi inoltra l’aggiornamento, e dentro di me scende il gelo, come quando apri gli occhi e ti accorgi di aver spento la sveglia chissà quante ore prima e avevi un treno da prendere che ha fatto a meno di te. Realizzo che non ce la farei a precipitarmi a Torino e arrivare in tempo.

Chiamo il mio cliente e gli dico la verità. Ma gli propongo anche la soluzione, una banale intervista telefonica. Loro stanno lì e io, facciamo pure finta che sono malato, da qui. Accetta, inequivocabilmente scazzato, ma capisce che non c’è altro sistema per porre rimedio. Rimaniamo che mi chiama lui alle 14. E puntualmente squilla il telefono, quindi le presentazioni di rito, insieme a lui ci sono i vertici dei sistemi informativi di questa grande azienda italiana, una società molto importante. Ma il più “vertice” dei due chiede al mio cliente che cosa stiamo per fare. Lui, sommessamente, spiega la finalità del meeting, l’intervista telefonica, quello che previa loro approvazione ne conseguirà. Al che ottiene in risposta che non se ne parla, ogni intervista per una società del loro livello può essere rilasciata solo tramite l’ufficio stampa (concordo) e quindi gli dispiace ma non si può fare. Il mio cliente chiude la conversazione visibilmente (anche se non lo vedo) amareggiato. Ma il cliente, in questo caso il suo, ha sempre ragione, no?

E niente, una volta ho bucato in pieno un incontro importante di lavoro, ma l’incontro stesso era un buco, e non ci sono finito dentro per puro caso.

facciamo l’amore, facciamo la guerra

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Dopo la mela del capitalismo, la coscia della rivoluzione. Via.

tono su tono

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Non ricordo chi scrisse che verrà un giorno in cui la SIAE farà pagare  le suonerie dei telefoni trasmesse a volume elevato in pubblico, quindi accomunate alle altre esecuzioni musicali dal vivo e soggette alle norme sul copyright. Forse è una cosa che ho pensato io, ma ne dubito, sin troppo elaborata. E quello che è successo per la Nokia e il celebre jingle dedicato ai suoi utenti è emblematico; i grandi vendor che ingaggeranno i dj di grido per realizzare remix delle loro musichette – o anche di canzoni celebri – da utilizzare in esclusiva sui loro nuovi modelli. O, faccio un esempio, la famosissima cantante pop che metterà a disposizione tramite iTunes una suoneria dedicata all’iPhone. Tutta roba che esiste già? Comunque, si tratta di un mercato occupato da un servizio di cui, almeno fino a poco tempo fa, non se ne sentiva il bisogno. Ma che mi lascia perplesso: in giro si sentono sempre più suonerie generiche, il classico driiiiiiiin per farmi capire, tanto che tutti siamo sempre lì, sul treno, a controllare chi sta ricevendo la chiamata. Forse la gente è finalmente stufa di set live estemporanei di fronte a sconosciuti?

o bianco fiore

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Se metti a zero l’intensità del colore sembra di stare in un film degli anni sessanta. Le famigliole al completo che tornano a casa, la domenica mattina, uscite da messa. La mamma con un cabaret di pasticcini in mano. Il vestito della festa, le bimbe con il cerchietto, i maschietti con i pantaloni corti e i calzettoni sotto il ginocchio. I genitori dietro, a braccetto o per mano, i figli davanti, i più grandi che fanno i fratelli maggiori badando ai più piccoli. All’uscita pomeridiana della scuola elementare si assiste a una seconda scena da boom economico, in un momento in cui del boom proprio non c’è nemmeno una lontana avvisaglia. Il numero delle mamme torna a essere maggiore dei nonni, il che significa più donne a casa. Alcune se lo possono permettere, altre non se lo potrebbero permettere ma sono rimaste senza lavoro. Terzo elemento apparentemente anacronistico, le coppie che sfornano tre o più figli. Ne ho presenti almeno quattro tra i miei conoscenti, con possibilità e redditi diversi. La nostra non è certo una società che te lo permette, né si può dire che al giorno d’oggi le famiglie numerose siano una ricchezza. Nel frattempo leggo di un grande fermento intorno a Claudio Scajola che, malgrado la doppia dimissione negli ultimi anni per motivi peraltro imbarazzanti, sta attirando le voglie dei centristi e dei cattolici di ogni dove, lui che a colpi di scudo crociato si è costruito un impero. Insomma, si parlava di un ritorno all’Italia democristiana. Ecco, direi che ci siamo dentro, ampiamente.