vada a bordo, cazzo!

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Ci sono alcune locuzioni che negli ultimi tempi vanno per la maggiore, nel mio ambiente. Una lista esemplificativa sebbene parziale comprende metterci la faccia, perdere la stessa, avere le spalle coperte, cadere in piedi.

Se immaginiamo un’impresa come un organismo composito, il capo nel senso di testa, che per una amara coincidenza ha la stessa denominazione della funzione aziendale posta alla guida del suddetto organismo, è dotato di un sistema periferico che svolge la funzione di punto di contatto con l’esterno, che io chiamerei interfaccia se il suo nome non fosse per l’appunto faccia e desse adito a impressioni di scarsa attenzione da parte mia alle ripetizioni nel testo. E per convenzione è quello che il sistema in cui un’impresa opera vede. In questo senso si dice metterci la faccia, no? Il capo nel senso di amministratore dell’impresa fornisce l’energia a tutti gli organi sottostanti per muovere tutto il macchinario nel suo ambiente, che per essere corretti dovremmo chiamare mercato, in teoria al meglio delle sue possibilità. Non sto inventando nulla, sia chiaro, è un po’ il celebre apologo di Menenio Agrippa, quella favoletta che avrete studiato come me alle elementari.

Ci sono però numerose, anzi, infinite variabili in queste dinamiche interne: quanta energia il capo fornisce e in che termini, le condizioni atmosferiche, gli sgambetti del prossimo, le parti interne guaste per le quali a volte ci si ferma nei box, e così via. Ogni espressione che la faccia lassù assume è un messaggio comunicato al resto del mondo. Se le cose vanno male, si dice che chi ci mette la faccia la perde, una delle possibili – la peggiore – vie in cui si esercita il rischio di impresa, le cui responsabilità sono altresì diverse e da ricercare nei settori che non hanno funzionato, capo compreso, anche qui con tutte le molteplici cause che non sto ad elencare. Ma, e c’è un ma, anzi ce n’è più di uno, perché può succedere che il corpo – che chissà perché me lo figuro come Frankenstein con il suo cervello AB-normal mentre danza sulle note di “Puttin’ on the ritz” seguendo i passi dettati da uno scienziato pieno di sé, coprendosi di ridicolo con gli spettatori, ma forse sono solo suggestionato dal fatto che ho introdotto mia figlia al culto del film in questione di recente e con suo sommo divertimento – dicevo, il corpo a un certo punto subisca un mancamento, tutto gira intorno e non riesce più a reggersi sulle proprie gambe.

Ed ecco il perché delle altre due locuzioni, ricche peraltro di analogie con la metafora in cui mi sto perdendo, chiedo scusa. Può essere che il capo, nel senso di vertice aziendale, abbia le spalle coperte e decida di spalmare altrove quel rischio di cui dovrebbe farsi carico, anzi se ne fotta proprio, per evitare inutili giri di parole. Cadere in piedi è la conseguenza: mi immagino il capo, ma nel senso di testa, che si stacca da quel pot-pourri di risorse umane in preda al panico in fin di vita e si proietti nello spazio con la sua navicella di salvataggio per atterrare in un pianeta lontano, in alcuni casi è sufficiente un paradiso fiscale, mentre il resto del corpo stramazza al suolo inerme, fine della corsa, potete trasformarvi in humus quando volete, grazie e arrivederci, la nostra responsabilità è limitata. Ma ora, con un solo euro, potrete provare anche voi la stessa ebbrezza. Chiudo con un siparietto comico giusto per tirarci su il morale.

dopolavoro

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Sarà stato l’effetto della scossa sismica di ieri se ti si è rovesciato tutto il lavoro addosso e adesso, anche oltre l’orario di ufficio, ce l’hai appiccicato sui vestiti, puzzi di riunione e di brief e si vede che non vedi l’ora di cambiarti, tornare a casa e metterti qualcosa di pulito e di comodo nel tuo appartamento che condividi con altri ragazzi come te che si chiederanno cosa è successo. Ma la giornata lavorativa non finisce con il suono di una sirena o un cartellino timbrato, queste cose si vedono oramai solo più nei film in bianco e nero, e quello strumento di comunicazione che ti segue ovunque, personale perché di tua proprietà anche se te lo hanno regalato mamma e papà per festeggiare il tuo primo impiego pardon, la tua prima collaborazione continuativa, quella mattonella con la plastica touch screen che ora tieni inclinata tra bocca a orecchio e alla quale stai rivolgendo una serie di giustificazioni in risposta all’accusa di un invio di formati di file sbagliati, è solo uno dei numerosi link che rimandano la tua vita privata a quella postazione che hai lasciato vuota poc’anzi, con il monitor in stand-by.

Ora, mentre dirigi parole a un dispositivo sproporzionato per la semplice funzionalità di trasferimento voce che dovrebbe assicurare, scruti il vuoto che hai davanti ma che vuoto non è, perché ci sono io e c’è un sacco di altra gente, ma tu hai eretto una barriera artificiale che vedi solo tu e che osservi sbigottito come se fosse un desktop virtuale sul quel stai cercando convulsamente la risposta giusta da dare a quell’interlocutore che è in grado di raggiungerti ovunque. Qui, tra un’ora a casa, magari stanotte mentre stai dormendo ti telefonerà per chiederti di risolvere il suo problema e tu dovrai riferire tutto domani al tuo responsabile, che c’è stato un problema di formati e di estensioni e di versioni differenti di programmi, ma se a malapena la chiamata personale ti sarà rimborsata dall’azienda che già ti sottopaga tutto il resto, il tuo essere quello che fai 24*7 giorni festivi inclusi non ti verrà mai restituito da nessuno, e l’aver consumato l’esistenza giorno per giorno a piccole ma sostanziali porzioni per colmare le difficoltà di bilancio altrui non diverrà mai una competenza riconosciuta ufficialmente in grado di fare curriculum, e al prossimo head hunter che ti esaminerà apparirà solo come una normale menomazione fisica di gravità insufficiente per autocertificarsi appartenente a una categoria protetta riconosciuta.

memori di Adriano

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Ma vi rendete conto di essere testimoni di una delle più grandi rivoluzioni culturali e sociali di tutti i tempi? Se avete all’incirca la mia età, potrete vantare ai posteri di aver assistito a evoluzioni storiche come il passaggio dalle cabine a gettoni all’iphone, dai televisori in bianco e nero ai Social Network, da Adriano Celentano a… Adriano Celentano. C’è qualcosa che non mi torna e che anzi, ecco cosa mi fa tornare in mente, la pubblicità che passava nelle radio locali di un noto negozio di abbigliamento, un messaggio che puntava tutto sulla tradizione: mio nonno vestiva da Mauri, mio padre vestiva da Mauri, io sono giovane e vesto da Mauri. Che nel nostro caso suonerebbe “a mio nonno veniva propinato Celentano in tv, a mio padre veniva propinato Celentano in tv, io sono giovane e devo subire Celentano in tv”.

E a dire la verità non ho capito bene che cosa sia successo perché, come direbbe Battiato – altro esempio di longevità – per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare quei programmi demenziali di infotainment, ma se la notizia poi passa al telegiornale la cosa si fa seria e dobbiamo farcene una ragione. Pare che ci sia un tira e molla tra il Clan e la Rai sulla partecipazione del loro guru a Sanremo. E questa frase raccoglie un po’ tutto il fallimento di più di una generazione, individui apparentemente cresciuti grazie a una lingua, una religione, una educazione civica comune che in realtà non hanno nulla che li unisce di più di un tipo di sottocultura pop, ma non nel senso sano di popolare come La bella gigogin, per dire. No. Quel pop di dominio della gerontocrazia dello spettacolo nazionale che trova la sua catarsi nel Festival di Sanremo.

Quindi nell’anno di grazia 2012, Adriano Celentano si presenta di fronte a telecamere e giornalisti facendo le sue mosse da molleggiato, le stesse che faceva nei musicarelli che vedeva mio nonno classe 1904 al cinema. Celentano accolto dai fans che lo inondano di flash e di mani da stringere, come negli eventi itineranti tipo il Cantagiro, in uno scenario in cui si auspica la sua presenza in uno spettacolo già discutibile di per sé, il Festival, davanti al quale milioni di persone assisteranno al suo show che non ho idea di come potrà essere. Canterà una canzone, parlerà di temi ambientali come li vede lui, farà uno dei suoi rock’n’roll con l’inglese inventato tipo prisencolinensinainciusol di cui facevamo la parodia alle elementari con “presi in culo un etto di acciughe”. Si sa, eravamo piccoli ed era il 1974, posso contare sulla vostra comprensione.

Sembrerebbe che dalle nostre parti i bambini nascano già con Celentano nel DNA, un elemento genetico che viene trasmesso al momento del concepimento dai genitori ai figli, se siamo così in pochi a stupirci che sia naturalmente accettato come un dato di fatto l’esistenza stessa di Celentano in uno show business nazionale (se non l’esistenza di Celentano tout court), e che anche se crescendo non ne abbiamo sentito parlare se non marginalmente, perché abbiamo letto o ascoltato di tutto fuorché quel tipo di prodotto culturale, si pensa che Celentano sia una istituzione che si deve tirare in ballo necessariamente quando occorre fare una sintesi di quello che c’è di buono in Italia. Il Festival, chi lo dovrà presentare, chi saranno le vallette, l’ospite da pagare profumatamente e che ti fa fare il salto di qualità. Una metafora molto più calzante del naufragio del Costa Concordia.

AAA è una risata che vi seppellirà

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A una parte di italiani e alla stampa prezzolata che a questa parte vuole dare voce, il presunto sbeffeggiamento pubblico di Sarkozy nei nostri confronti proprio non è andato giù, tanto che il declassamento e conseguente accorpamento della Francia nella categoria dei meno virtuosi suona quasi una resa dei conti degna di una prima pagina vendicativa o di un titolone sul mezzo gaudio da male comune. Ma sono certo che la A in meno ha costituito una fonte subdola di soddisfazione non solo per quello schieramento, vista la tradizionale quanto immotivata e infantile rivalità nei confronti dei nostri vicini. E peggio di essere surclassati economicamente (è proprio il caso di dirlo) dai francesi c’è solo la sconfitta in una partita di calcio tra le nazionali, magari nel corso di una competizione europea o mondiale, casistica che saluto invece con estremo gaudio dal mio profondo disprezzo per il business pallonaro, assai più oppiaceo di qualunque religione riconosciuta. Ma, tornando al casus belli, è chiaro che ad oggi sia per Atene che per Sparta non c’è motivo di essere sereni. E dopo il “ridi pagliaccio” del Giornale, speriamo che un qualsiasi quotidiano francese non debba uscire, un domani, con un veritiero “italiani, non vi resta che piangere”.

ti smontiamo subito

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E invece ho capito come ti saluteremo, quando il tuo mandato terminerà e noi saremo così scellerati da non prolungare il contratto a tempo indeterminato che ci lega a te per altri cinque, dieci, venti anni o almeno finché la tua post-politica non avrà risanato i fondamenti della vision di ognuno di quei gruppi organizzati che ora stanno seduti nell’emiciclo di fronte a te, alcuni dei quali composti da membri con serie difficoltà nel comprendere te e il team che hai scelto per farci risalire la china. Sappi che nessuno ci ha mai parlato così, e il tuo operare probabilmente sarà ricordato come il più rivoluzionario degli ultimi decenni. Stai sovvertendo un sistema, stai ripristinando dei valori, stai costruendo, almeno sul piano del senso comune. Ma noi non capiremo tutto questo, perché i simboli sono più appealing della sostanza, anche se si tratta di quella che non abbiamo mai visto perché ci hanno sempre e solo promesso nuove accezioni dei significati dei simboli stessi o, al massimo, qualche restyle grafico.

Così ho capito cosa ti diremo il giorno del commiato, e non sono stato il solo. Tutti noi abbiamo avuto l’illuminazione sentendoti parlare anche questa sera nel modo in cui avremmo voluto sentire parlare ognuna delle persone a cui è stata delegata, nel tempo, una qualsiasi risposta a una decisione comune. E quel giorno lì, quel momento che la componente pessimista e distruttiva (sempre la maggioranza) di noi purtroppo non riesce a non calendarizzare, avremo il coraggio di dirti che è finita, Mario. Devi rientrare sul tuo pianeta da quelli come te. Raccontagli di dove sei stato, racconta a loro di noi, digli che viviamo in un posto di merda e che abbiamo un modo di vedere le cose demenziale per la nostra ubicazione geografica, economica, storica. Puoi dirglielo pure, senza giri di parole, che siamo spacciati.

Monti di Reggio Emilia

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Non se se vi è capitato di sentire il discorso di Mario Monti ieri in occasione del 215esimo anniversario del Tricolore (la bandiera, non la fiamma) a Reggio Emilia. A parte immaginarsi come avrebbe potuto condurre un intervento del genere la persona che lo ha preceduto nella stessa carica, per usare una locuzione veltroniana. Ma questo è il punto: l’aver trattato un insieme così apparentemente eterogeneo di temi riconducendo nello stesso discorso la storia, il presente e il futuro dell’Italia, immaginarsela non solo nel 2021 ma anche nel 2051, l’economia e il risorgimento, la manovra e la bandiera. E ogni volta che gli sento proferire qualche passaggio a proposito della caducità del suo mandato, e lo ha fatto anche in questa occasione, sento che mi manca già. Sarà difficile tornare indietro dopo questa esperienza, sarà un vero trauma quando riprenderà la campagna elettorale.

cominciamo bene

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Il livello di una civiltà lo si evince anche dal tenore degli artisti ospiti nella trasmissione tv della notte di Capodanno sulla rete ammiraglia, quella che uno tiene come riferimento solo per gli ultimi centottanta secondi di conto alla rovescia, giusto per essere sincronizzati con il resto del mondo e poi, anziché spegnere, lascia lì perché è da non credere.


(nemmeno i Gipsy Kings veri ci possiamo permettere)

(la prima poesia per il nuovo anno)
(prima o poi riusciranno a liberarlo quel benedetto pensiero che da quarant’anni, questi qui, hanno chiuso chissà dove)

lettere dal carcere

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cosa hai intenzione di fare, uomo bianco?

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E comunque in epoche come queste di rigurgiti nazionalsocialisti, destre estreme che spuntano come i funghi venefici, apologie di svastiche, tatuaggi del fuhrer, gruppi apertamente nostalgici e altri che nicchiano ma al secondo bicchiere sono tutti tesi con il braccio in aria, non c’è niente di meglio che una soluzione finale alla John Belushi.

natura morta con stella di natale

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Esci da un teatro parrocchiale dopo lo scambio di auguri tra le società sportive legate all’oratorio, tra cui la squadra di volley di tua figlia. Dopo due ore di canti di amore tra i popoli e parole di solidarietà, dopo la presentazione delle atlete e l’esibizione della scuola di danza che spero sia anche servita ai genitori delle aspiranti ballerine meno dotate come campanello d’allarme per indurli a scegliere attività più alla portata delle loro figlie, dopo la tombolata benefica i ricchi premi e i cotillons con preti e seminaristi, lo spettacolo finisce, ti avvii verso l’uscita, attraversi il foyer in quell’ambiente così pervaso di cristianità e ti capita l’occhio sul tavolo del salottino. E non puoi non fare una foto, mentre la gente intorno si chiede perché tu la stia facendo.