due o tre cose che vengono in mente dopo i titoli di coda

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Il successo del nuovo film di Sorrentino ha dimostrato come se non ce fosse il bisogno che c’è una sola proiezione possibile ed è quella in avanti, potremmo cioè fornire qui di seguito una efficace sintesi delle tematiche di “Youth” ovvero: giovinezza un cazzo, abbiamo le ore contate, nel peggiore dei casi ti portano i fiori in una struttura per i malati di Alzheimer ma, manco a dirlo, in quel caso difficilmente te ne accorgi. Spero che l’uso del termine proiezione in ambito cinematografico non vi abbia tratto in inganno, questa volta il gioco di parole non c’entra. Ho cercato così in rete alcune alternative alla depressione in cui possiamo incorrere se ottemperiamo a questa prospettiva, fermo restando che il miglior rimedio resta comunque appendere se stessi al chiodo e immolarsi al futuro altrui così ti distrai un po’ (figli, prossimo, cause comuni e, perché no, animali), anche questo è un punto di vista rispettabile. Ma se preferite rimanere nel vostro orticello il primo suggerimento è lasciare il telefono sempre acceso, perché spegnerlo significa perdere delle opportunità, ti chiamano per l’occasione della vita che può riguardare la sfera personale o professionale e magari lo fanno da un fuso orario sfavorevole per noi, com’è il dollaro oggi. Tu dormi e quelli dall’altro capo della linea sentono che al momento non sei raggiungibile, così chiamano senza pensarci su quello dopo nella lista e ciao. Si tratta di un caso differente dal classico “un produttore viene a sentirmi per caso mentre canto le mie canzoni al pub sotto casa” o “scrivo cose in Internet e un facoltoso agente letterario mi scopre e mi finanzia il primo romanzo” perché se qualcuno ha il tuo numero vuol dire che cerca proprio te, per questo è meglio stare sempre pronti e indossare biancheria pulita e calzini senza buchi. Senza contare che, per qualsiasi evenienza, vi godrete il lusso di non dover inserire il PIN ogni volta. La seconda alternativa è che se ritenete di aver talmente bisogno di parlare con qualcuno fate prima a inventarvi gente che vi fa domande e a costruirvi dialoghi con i controcazzi. Scambi di opinioni su misura. È una pratica che aiuta. – “Ne sei sicuro?”.

storia di un’impiegata

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L’impiegata allo sportello e io siamo al limite del flirt mentre ai due lati opposti del suo laptop stiamo ingannando l’attesa mettendo insieme una lista delle canzoni più adatte da ascoltare quando ti svegli e piove e vivi in una civiltà sufficientemente evoluta in cui non sei tenuto ad essere produttivo se fuori c’è brutto tempo. Le casse del computer non sono granché e in più poco dietro, accampata sui divanetti sfondati della reception – le cinquanta sfumature di tagli alla pubblica amministrazione si vedono anche da questi apparentemente piccoli dettagli – una famiglia è in attesa del proprio turno ma uno dei figli riesce a esprimersi solo attraverso versi che rientrano nella categoria dei muggiti e qui, io e lei così vicini al pc, sembra aumentare il grado di intimità. Non è facile decidere una playlist del genere, le faccio presente dall’alto della mia competenza in materia, perché cadere nelle solite lagne malinconiche trite e ritrite è facile. Faccio di tutto per riportare alla memoria condivisa anni di ascolti crepuscolari con la perfezione filologica che mi contraddistingue, talvolta lasciando persino sgomenta la coautrice di quella compilation improvvisata. D’altronde è un classico. Si cerca di colmare lo svantaggio della differenza di età con il bluff che ne sai più di chi è più giovane ma è una amara consolazione e lo sanno tutti. La cosa però sembra andare per le lunghe. Il suo collega sembra metterci più del tempo necessario a trovare il mio libro nel magazzino. La colpa è solo mia: proprio stamattina in cui devo trascorrere quasi due ore di viaggio in treno per lavoro mi sono dimenticato il romanzo che sto leggendo sul comodino, e per fortuna che tra i servizi che sono rimasti dopo lo scempio che è stato fatto dello stato assistenzialista è rimasto questo. Se hai lasciato qualcosa di estremamente importante a casa vai all’ufficio “Oggetti Remoti” e loro te lo recuperano nel formato originale e in tempo reale. Non chiedetemi come sia possibile, questo è un racconto di fantasia e non sono certo tenuto a spiegarlo a voi. C’è proprio la sede di quartiere a un paio di isolati dalla stazione, e considerata la gravità del caso è giusto approfittarsene. E poi lasciatemelo dire: pago le tasse alla fonte in quanto lavoratore dipendente e, come dice un certo elettorato presuntuoso e grillista, gli impiegati pubblici sono al mio servizio. Vedete la famiglia rumorosa qui dietro alle mie spalle? Loro hanno una visita ortopedica per il figlio che muggisce, ma hanno scordato le lastre al piede nello zaino del papà, nel suo ufficio. Era o no l’unica cosa a cui pensare prima di recarsi all’appuntamento? Lo so perché per loro la procedura è un po’ più lunga, ci sono tutte le menate della privacy in ambito ospedaliero e sanitario, ed è per questo che il ragazzino che chissà di quali problemi soffre si sta innervosendo, e io con lui. La storia finisce qui. Il commesso riemerge con il mio libro così firmo la ricevuta e mi accomiato dall’impiegata il più in fretta possibile per evitare di dare adito a qualunque equivoco di interesse nei suoi confronti. Mi vedo già: io e lei seduti in un bar a bere qualcosa e a non guardarci negli occhi, con lei che si vede che è lì controvoglia ma non sa spiegarsi perché ha accettato l’invito.

sto per fare un quarantotto

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Sapete bene l’inglese? Come si traduce “la vita è un blister non infinito ma piuttosto lungo (si spera) con quell’intelligente invenzione che ogni cavità che contiene la pillola della serenità ha accanto l’indicazione del giorno in cui si deve assumere”? L’ipertensione, per esempio, si combatte con uno di questi sistemi ed è proprio così – con la ciclicità con cui ogni giorno alla stessa ora devi ricordarti il dosaggio quotidiano – che osservi il blister e pensi che sono già passati quattro giorni dall’ultima confezione che hai aperto, un anno da quando hai dimezzato la posologia grazie a una vita più sana, tre anni da quando mi è successa questa cosa qui, quattro da quando mi è venuto il capogiro sulle Dolomiti che ha fatto suonare un campanello d’allarme e così via. Maggio, lo sapete, è il mese mariano per i credenti e il mese del mio compleanno per i miei venticinque lettori, e a botte di capsule per la pressione, unguenti anti-infiammatori a protezione dalle tendiniti e dagli altri acciacchi che per i podisti fai-da-te sono all’ordine del giorno, non c’è più tanto da scherzare. Senza contare il fattore memoria: se ci scappa di dimenticare la pastiglia quotidiana non è un problema ma è possibile che l’effetto di una cura prolungata svanisca, ed ecco perché bisogna tenerle in un punto in cui ci si sofferma con frequenza, così ogni giorno a quella tal ora ci viene in mente. Mio papà le portava sempre nel taschino della camicia, per dire, un metodo fin troppo zelante. Ma nella metafora che sottende a questa ennesima teoria ciarlatana, a botte di quindici giorni alla volta si fa presto a perdere la nozione del tempo. E vi ricordate, invece, di prendere la pillola, quella con P maiuscola, sempre che si usi ancora e la medicina non abbia trovato nuovi sistemi per evitare gravidanze indesiderate? Quella sì che è bene tenerla a mente con una sveglia quotidiana. Ricordo metodiche strategie di coppia per tener fede a quel patto biologico, d’altronde la pillola anticoncezionale è un vero e proprio progetto a due, almeno a me è rimasta questa immagine, e magari se sei sola non ce n’è nemmeno il bisogno ma potrei confondermi in quanto non direttamente interessato. Poi di botto interrompi e, a noi è successo così, tempo un mese e ti trovi un potenziale inquilino che cresce dentro al tuo partner, con altri giorni da contare uno dopo l’altro fino a quando, se è femmina, inizierà anche lei con una sua ciclicità che – e a me è successo proprio la settimana scorsa, mia figlia ha undici anni – sembra sempre troppo presto, per un padre. Cose che finiscono e poi ricominciano, funziona sempre così anche se a volte non ci si fa proprio caso.

scegli il punto d’inizio o fai clic sulla mappa

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Se passate in questo momento davanti ai gradini della chiesa di San Francesco da Paola, in via Manzoni a Milano, potete vedere seduti – probabilmente in cerca di quel riposo da turista che ti induce ad appropriarti di qualunque elemento architettonico pubblico su cui cercare ristoro, cosa che a casa tua non faresti mai – due uomini e una donna di dimensioni mai viste. Dev’essere la dimostrazione che non abbiamo ancora conosciuto tutto, che ci sono popoli della terra che non avremmo mai immaginato di incontrare prima che la modernità accorciasse il pianeta, dopo aver abbreviato il secolo scorso e ridotto il prodotto interno lordo della maggior parte degli stati europei.

Mi avvicino per capire le reali proporzioni di questa famiglia di giganti e raggiungo la certezza che non si tratta di una illusione ottica dovuta a qualche effetto di realtà aumentata. Sono persone in carne e ossa che, già da sedute, sono alte come me che comunque sfioro il metro e ottantasei. Scommetto che il padre, sulla cinquantina, porta un numero di scarpe corrispondente a una lunghezza di piede non esistente in natura. La madre ha le braccia lunghe come i gonzi di Braccio di Ferro e il figlio adolescente già supera tutti gli altri. Mi chiedo da quale repubblica baltica possano provenire, è l’unica spiegazione che riesco a dare, ma questo non mette freno all’entusiasmo della novità che è un po’ come lo stato d’animo che devono aver provato gli esploratori che, lungo la storia, sono entrati in contatto con popolazioni autoctone nei luoghi scoperti per la prima volta. Noi invece siamo qui ancora a disgustarci per l’odore delle pelli non pallide come la nostra, pensate come siamo messi.

E se passate in questo momento e mi confermate la straordinarietà dell’evento mi potete tranquillizzare sul fatto che non è perché sono reduce da una specie di attacco di panico. Ho appena concluso un sopralluogo in uno spazio che domani ospiterà una conferenza durante la quale dovrò occuparmi di alcune interviste video. Un posto fighissimo tutto fatto a scale su vari piani ma all’interno di un loft spropositato, praticamente al buio con sprazzi di luce molto zen che si aprono su complementi d’arredo per bagno. Ma mentre valutavo gli angoli più adatti da usare come location per le riprese – si dice così – mi sono perso. Ho chiesto ben due volte come si facesse a uscire di lì e mi hanno pure indicato la strada ma ormai era troppo tardi. Ho iniziato a sudare copiosamente e siccome mi vergognavo di chiedere di essere accompagnato o ad ammettere che ero spacciato, potete immaginare la tipologia di persone che lavora in quegli ambienti usi a ospitare eventi di moda e design, ho fatto finta di rispondere al telefono per ostentare quella distrazione che impedisce ai maschi di fare due cose contemporaneamente. Dicevo forte, come se parlassi a qualcuno, di aspettare che mi ero perso, nel frattempo lanciavo sguardi di complicità a due receptionist con le sembianze da modelle orientali che ci sono cascate e, con aria di chi compatisce le persone quanto interpretano alla perfezione uno stereotipo, mi hanno indicato la rampa di scale corretta per fuggire da quel labirinto che sembrava ispirato da una incisione di Escher.

Finalmente mi sono trovato fuori, in via Manzoni. Ormai però mi ero affezionato al mio ruolo di finto interlocutore telefonico. Al mio amico immaginario, ubicato a un inesistente altro capo della linea, ho raccontato che avevo preso un granchio, e quella tizia che davo per scontato fosse un architetto, quella con la borsa di Artemide con la schiscia dentro che vedo ogni mattina, in realtà lavora in amministrazione di una sorta di agenzia immobiliare. L’ho scoperto perché ho camminato davanti a lei mentre era coinvolta in una specie di colloquio al telefono.

Nel frattempo si è alzato un vento anomalo che ha contribuito ad asciugare un po’ la camicia fradicia dalla paura che mi sono preso prima, in quel posto da incubo in cui dovrò trascorrere l’intera giornata di domani. Il resto lo sapete, e se passate in questo momento davanti ai gradini della chiesa di San Francesco da Paola possiamo chiedere insieme a quella famiglia di spilungoni di mettersi in piedi, per capire davvero quanto sono in grado di surclassarci.

andate a giocare fuori che è una bella giornata

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Vabbe’ ragazzi se avevate già capito tutto tanto di cappello e buon per voi, io sono lento e idealista e ci sono arrivato solo ora. Ma quelli che fra cento anni studieranno i nostri comportamenti si chiederanno perché agli inizi del secolo era stato istituzionalizzato un intero sistema per non fare un cazzo. Se non ci credete potete partire dalla vostra occupazione in questo momento, e mi ci metto pure io nel mucchio. Perché io sto scrivendo e voi state leggendo. Poi vedo sopra diverse finestre del browser aperte con tutti i vostri social network preferiti, poi la posta, un sito di informazione generalista. Ho capito che state annuendo, comprendendo, condividendo, partecipando, commentando, aggiornando il vostro status, scaricando, twittando, restituendo un poke, bannando, stalkerando, il tutto contemporaneamente e con quella manciata di neuroni sopravvissuti a una giovinezza passata davanti alle reti Mediaset. Ma quindi? Mi fate per cortesia vedere il prodotto fisico del vostro barcamenarvi digitale? Avete visto che avevo ragione? Non c’è nulla. Non rimane niente. Siamo peggio del settore terziario, che come si impara alle elementari è quello dei servizi e delle attività complementari, e ben oltre quello quaternario della attività intellettuali. Siamo ben irregimentati in un quinquenario dove spendiamo tempo, soldi, energia e anche salute nel vuoto cosmico perché se guardate bene non produciamo nemmeno letteratura. Basta mandare in crash il pc o un server che collassa o lo Zuckerberg di turno che decide di chiudere i rubinetti che tutte le nostre intuizioni si perdono altro che come lacrime nella pioggia. È tempo di morire, giusto per completare la citazione. Una metafora per dire che tutta questa digitalizzazione della nostra vita ci alza la pressione, ci snerva, ci fa sentire impotenti quasi quanto quando andavamo a messa e recitavamo i nostri mantra per dirottare gli aspetti più dolorosi del presente verso una dimensione più accettabile. La schermata blu di Windows 8 con le palline che girano per farsi osservare nella speranza che tutto torni come prima che il pc si piantasse è una discreta metafora. Ma oggi siamo ancora più insignificanti e mortali al cospetto della musichetta del call center della Tre che ci mette in attesa e che poi scopriamo non avere nemmeno un’opzione per farsi passare un operatore. Volendo possiamo anche decidere di suicidarci così, non mangiare non bere non respirare e lasciarci andare fino a quando dall’altra parte del telefono qualcuno si decida finalmente a fare qualcosa per noi.

non è star sopra un albero

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Probabilmente non è l’unico, nel senso che non è universale, non è un elemento chimico, e sono sicuro che ogni epoca ne ha avuto uno in particolare. Il lubrificante con cui si puliscono le armi e la polvere da sparo, andate a chiederlo a chi ha dovuto combattere. Ma senza fare paragoni imparagonabili, c’è anche l’essenza dell’emancipazione e persino l’aroma dell’hashish. Ma è anche un fattore personale, ognuno ha il suo e così vi piaccia o no ma per me il vero profumo della libertà è la pittura sui muri, quando si vede che non è più fresca ma si sta asciugando ed è primavera inoltrata e ci sono le finestre aperte per far entrare il sole e farla asciugare ancora più in fretta. Magari poi sono muri spessi perché portanti e di edifici del secolo scorso o ancora più vecchi. Comunque la vernice, in questo mio quadretto sinestesico o multi-sensoriale, è bianca e abbaglia quasi per il sole che ci si riflette, in attesa che le pareti accolgano i mobili rigorosamente di risulta lungo stanze che quando sono ancora vuote sono tutte da ispezionare. Con un sedia provvisoria è bello provare a sedersi ovunque nell’appartamento deserto e immaginarsi i punti che poi saranno quelli dove troveranno posto il divano, le poltrone, i cuscini da terra e tutto quello che serve per adoperarsi nel fare le cose che si fanno da fermo. Leggere, ascoltare i dischi, conversare con gli ospiti, guardare nel silenzio. E negli angoli, in cui convergono più pareti, l’odore dell’imbiancatura trasuda qualche anticipo della vita che si consumerà lì dentro. Con il freddo, con il sole dell’estate, con le attese della stagione successiva e la malinconia di quelle appena trascorse. La libertà ha anche un suo rumore, lo sapevate? Per sentirlo però dovete uscire dalla vostra casa nuova, appena fresca di vernice e di contratto di affitto. Dovete salire su un treno di quelli un po’ da gente povera, e badate che non so nemmeno se ce ne siano ancora. Sono i treni senza aria condizionata, che quando si riempiono di viaggiatori o quando fa caldo si tira giù il finestrino. La corsa del treno, fuori dalla città o in riva al mare o nella campagna dubbia (la campagna dubbia è quella che non sai bene se sia periferia vittima dell’incuria o reale natura incontaminata dall’urbanizzazione) con il fracasso dei finestrini aperti, dai quali è rigorosamente vietato gettare oggetti, per me è il vero suono della libertà, un tumulto assordante con le tendine che volano e i passeggeri che urlano per farsi sentire dagli altri ma alla fine si vede che è un modo per sincerarsi che è vero, sta succedendo realmente a tutti quanti e non c’è niente che possa fermare il viaggio.

quando sembra che proprio non si possa cancellare

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Se fingi di non ricordarti di una persona quando la incontri a distanza di vent’anni obiettivamente non ci casca nessuno. Le bugie di questo tipo hanno altro che gambe corte. Hanno gambe fiaccate dalla flebite e strette in calze contenitive color carne, e a malapena riescono a muovere un passo, tanto per iniziare. Questo perché si è accorciato tutto e tutto è a portata di mano in questa dimensione che ha Internet come unità di misura, hai voglia a dire che l’universo è in espansione. Potete risparmiarci la scena che non riuscite a collocare persone in situazioni perché si fa fatica rovistare nel passato, un po’ come quando uno è in macchina, deve prendere qualcosa dietro ma ha le cinture e non ci riesce perché non può slacciarle. Possiamo solo simulare l’efficacia di atteggiamenti come questo nella narrativa o al limite raccontare balle a quelli che si bevono ogni cosa. Me, per esempio.

“L’idea mi è venuta l’ultima volta in cui sono stato da Mino per tagliarmi i capelli”, mi dice Bianchi, e se Bianchi lo chiamo per cognome un motivo ci sarà. Io e Bianchi ci conosciamo dalle elementari e Mino è il nostro parrucchiere da allora, anzi lo è stato fino a quando ha chiuso definitivamente bottega. “C’era Morra appena uscito da uno shampoo ma visto al contrario allo specchio, lui che è così asimmetrico, mica l’ho riconosciuto”. Le facce dei clienti uomini in momenti come quelli sono infatti già di per sé irriconoscibili, deformate da occhiaie e pettinature provvisorie utili solo a chi taglia i capelli e si deve concentrare su una porzione di testa ben circoscritta. Quando usavo la riga da una parte, per dire, mi sembrava persino che mi facesse male se Mino mi forzava il ciuffo dal lato opposto, ma onestamente ero più preoccupato che l’essere tutto al contrario potesse diventare una condizione permanente.

Morra – è un nomignolo – dopo il liceo era entrato in Polizia ma prima di indossare la divisa era noto per essere il fornitore di droghe leggere più falso della zona. Bianchi ed io cercavamo di evitarlo già da allora ma più per il suo aspetto repellente che per il suo modo di racimolare soldi per i vizi – avete presente quelli secchi, con la faccia butterata e i riccioli fittissimi che indossano abbigliamento sempre troppo largo? Poi una sera, fuori come non so che cosa, si era divertito a storpiare il mio cognome in modo infantile – eravamo ragazzini. Tutti ridevano e io ero andato su tutte le furie. Un episodio che a Bianchi non risulta nemmeno ma a me si. C’era Morra con la chitarra dodici corde che suonava i pezzi di Vasco degli esordi cambiando le parole e componendo parodie sui difetti altrui.

Bianchi mi dice che stava raccontando a Mino i progressi di sua figlia quando sente la voce di Morra intromettersi nella conversazione. “Allora l’hai trovata una che ti ha scopato”, gli fa. Ora non hanno molta importanza i dettagli su come è finita tra Bianchi e Morra seduti nel negozio di Mino, che tagli hanno deciso di farsi fare e se Mino al termine della prestazione abbia rilasciato a entrambi lo scontrino, anche se sono pronto a scommettere di no. Aggiungo solo che Bianchi assume quell’espressione che gli viene quando deve concentrarsi e che induce a tutti la speranza che abbia capito qualcosa e dice una cosa tipo “Sai che non…” e per fortuna che interviene Mino, è anche il suo ruolo fare da intermediario tra i clienti. “Ma come, non conosci Morra?”. Ecco, allora ci ho provato anch’io con Mario. Malgrado avessi cambiato marciapiede pur di evitarlo, Mario mi ha chiamato e si è sbracciato pure per salutarmi pur avendo con sé la sporta della spesa. Ho stretto gli occhi come a simulare un calo della vista da lontano e Mario, che tutto sommato è sempre stato umile a suo modo e sa di non essere mai stato indispensabile, ha sollevato il collo come a mostrare meglio il capo e ha dichiarato ad alta voce nome e cognome, tanto che a quel punto non ho avuto altra scelta.

a quattrocchi

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Non ho mai portato occhiali in vita mia fino a quando il gesto di allontanare le etichette dei prodotti o altri testi con caratteri minuscoli per capire cosa ci fosse scritto, visto che il contenuto non mi era più evidente, ha reso però evidente anche a me – oltre a chi mi consigliava una visita oculistica – che ormai avevo traguardato il punto di non ritorno della presbiopia senile.

La prima difficoltà da superare era quella della scomodità di un accessorio da indossare, e chi non porta bracciali o collane sa di cosa parlo. Uno strumento da tenere tutto il tempo appoggiato sul naso – e che naso – per me è fuori discussione. Non ho mai portato nemmeno occhiali da sole, per lo stesso motivo, tanto mi danno fastidio. Lo smacco è stato anche sul fronte estetico. Visti addosso agli altri non sono nemmeno male, poi c’è tutta una letteratura sulle montature in un modo o nell’altro, ciò non toglie che il preconcetto di protesi è difficile da superare e non è il caso che mi ricordiate che è un modo di pensare da ignorante e zotico.

E non dovete nemmeno pensare che non voglia accettare l’età che avanza e tutte le conseguenze che ciò comporta al nostro corpo. Non è certo il disfacimento fisico la cosa che mi dispiace di più della vecchiaia, piuttosto la sempre più scarsa resistenza allo stress. A voi non capita? Non ho più trent’anni nemmeno sul lavoro, quando tiravo otto ore di problem solving e anzi facevo straordinari, notti e weekend per rispettare scadenze, soddisfare clienti e garantire fatturato ai miei datori di lavoro. Ora mi perdo per un nonnulla, se qualcuno alza la voce mi si blocca il respiro e non riesco a rispondere, ho la pressione alta e mi vengono le scalmane a una certa ora del giorno, un campanello d’allarme che mi ricorda che è meglio spegnere il pc. Ma qui gli occhiali aiutano ben poco.

Comunque alla fine li ho messi – ormai sono diversi mesi, anzi, quasi un anno. Un bel modello di Ray Ban grigi con lenti da lettura, ma non vi nascondo la delusione. Mi aspettavo chissà quale tecnologia e invece altro non sono che lenti d’ingrandimento come quelle che usavo per gioco da bambino per la mia raccolta di francobolli. Non so dirvi che cosa mi aspettassi, probabilmente tutte queste dicerie sui Google Glass ci hanno fatto perdere il senso delle cose.

Ma dall’altro lato mi hanno dato un soddisfazione inaspettata, e cioè che quando distolgo l’attenzione dal libro o dallo schermo del computer e mi guardo intorno fanno sembrare tutto più grande. Lo smartphone con lo schermo da 5 pollici sembra un phablet e mi fa sentire più ricco. Le mani delle altre persone hanno la grandezza di quelle di Gianni Morandi. Succedono anche cose divertenti. Ieri mattina, mentre leggevo in treno, con la coda dell’occhio vedevo l’uomo di fronte a me con una pancia gigantesca che però, senza occhiali, era assolutamente nella norma quanto la mia. La sua collega, che sedeva al suo fianco, sembrava avere una sesta abbondante di reggiseno e la cosa strana è che, in questo caso, anche se non mi sono potuto soffermare troppo su quel particolare per non sembrare poco discreto, le dimensioni a occhio nudo erano comunque abbondanti.

Mi sono anche adattato a fare quella smorfia con cui si inclina il capo, si lasciano scivolare di poco gli occhiali lungo il setto nasale e si stringono gli occhi sopra la montatura quando si guarda lontano, proprio come fanno i nonni che leggono il giornale al circolo, avvertono che si è aperta la porta e controllano che stia entrando qualcuno di valido per poter iniziare a giocare a carte.

#settimanadimerda

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Cosa volete che vi dica. Quando inizia una #settimanadimerda è facile accorgersene. Intanto perché comincia di lunedì, anzi, di lunedì mattina. Poi piove, e se c’è stato qualche accenno di bella stagione nei giorni precedenti potete anche scordarvela. La #settimanadimerda è di per sé piuttosto fredda e umida. I gatti amano vomitare all’alba di una #settimanadimerda. Lo fanno e poi si precipitano a condividere il loro malumore con i loro schiavi umani, ancora prima che suoni la prima sveglia della #settimanadimerda. Così il primissimo pensiero non lavorativo di una #settimanadimerda con tutti i crismi è il contraccolpo che avrebbe l’orbita terrestre se improvvisamente tutti i dispositivi di storage del mondo mondiale si alleggerissero delle foto di gatti degli utenti dell’Internet. Perché invece di pensieri lavorativi al risveglio che prelude a una #settimanadimerda ce ne sono già stati parecchi, avete presente no come si lavora di brutto di notte quando c’è l’ansia di quello che aspetta la mattina dopo? Ecco l’unica strada percorribile per la vera ripresa di questo paese e l’uscita dalla crisi economica globale. Tutto il lavoro che sbrighiamo nel dormiveglia tra la domenica e il lunedì di una #settimanadimerda probabilmente è in grado di raddoppiare la produttività e recare beneficio alle aziende in cui prestiamo servizio. Magari rilanciare i consumi. Diminuire lo spread. Ridurre il deficit. Aumentare l’occupazione. Iniziamo così a far fruttare le notti precedenti a una #settimanadimerda come questa, cominciamo a tassare anche questa operatività che ormai abbiamo nel sangue e che non ci lascerà mai più, mannaggia a “Tempi moderni” e all’esaurimento da civiltà industrializzata che da allora, seppure con macchinari diversi, è diventato sempre più alienante. Ma dove pensiamo di andare, se abbiamo davanti a noi solo delle #settimanedimerda? Non faremo tanta strada, impareremo a non coricarci più piuttosto che soffrire così per quello che facciamo, che non abbiamo fatto e che abbiamo lasciato da fare pensando che comunque avremmo dovuto farlo, senza scampo. Spegniamo i nostri sogni di affrancamento, consumano davvero troppo. Buona #settimanadimerda a tutti.

telelavoro estremo

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Mi ha detto anche che l’altra sera, mentre seguiva distrattamente un telefilm, è squillato un telefono in una scena con la stessa suoneria che ha in ufficio e si è messo immediatamente in allarme, pronto a rispondere. Non ci è voluto poco per tranquillizzarsi del fatto che fosse fuori dall’orario lavorativo e a casa, ambiente in cui ha ben altri segnali a cui prestare attenzione. Ha ammesso di aver trascorso una manciata di secondi ad annaspare con lo sguardo in giro alla ricerca del telefono che ha sulla scrivania in agenzia come una qualunque bestia oggetto di un esperimento di tipo pavloviano. Alla fine ha dichiarato con amarezza di essersi sentito preso in giro ma non dal sistema, perché sa bene che il sistema non esiste. Ha pensato di avere ormai perso il controllo di una parte di sé, una sorta di emiparesi della volontà dovuta ad anni di sollecitazioni da stress sul posto di lavoro. Cose all’ordine del giorno. Così ho pensato che fosse meglio spegnere la tv e fare altro. Perché si inizia con i rumori e i suoni e poi si passa alle visioni, alle allucinazioni, i miraggi, le traveggole. Poi ti viene voglia di fare i versi, di parlare da solo, di cercare cose che non ti ricordi di aver gettato via o regalato a qualcuno. Così quando è suonato il mio, di telefono, pochi istanti più tardi, ho preferito non rispondere. Ho riacceso la tv, tanto avevo ormai ben presente in mente la differenza tra la suoneria di casa e quella del lavoro, ma nel dubbio ho cambiato canale su uno spettacolo in cui non c’era pericolo che quel paradosso si manifestasse.