qui è quando ti leggevo la storia di clorofilla

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Io e molti altri allocchi dell’interweb che ci siamo fatti menare per il naso dalla colonnina delle stronzate di Repubblica con tutti i suoi numerosi “guarda tizio che si è fotografato tutti i giorni per 10 anni in cinque minuti”, roba che Auggie Wren faceva già nei primi anni 80 e con una macchina a rullino peraltro rubata in quel modo che sappiamo tutti noi, ormai siamo fuori tempo per tentare esperimenti nerd di quel tipo. Pensavo di fare una cosa simile con mia figlia, dalla prima foto scattata pochi minuti dopo la nascita in poi, ma non avevo fatto i conti con alcuni fattori a partire dalla ritrosia con cui gli adolescenti amano farsi fotografare dai genitori, e nemmeno oggi che stiamo sempre con lo smartcoso in mano pronti a cogliere questo o quell’attimo riusciamo nell’intento di immortalare con l’effetto sorpresa qualcuno, figuriamoci chi passa il tempo a ciacolare sul Whatsapp e che ha fatto dei dispositivi touch una specie di protesi della propria esistenza. Qui in casa abbiamo persino dovuto cedere su alcune stampe di momenti gloriosi del nostro supporto genitoriale e che erano appese a imperitura memoria: il papà (che poi sarei io) in mare con la bambina (che poi sarebbe lei) in una sequenza di scatti che testimonia l’abnegazione con cui certi genitori si sottopongono alle peggio angherie per far trascorrere nel migliore dei modi possibili il tempo ai loro figli. Questo per dire che il numero di foto scattate annualmente a mia figlia, che ai tempi d’oro era di migliaia e giuro che non scherzo, ora si è ridotto drasticamente. Qualche azione durante le partite di volley che poi vengono sempre mosse perché non sono capace, momenti classici come il primo giorno di prima media, qualche foto di famiglia al pranzo di Natale. Quest’anno per dire non ne abbiamo scattata una nemmeno a capodanno, perché per la prima volta mia figlia ha trascorso la notte a casa della famiglia di un’amica. Mia moglie ed io siamo così ufficialmente passati alla fase della foto di quando era più piccola sul desktop del computer al lavoro, dei portaritratti sulla scrivania in ufficio, delle fototessere nel portafogli. Si chiamano anche istantanee, d’altronde, e mai come in questi casi si capisce perché qualcuno gli ha dato un nome così crudele.

una volta amavo i cambiamenti, poi sono cambiato e ho smesso

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Una volta amavo i cambiamenti, poi sono cambiato e ho smesso. Potrei finire così, vincitore nella categoria degli autori di pensieri compressi che sono quelli che vanno per la maggiore. Ma invece voglio surclassare con stile voi e tutti gli aforismi sul cambiamento con cui riempite i vostri socialcosi e che, manco a dirlo, hanno rotto il cazzo. Il cambiamento è quasi sempre in peggio, chi lascia la strada vecchia per quella nuova sapete meglio di me dove va a finire. Il cambiamento è inevitabile ma possiamo scegliere quando e come farlo, dice uno e l’ho letto proprio poco fa. Ah si? Siete proprio sicuri di avere abbastanza pelo sullo stomaco da discernere la scelta più appropriata gestendo il panico? O ancora sentite queste, fresche fresche di aggiornamento di status. “Sii come la fonte che trabocca e non come la cisterna che racchiude sempre la stessa acqua”. Ma come? E poi se ai vicini di sotto gli si allaga la casa? “Non avere mai paura di tentare qualcosa di nuovo. Ricorda: dei dilettanti costruirono l’arca mentre il Titanic fu costruito da professionisti”, ho letto pure questa. Vogliamo scherzare vero? Crediamo ancora alle favole e alla fantascienza? “Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”. Certo, ne riparliamo poi comodamente spiaccicati sul parabrezza. “La logica vi porterà da A a B. L’immaginazione vi porterà dappertutto”. Giusto, poi ti svegli e se il treno è in ritardo al lavoro ci arrivi già con i coglioni che ti girano. Ecco perché vi dico che una volta amavo i cambiamenti, poi sono cambiato e ho smesso. E mi limito solo ad aggiungere che da allora non mi è stato più possibile tornare indietro, d’altronde si tratta di una di quelle decisioni irrevocabili, se non la meno riconvertibile per antonomasia. Ancora oggi non chiedetemi di cambiare le cose, e questo stallo globale termonucleare in tutti gli scenari che hanno l’onore di ospitarci – parlo della vita privata, del lavoro, degli interessi, delle passioni, del cibo, della musica, della narrativa, degli hobby, del tessuto che compone il nostro corpo e di tutto il resto verso il quale ogni mattina ci promettiamo di intervenire per non morire di routine ma che invece lasciamo lì immutabile tra i cimeli della nostra esistenza – dicevo questo stallo globale termonucleare in tutti gli scenari che hanno l’onore di ospitarci e che ci fiacca con quella sorta di sostanza collosa là fuori che tiene in scacco esseri viventi, non viventi e quelli a metà, gioca a mio favore. Potete stare sereni che tanto nessuno svolta da nessuna parte, e se lo fa se ne guarda bene da mettere la freccia in tempo.

avevo la verità in tasca ma poi ho portato la giacca in tintoria

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E la verità è rimasta lì da qualche parte perché sta a noi svuotare le tasche prima, e sapete che nessuno fuori dal proprio orticello risponde di niente quindi se hai lasciato qualcosa che si rovina sono affari tuoi. Ma secondo me, con la crisi e la fame di verità che c’è dalle nostre parti, qualche inserviente un giro di mani nelle tasche lo ha fatto, l’ha vista e se l’è messa via. Come biasimarlo? Avrei fatto lo stesso io, e sai che fortuna se ti capita una verità senza spendere nemmeno una lira? Ecco: se dai per scontato che dalla parte del torto ci sono io, e solo perché avevo la verità in tasca ma poi ho portato la giacca in tintoria e o se l’è presa qualcuno oppure ha fatto la fine dell’i-Pod che avevo messo in lavatrice con i pantaloncini da corsa, ecco spero che un giorno o l’altro una disdetta del genere capiti anche a te. Oppure no, magari ti cade per strada, mentre tiri fuori le chiavi della macchina dalla borsa, qualcuno la calpesta e si concia le scarpe nuove da buttare via. E questo è tutto.

dieci in condotta

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È la prof di matematica che ci porge la pagella, la prima della vita della scuola secondaria di mia figlia, come se si trattasse di uno scampolo di una stoffa rara o no, aspetta, una tela dipinta di fresco ed è meglio tenerla da sotto con il palmo per non guastarla. È una bella pagella, che dire? dice proprio così la prof di matematica, e così scorro in fretta, e vergognandomi anche un po’ del mio badare al sodo in certi momenti topici della mia vita, la colonna con i numeri scritti in lettere ed è lì che si manifestano tutti i limiti del sistema di valutazione didattico della scuola dell’obbligo, che non so come funzioni altrove ma qui è tutt’altro che uniforme. Arriviamo da un tripudio di dieci alla primaria e in un salto di qualche mese in termini temporali ma di ere evolutive in termini di criterio di giudizio ci troviamo di fronte a un paio di nove, quasi tutti otto e due sette.

Sì, è una bella pagella, che dire? e dice ancora così la prof di matematica. Quindi ricalca con il dito la sfilza di bei voti fino a portarsi sull’ultimo, un bellissimo voto come dice lei che è il coronamento di una bella pagella. Il dieci in condotta perché è una ragazza brava, educata, sempre sul pezzo. Così penso subito a cosa farsene, nella vita, di un dieci in condotta. Il dieci in condotta può anche voler dire che sei un muffone, un omologato, uno che non fai un gesto in disaccordo nemmeno se ti prude da qualche parte e ti devi grattare. Uno che non ride e non scherza perché deve stare sempre attento, seguire al dettaglio ogni passaggio per passare al dettaglio successivo e avere il quadro completo. Un yes man, o yes woman, uno che rispetta le regole. Se poi aggiungiamo il fatto che quella scuola è un concentrato di CL ecco spiegato perché il dieci in condotta è il massimo dei riconoscimenti. Compìti e ossequiosi nel rispetto del sia fatta la volontà altrui.

Ma no. A uno con il dieci in condotta i figli poi lo prendono in giro e gli dicono che a scuola doveva essere noiosissimo. Vuoi mettere quegli scavezzacollo con la cresta come usa adesso che sputano e dicono le cose più sconce, fanno le sagome con gli insegnanti perché a casa ogni occasione è un talent show a cui dare il massimo. Il dieci in condotta va al fedele servitore, al tenace impiegato di back-office che esegue la sua tranche di processo senza sconfinare con chi lo segue o impicciarsi di chi l’ha proceduto. Nessuno in famiglia ha mai avuto dieci in condotta, non scherziamo. Poi però me la immagino lì nel primo banco, mia figlia. Il senso di responsabilità, il misto di volontà di non prevaricare o mettersi in mostra e la timidezza, la serietà con cui inizia e porta a termine le consegne. Non so da chi l’abbia imparato, da me ho i miei seri dubbi, ma forse la chiave è tutta lì. Il dieci in condotta è il futuro, raga. Ripartiamo dallo saper stare al nostro posto.

cinquanta sfumature di canizie

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Il modo più efficace per sconfiggere la vecchiaia è la solitudine. Anzi la misantropia. Non vedere nessuno permette di limitare l’osservazione del tempo che passa solo su se stessi, cosa assai più lieve e sopportabile considerando che avendo noi stessi sotto gli occhi allo specchio ogni santa mattina non ci accorgiamo dei segnali. Il che non significa che dovete chiudervi in casa. Se vivete in una metropoli o una città più o meno grande potete stare tranquilli e continuare il vostro tran tran di beatitudine asociale perché difficilmente si incontrano più volte le stesse persone, o magari succede ma nessuno ci fa caso a meno di eccezioni eclatanti, come quella volta in cui due ragazze giapponesi mi hanno chiesto un’indicazione a Londra alle due di notte a cui ovviamente non ho saputo rispondere non tanto per la lingua – entrambi ci siamo spiegati in inglese – quanto per il mio inesistente senso dell’orientamento e la mia insulsa memoria geografica. Nemmeno un paio di giorni e ci siamo riconosciuti in una zona frequentatissima da turisti, forse un mercatino di Camden, tanto che posso assicurarvi che questo è diventato un mio cavallo di battaglia nell’anedottica generalista e non, potrei mettere la manu sul fuoco che l’ho già scritto altre volte qui e sono sicuro che da qualche parte nel mondo ci sono due ragazze giapponesi che sui rispettivi blog raccontano di aver incontrato un italiano a Londra per due volte e di aver tentato un approccio la seconda, in quanto palese segno del destino, ma che tale italiano ovviamente non ha capito o si è semplicemente emozionato lasciandosi prendere dall’eccezionalità dell’evento.

Come biasimarmi, del resto. Non facciamo caso a nessuno, figurati se notiamo qualcuno già visto altrove. Possiamo giocare a riconoscere i visi sfuggenti sugli autobus quando facciamo i pedoni fermi al semaforo rosso e pensare che domani, alla stessa ora, potremmo rivederli e così tra vent’anni trovarli ancora a ripassare di qui, canuti e grassi. Ed è proprio questo quello che risalta quando coltiviamo a lungo le amicizie, da ragazzi fino alla terza età ma vedendoci poco di persona perché magari uno vive fuori e l’altro è rimasto nella città di origine. Vecchi, grassi e canuti se non calvi, ci specchiamo negli affetti perché sappiamo che anche costoro sono pronti come noi alla comparazione delle esistenze. Se lui è messo così, anch’io non sarò da meno. Così c’è qualcuno che dice che l’isolamento magari incupisce un po’ ma per lo meno lascia le persone al proprio consumarsi senza termini di paragone, prendetelo come un avvertimento, mica che pensiate che è una mia idea o uno scoop, questo blog non è una testata giornalistica e grigia.

abbiamo provviste a sufficienza, grazie

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Di fronte alle immagini di una nevicata record in Svezia dove comunque vedi gli svedesi in giro in bici possono crollare tutte le certezze e i luoghi comuni circa lo sviluppo e l’efficienza dei paesi nordici. Voglio dire, che senso ha arrivare a un tale livello di civiltà per poi non poter nemmeno approfittare di un evento atmosferico eccezionale per tapparsi in casa a godersi il lato bello dell’inverno. Tutti noi sotto sotto coltiviamo il sogno nel cassetto di rimanere davvero bloccati in casa per qualche giorno a causa della neve, e non ci poniamo il problema che qualcuno là fuori debba comunque mandare avanti le cose in nostra vece. Assicurarsi che Sky non perda il segnale perché altrimenti poi barricati in casa che facciamo, spalare le strade prima che si scatenino gli indignati su Facebook contro il sindaco, la giunta, gli assessori, gli extracomunitari, gli zingari e i matrimoni gay che nessuno ha ancora sparso il sale e pulito i marciapiedi, o anche solo mandare avanti l’economia in modo che il camioncino dell’Esselunga possa raggiungere i destinatari della spesa on line. Siamo stufi però di sentire che in Norvegia funziona tutto con 12 mesi di ghiaccio l’anno mentre da noi bastano due fiocchi pasticciati che per fare da Milano Cadorna a Bruzzano un treno accumula trenta minuti di ritardo. Il freddo lo si deve prendere così com’è, non ci è data la facoltà di scegliere solo gli aspetti che ci vanno a genio. Ma se posso dire la mia, davvero qualche giorno di isolamento non mi dispiacerebbe. Trovare sempre il modo per superare gli ostacoli che ci pone la natura prima o poi si rivelerà controproducente, il che non vuol dire che bisogna credere a tutte quelle baggianate dei vaccini che fanno venire l’autismo o che con con la forza del pensiero si possono piegare le forchette. Chiedo solo di fare una pausa. Magari lo spazzaneve in strada ne ha accumulata troppa davanti alla porta di casa quindi non si riesce più ad aprire o, molto più realisticamente, ho le gomme talmente lisce che già la salitina per portare fuori l’auto dal box è impraticabile e siamo chiusi dentro. E niente, se avete bisogno di me, mi dispiace. D’altronde, come ho letto da qualche parte, è inverno, nevica.

nessuno ti avvisa quando è il momento di stare attento sul serio

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Non ci sono strategie vincenti per contrastare in modo efficace l’ingiustificata variazione di volume degli spot pubblicitari alla tv, è una ferita tanto al buon senso quanto alla tranquillità della routine del programma che si sta seguendo. Dovremmo così prendere questi attentati al nostro equilibrio come una palestra gratuita per allenarci ai repentini cambiamenti dello stato delle cose, quando si apre improvvisamente una finestra di qualcosa mentre stiamo facendo qualcos’altro. I colpi di fulmine in amore ma anche una storta che ti stende sul marciapiede nell’ora di punta.

Ho messo una foto di mio papà sul frigo e sapete, ogni volta in cui devo preparare la colazione o quando cerco l’Aperol per uno spritz della sera è come se si interrompessero le trasmissioni ordinarie e subentra uno spot di come erano le cose prima, con mio papà in vita, più giovane di come l’ho visto negli ultimi anni e soprattutto più in salute che mi guarda da chissà dove, ormai. E ogni volta un po’ mi vergogno perché poi, chiusa la porta del frigo per mantenere la temperatura bassa e limitare i consumi, devo tornare a quello che stavo facendo prima. Ma non sono uno di quelli che si mettono a parlare con le foto.

Non sono nemmeno uno di quelli che si sognano i cari deceduti. Mia nonna, la mamma di mio papà, perse un figlio di quindici anni. Mi raccontava che era giunta tanto stremata dal dolore da sognare il figlio morto – fratello minore di mio padre – nell’intento di rassicurarla. Una sorta di autodifesa, chi lo sa, oppure davvero un’interferenza dall’aldilà a tutela dell’equilibrio della madre: smetti di piangere, sto bene, non ti devi preoccupare di nulla. Da quel sogno mia nonna si era così impegnata a non versare più lacrime, pensate che storia. Per dire, io ero molto legato a mia nonna, quando è mancata ho sognato anch’io una sua visita ma mi sono messo subito a gridare nel sonno, tanto che mi sono svegliato e giuro che da allora non l’ho mai più sognata.

Ora qualche settimana fa mi è successa la stessa cosa con mio papà. Era in vita e bello in carne, come nella foto che mia mamma ha scelto per la lapide prima che la malattia lo consumasse. Ma era caldissimo, aveva la pelle così bollente che si percepiva anche senza toccarlo. Qualcuno, nel sogno, mi ha detto che mio papà stava male, così io mi sono ritirato in un’altra stanza di quegli ambienti completamente inventati dalla fantasia onirica e mi sono messo a piangere fino a quando non mi sono svegliato. Anche questi improvvisi cambiamenti di stato in cui prima dormiamo e poi ci destiamo ed è tutto diverso ma restano degli strascichi funzionano allo stesso modo, non hanno mai lo stesso volume emotivo e come prima cosa, quando accadono, ci viene subito da gettarci su un telecomando o su un interruttore on off per riportare tutto sotto i parametri che riusciamo a controllare.

suggerimenti per trascorrere al meglio i cinque secondi prima del flash

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La volete una considerazione un po’ amara? Ecco: i selfie saranno le fototessere del nuovo millennio. Prive però di tutto il rito associato, a partire dallo stare in due, tre o cinque uno sopra l’altro nella cabina fino al precipitarsi fuori per fare posto all’amico per lo scatto successivo e avere come risultato una foto a testa. Quei tre studenti delle superiori che nell’82 o giù di lì si sono fatti gli autoritratti in bianco e nero marinando il liceo ora si passano le foto di mano in mano sullo stesso tram che li accompagnava a scuola e stanno infastidendo il mio rientro in ufficio con la loro pateticità in eccesso. Il più intraprendente in fatto di nostalgia, che è lo stesso che deve aver organizzato la reunion a distanza di trentadue anni, ha stampato una fotocomposizione ricordo per quella rivisitazione della loro giovinezza che io, in tutta onestà, avrei evitato. E, vi dirò, sono piuttosto fiero del fatto che nessuno dei gruppuscoli di amici di scuola con cui sono stato protagonista nell’era del bianco e nero della fototessera comunitaria di ordinanza abbia mai avuto la brillante idea di rivedersi così per cercare in quelle istantanee che prima o poi qualcuno dichiarerà definitivamente obsolete lo stesso spirito di allora nelle smorfie. Cosa c’è da celebrare poi se al posto di capelli lunghi biondi ora non c’è più niente, se negli occhi al posto del futuro c’è disillusione. Quei tre dovevano essere pure una specie di banda adolescenziale, sopra la fotocomposizione ricordo svetta un nome che non riesco a leggere bene dal posto in cui sono seduto, vedete mi è pure calata la vista in un modo vergognoso da allora, comunque c’è scritto in stampatello i disperati di qualcosa. Che tenerezza. Se non fosse per il meraviglioso mondo di una ragazzina parigina sarebbe da farci un film. Qualcuno dietro però ci riporta al presente con la sua sconsolata conversazione al telefono, dice che non ce la fa proprio più e se ne andrà via. Di certo il tram non è il mezzo più indicato per una fuga, con la sua circolarità è più un passaggio metaforico per l’eternità immutabile dei luoghi in cui sono state allestite le rotaie. Poi lo sapete, qui a Milano ci sono pure le stesse carrozze da chissà quanto, e io non sono di qui ma se volessi rivivere qualcosa di bello probabilmente farei anch’io come i tre disperati delle fototessere, altro che le rievocazioni storiche. Poi alla penultima fermata sale una delle figure che i posteri ci invidieranno di più. Un mendicante al contrario, che ha appena eseguito con il suo bandoneon una versione poco riconoscibile di “Chitarra romana” in un discutibile arrangiamento gitano, interrompe l’esibizione proprio quando il tram apre le sue porte per farlo salire. Il mendicante al contrario, una volta in carrozza, estrae dalla tasca dei pantaloni un pugno di monete di piccolo taglio – uno, due, cinque e massimo dieci centesimi – e ne consegna indiscriminatamente una a ciascun passeggero seduto. Quelli per i quali il mendicante al contrario è un’assoluta novità non capiscono questa inusitata procedura di carità di ritorno, abituati alla questua ordinaria a cui si sono sottratti più volte facendo finta di essere concentrati su un libro o su qualcosa fuori in strada, e rimangono sbigottiti. Io e i tre ex disperati delle fototessere incassiamo senza discutere questo piccolo guadagno extra della giornata, consapevoli che un po’ di fortuna la porterà.

la successione

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Il retrogusto dell’intruglio mi ricorda il sapore del caffè delle macchinette aziendali in trasferta. Ogni ufficio ha i suoi parametri di accettabilità di un prodotto artificiale come quello, e malgrado certe ampie scelte (moccaccino, cioccocaffè, marocchino alla nocciola eccetera) che si trovano talvolta a cui segue un’invidia prematura nei confronti dei benefit negli altrui posti di lavoro, già al primo sorso si finisce per rimpiangere gli standard a cui si è abituati, come se le papille e tutti gli altri organi del gusto si fossero adagiate sull’abitudinarietà degli input trasmessi al cervello.

Il che è una maledizione bella e buona perché quando invece si tratta di una moka, una di quelle usate sulle stufe in ghisa a legna di campagna come quella con cui è stato preparato il caffè che ho appena bevuto, subentra il pregiudizio culturale. Ah, finalmente una sensazione genuina, siamo portati ad ammettere noi di città. Balle. In certe zone rurali italiane ci sono ancora tetti in amianto e nessuno si cura di differenziare la spazzatura, per dire. Ci sono antenne telefoniche che solo a guardarle ci si riempie di radiazioni e non venitemi a dire che chi lavora la terra poi si lava le mani come nei vestiboli delle sale operatorie che si vedono nei telefilm prima di preparare i pasti ai propri bambini. Comunque la signora che mi ha offerto il caffè è stata per molto tempo un vescovo dei testimoni di geova, malgrado questo dettaglio è una donna di cuore di cui ricordo anche i suoi digestivi artigianali a base di genziana. Chiudo lo scanning del mio stato d’animo chiedendomi quale potrebbe essere l’effetto di una buona sigaretta – magari una Winston pacchetto morbido come quelle che fumavo da ragazzino solo perché la marca compariva nel testo di Fly on a Windshield / Broadway Melody dei Genesis – ma se già ho la bocca impastata così, con tabacco e nicotina il disagio potrebbe solo che peggiorare.

Così sulle colline di fronte mi spiccio a capire l’esatta posizione del bosco di nostra proprietà mentre il geometra che sa tutto della zone mi indica i punti di riferimento. Un albero a fianco un di un albero sopra un altro albero che è proprio sotto a quell’albero là. Chiaro no? Ma non è la prima volta che mi succede. Mio papà me l’ha fatto vedere decine di volte ma non ho mai capito e, per non complicare spiegazioni già difficili, facevo finta di sì. Mi diceva che quel bosco faceva parte della nostra proprietà, ma io invece vedevo solo una specie di montagna verde tutta uguale e probabilmente è così e certe sottigliezze come i confini catastali li distinguono solo i diretti interessati. Il guaio è che adesso una parte di quello che il geometra – che a tutti gli effetti ha l’alito di caffè addirittura peggiore del mio – mi indica sollecitandomi a seguire il suo braccio teso è mia, come prevede la successione in caso di decesso, e non dico che dovrei prendermene cura ma almeno sapere di cosa si tratta. Roba talmente di scarso valore e inutilizzabile che forse faccio meglio a regalarla al comune, non siamo in una di quelle storie americane in cui ci sono le grosse aziende petrolifere che si mettono in fila per offrirti miliardi. Qui solo terra povera per cavoli e patate e boschi in cui la maggiore ricchezza sono i funghi, per chi ha voglia di cercarseli spaventando i numerosi cinghiali che scorrazzano in giro.

Distolgo lo sguardo imponendomi di distrarmi ma faccio lo stesso in tempo a rammaricarmi della leggerezza con cui ho sempre trattato la questione. Da giovani sono i propri genitori che si fanno carico di certe cose e i genitori, si sa, non muoiono mai.

l’Installazione Shalechet al Museo Ebraico di Berlino

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Lo stridore si avverte lungo l’area di accesso, credo volutamente disadorna, e se non sai cosa ti aspetta – io non mi ero preparato, per esempio – non capisci quale sia la causa di quel rumore, anomalo in un ambiente museale o comunque per un’installazione. Io l’ho scoperto del peggiore dei modi. Mia figlia è corsa in avanti anticipando mia moglie, me, gli amici che ci accompagnavano, così quando mi sono trovato di fronte all’Installazione Shalechet ho assistito al suo disagio nel percorrere per il lungo quella distesa di volti anonimi forgiati in acciaio, migliaia di concentrati di anime spazzate via con l’Olocausto e sottomesse all’angoscia del visitatore. Il fragore provocato dalle persone che calpestano quel mare di metallo è una sintesi di tutti gli effetti sonori più sgradevoli che le vittime dei lager devono aver subito: vagoni su rotaie, cancelli e catene, armi, schiavitù. Un frastuono impossibile da sopportare e una sensazione di angoscia nell’esserne la causa. Ho fatto di tutto per allontanare mia figlia da lì, la visita al Museo Ebraico di Berlino è già un’assunzione di responsabilità per uno dei crimini più efferati del novecento, ma l’opera di Menashe Kadishman è davvero un pugno nello stomaco.

Shalechet