generi sui generis

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Quella volta in cui ci siamo spinti fino a un posto in periferia che però per noi era il margine della città ma dall’altro senso, e solo perché servivano una cosa che chiamavano birra verde che non ricordo nemmeno che cosa fosse, probabilmente una birra corretta con qualche colorante artificiale ed è meglio non pensarci, ecco è stato allora che qualcuno mi ha fatto notare lì di fronte il grande ospedale dei bambini dove c’era già tuo padre che faceva il primario di radiologia. E di certo non sapevo che poi un giorno mi sarei trovato con lui a spruzzare l’anticrittogamico, o verderame come mi piace chiamarlo in onore di una canzone in cui si celebra quello come il colore dei capelli di uno dalle lacrime facili, sui radi filari di una casa con vista mozzafiato sul più celebre dei borghi marinari di levante. Che poi poteva essere un rischio farlo fare a me, che in quanto a goffaggine in ambito bucolico/agreste non mi batte nessuno soprattutto se costretto a lavorare nei pressi di una montagna di compost e di tutta la puzza che esce inutilmente dal recipiente e tutti gli insetti che attira. Ma ce l’eravamo cavata alla grande, e avevamo ripetuto il successo quando, parcheggiando troppo a ridosso di un marciapiede tagliente, era scoppiata la gomma davanti, e mentre tua moglie – mia suocera temporanea – e tua figlia – mia fidanzata temporanea – si erano date da fare per cercare rinforzi più tradizionalmente identificabili come appartenenti al genere maschio aggiusta-tutto, con un cric e due chiavi avevamo smontato la ruota e messo su quella di scorta, tra l’altro mentre faceva buio, i negozi stavano per chiudere, c’erano ancora tante cose da fare e non era detto che in quel vicolo il carro attrezzi sarebbe riuscito a intervenire. E ho trovato ingiusto che, in quel gineceo che era casa tua, ti avessero segregato in un bagno per soli uomini, e il solo uomo eri tu, dove probabilmente ti erano permesse cose da maschio anziano come fare la doccia appena sveglio alle quattro del mattino, lasciare le salviette arrotolate, non preoccuparti dei peli della barba sul ripiano umidiccio del porta-spazzolino. Anche io da poco ho perso il mio papà, poi oggi ho scoperto che anche tu te ne sei andato lo scorso settembre, tu che sei stato un capofamiglia anche se come tutti gli uomini non ti era riconosciuta nessuna autorità. Avevi alcune cose in comune con mio padre, a partire dall’orto e l’amore per la riflessione che coltivare un orto consente. Il rifugiarsi in solitario con quel compromesso di natura controllata, a due passi dalla via di casa dove l’unica complessità risiede nello scegliere gli orari di rientro per evitare la coda. Questa coincidenza di eventi per nulla spontanea, ci sono una decina di mesi tra un lutto e un altro, è puramente una forzatura narrativa, visto che non ci siamo mai più sentiti ma così magari qualcuno che ci conosce entrambi le fa leggere queste due righe e le porta i miei saluti di cordoglio.

cin cin con gli occhiali

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Qualche giorno fa ho scritto una cosa qui che a me piaceva molto e che poi è stata anche condivisa persino su Facebook ed è stato un dramma perché c’era un bel refuso nelle prime cinque parole che inficiava la comprensione del testo, se lo leggevi senza considerare il fatto che poteva essere un refuso ti faceva l’effetto Saramago che è quello per cui ometti un “non” in un testo e ti cambia di 180 gradi la comprensione dello stesso. Gli errori di battitura sono un mix tra disimpegno – d’altronde io che di mestiere scrivo cose e vedo gente il blog lo tengo proprio per svacco intellettuale – e disattenzione, quella è invece una costante della mia vita e pazienza, che ci volete fare.

Tutto questo non dovete però confonderlo con la stramba abitudine di scrivere periodi lunghissimi completamente privi di punteggiatura che è più un vezzo quello di mettere insieme una sfilza di parole senza fiato come quelle che mi sto sforzando di allineare qui, virgola, anzi punto. Cioè se scrivo sgrammaticato e metto congiuntivi fintamente sbagliati speriamo che nessuno lo nota, vedete, qui nell’interweb come la chiamano i disinformatici c’è tutto un lessico famigliare e nell’omologazione in questi casi c’è solo da guadagnare. Siamo mica qui a fare letteratura. Altro caso ancora è quello delle abbreviazioni nei messaggi, come leggevo da qualche parte un po’ di tempo fa c’è da chiedersi come lo occupano il tempo quelli che scrivono nn anziché non oppure k al posto di ch.

Perché non è più nemmeno una questione di caratteri. Scrivere male è più una questione di pigrizia, io mi impegno a evitare le ripetizioni – che è una cosa che ti insegnano in terza elementare con i primi pensierini – anche negli sms a mia moglie. Darsi un po’ di decoro linguistico, se per di più hai certe velleità narrative, è il minimo sindacale. Ma potrebbe essere anche un problema di calo della vista, non pensate? Sta volgendo al termine infatti la prima settimana della mia vita con gli occhiali. Non ho mai messo occhiali in vita mia ma nemmeno da sole, mi danno fastidio sul setto nasale e in generale mi danno la sensazione di indossare uno scafandro da palombaro. Scusate se sono fatto così.

Ma negli ultimi mesi ho preso atto di non leggere più da vicino, vedevo i caratteri nei display dei dispositivi elettronici sfocati, non vi dico a decifrare i font a una cifra di bugiardini, confezioni, manuali di istruzioni eccetera eccetera. Così da sabato scorso sfoggio un paio di occhiali da lettura e da videoterminale – parola del secolo scorso ma che rende l’idea – con i quali devo ancora prendere le giuste misure. Sul lavoro vanno benissimo quando scrivo, su e giù gli occhi tra monitor e tastiera, ma quando guardo oltre questo metro quadro visivo è una catastrofe. Devo abituarmi a metterli e toglierli a seconda dell’evenienza ma converrete con me che si tratta di un discreto sbattimento. E niente, vedremo se ci farò l’abitudine. Di certo vedo questi caratteri, proprio quelli che sto scrivendo, belli grossi e nitidi. Chissà se così riuscirò a essere più precisù.

nuovo mondo

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Il calcio ce lo immaginiamo giocato nelle favelas brasiliane da potenziali grandi campioni a piedi nudi fino a quando la realtà romanzata si scontra con quella dei risultati sul campo. È la distorsione delle cose che ci impone la cultura che abbiamo appreso nel periodo delle assimilazioni selvagge, che per noi ha coinciso con un’epoca fatta appunto di Pelé e di Rivelino ma anche di tante altre cose che non esistono più come gli indiani, i cowboy e i pirati che se li proponi ai ragazzini di oggi ne cercano subito una versione in 3D ma solo per far piacere ai loro genitori. Stesso discorso per i Beatles, i maggiolini tutti matti e altre cianfrusaglie da rigattiere. Il calcio tedesco è una fedele rappresentazione del presente e il sette a uno inflitto al Brasile, che a noi può sembrare il vilipendio di un cadavere sportivo, a chi è libero da gabbie culturali è un risultato eccezionale ma non comporta nulla di sacrilego. Non so se mi spiego, e considerate che sono uno che di calcio non ci capisce un cazzo, ma mi piaceva questo spunto di attualità per scrivere di pregiudizi. Essere sudamericanocentrici ai mondiali ti impedisce di apprezzare l’evoluzione di una tradizione sportiva – quella della Germania – sempre agli apici ma a volte poco simpatica, e solo per i trascorsi storici. Così come essere milanocentrici per altre attività ti fa perdere il contatto con un modo di intendere alcune professioni che invece le fanno ovunque ma uno pensa che ci siano solo qui. Il marketing lo fanno anche in provincia di Belluno, la grafica nel Salento, il design nel ragusano, la comunicazione aziendale nei vicoli di qualche borgo marinaresco della Liguria, i video alle porte di Perugia. Anzi, magari fanno tutto meglio. Il mondo del pallone non è una provincia di Rio de Janeiro, l’Italia non è solo hinterland milanese. E questo l’ho dovuto scrivere solo come mio promemoria.

carne giovane

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Se a cinquant’anni siete come me che ai concerti odiate tutti perché nessuno capisce quello che succede come lo capite voi, nessuno si merita le vibrazioni della musica più di voi, nessuno va a tempo meglio di voi e nessuno sa mettere etichette così appropriate su cose, persone, animali, situazioni, atteggiamenti, opere e omissioni, ecco io posso farvi risparmiare tutto il tempo dell’introspezione e della ricerca della causa di cotanto disagio e darvi la risposta sul solito piatto d’argento delle generalizzazioni da tanto al mucchio. Volete che vi dica di quale malessere siete afflitti?

La causa del disagio è tutta insita in quella massa di giovinezza che vi saltella e rolla e beve e vi fuma intorno e alla quale non potrete mai più congiungervi per quell’interstizio di tempo che qualcuno ha posto tra voi e loro, e che come uno strato di materia indeformabile si manterrà immutata e costante a sancire per sempre lo stesso divario e a spremervi fuori, soprattutto, tutta l’invidia che condiziona il vostro giudizio. “Invidioso io di quattro sbarbati condannati a essere precari e bamboccioni e a pagarsi concerti di gruppi che dei CCCP non valgono nemmeno lo sporco delle unghie con la paghetta dei nonni?” già vi sento mormorare pregni della vostra indignazione.

Proprio così. Se volete un consiglio, però, e dal momento che siete passati anche voi da quella fase lì che ora vi sta fortemente urtando perché voci post-adolescenziali ubriache di alcolici di qualità discutibile stanno coprendo il cantato del gruppo che – notate bene – è espressione proprio di quella generazione lì e siete voi quelli fuori posto, dovreste saperlo bene, se volete un consiglio, dicevo, ai giovani non piacciono quelli di mezza età che tentano di mescolarsi a loro sia con l’intento diretto di empatizzare che con l’intento finto di criticarli, che nasconde però l’intenzione di suscitare comunque la gratitudine per aver steso un ponte culturale tra i CCCP e Lo stato sociale.

Per cui anche se morite dalla voglia di essere accettati da quei giovani sia che siano figli, nipoti, amici dei figli o dei nipoti, alunni, vicini di casa o incontri occasionali sui mezzi pubblici, siete a rischio di essere smascherati e fare una pessima figura da supergiovani nel migliore dei casi, da pedofili nel peggiore.

Quindi sentitevi pure liberi di comportarvi come me. Osservateli e basta, possibilmente senza farvene accorgere e passare per guardoni. Osservate la carne perché è poi quello che vi induce a comportarvi cosi, la carne che così ve la potete scordare, insieme ai tatuaggi e ai buchi, alle zazzere multicolore e cappellini, alle borse e alla bigiotteria, alle marche di tabacco sfuso che costa di meno del condensato, ai modelli di smartphone sguainati verso l’alto a digitalizzare il mondo, ai voli low cost che se li avessimo avuti noi anziché l’Eurolines.

Osservateli quando sono da soli, a piedi o in bici, quando sono in due e in coppia e si baciano, quando sono in tre a passarsi una bottiglia di vino da supermercato, in quattro a prendere il sole in orari nei quali la società li vorrebbe produttivi, in cinque a riempire l’auto di papà per partire verso le spiagge della Puglia, in sei al parco a fumare erba, in sette a occupare un tavolo della biblioteca e preparare l’ultimo esame di un corso di laurea triennale che nessuno del vecchio ordinamento ha mai bene capito cos’è.

Osservate le schiene nude delle ragazze, i tricipiti da palestra dei maschi, le spine dorsali fiaccate da computer portatili, le dita agili su dispositivi touch, i bacini e le anche compromesse da calzature inadeguate e indossate erroneamente, la cellulite a quindici anni.

Spiateli pure, annotate su blog come questi i loro movimenti, segnatevi gli argomenti di discussione, seguite le loro gesta sui social network, scrivete libri e racconti. Se avete giovani d’oggi in casa perché li avete prodotti in tempi non sospetti, quando ancora potevate aspirare a una somiglianza con voi, o se avete la fortuna di averli come componente fondamentale del vostro lavoro perché siete insegnanti, educatori o animatori, vi prego studiateli come una specie protetta, come nuove entità predestinate a occupare gli spazi che i nostri antenati hanno lasciato a noi per ben altre necessità. Guardateli da lontano senza intromettervi, e che sia quella la nostra unica passione, la carne dei ragazzi che così viva noi non l’avremo mai più, la testa dei ragazzi che proprio, a una certa età, chi la capisce è bravo.

tecniche di sopravvivenza al proprio responsabile

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La presenza di sfigati che hanno il potere di licenziarti la avverti perché ti girano intorno mentre fai qualcosa di strano in punti dell’ufficio pensati proprio per consentire tutti i comportamenti non propriamente legati alla professione per la quale ricevi uno stipendio. Per assurdo, le condotte eccentriche alla propria postazione sono ammesse con riserva in quanto comunque efficace diversivo alla ripetitività dei nostri mestieri. Voglio dire, se nel bel mezzo di un pomeriggio invernale il massiccio substrato di ronzii di dispositivi accesi misto al frenetico quanto impercettibile ticchettio di periferiche di input viene interrotto dalla riproduzione di un brano musicale ad alto tasso di ilarità, eh meu amigu charlie per esempio, tutto ciò attira l’attenzione dello sfigato che ha il potere di licenziarti che fa capolino dal suo immeritato bugigattolo ma perché catalizza la curiosità del personale al completo in quanto fenomeno di distrazione controllata, l’eccezione che conferma la regola. Al contrario gli spazi di relax, che poi in ufficio il relax non è contemplato proprio per un cazzo, sono doppiamente invisi agli sfigati che hanno il potere di licenziarti in quanto se vuoi un po’ di ristoro va contro la produttività e se invece ti fermi lì per essere più produttivo – metti che nella tua stanza c’è troppa confusione per avere un po’ di concentrazione – gli sfigati che hanno il potere di licenziarti vengono subito a vedere che cosa stai facendo sul tuo portatile. L’arma che annulla gli sfigati che hanno il potere di licenziarti è riuscire a ostentare capacità di risoluzione dei problemi quando la risoluzione non c’è, mantenendo la calma che gli sfigati che hanno il potere di licenziarti prendono come irritante mancanza di rispetto ed elemento a giustificazione di un possibile licenziamento. Così, per evitare l’insorgenza di crucci inutili che rischiano di innervosire ulteriormente gli sfigati che hanno il potere di licenziarti, meglio lasciare gli spazi aziendali dedicati al relax che non c’è per ripararsi nella dimensione facilmente sorvegliabile della postazione assegnata per sconnettere il vociare dei colleghi perdendosi nella vista offerta dalle grandi finestre a vetro che ti permettono di guardare fuori anche quando fuori non c’è niente da guardare se non Segrate, Peschiera Borromeo o altre pittoresche località a sud di Milano, posti dove, fosse per me, sarebbero da costruire edifici sottoterra e al posto dei vetri che da fuori puoi spiare il disordine sulla scrivania degli impiegati metterei spessi muri con qualche display per panorami artificiali da impostare a seconda della media dell’umore del personale, dove gli sfigati che hanno il potere di licenziarti non sono però tenuti a fare media.

tutti in quella direzione

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Con lei ho sempre parlato chiaro: va bene qualsiasi cosa basta che non mi diventi metallara o grillista. Così ho scelto il male minore e l’ho accompagnata a sentire gli One Direction ma da fuori, davanti all’ingresso di San Siro. I biglietti da settordicimillanta euro per fortuna sono andati esauriti nel giro di pochi minuti il primo giorno in cui sono stati resi disponibili grazie ad altrettanti zelanti genitori di ragazzine di terza media fresche di esame a godersi il premio del meritato diploma. Ci troviamo così tra centinaia di poveracci come noi rimasti fuori. Gente che non avrebbe comunque avuto i soldi per un investimento pop di quel calibro in mezzo a altre centinaia di “dad directions” e “mum directions” in attesa delle figlie entrate per la prima volta da sole in quel tempio della pubertà agli sgoccioli e con svariati gruppetti di “fan directions” escluse non si sa come, a fare la spola tra un varco e quello dopo nella speranza di trovare qualche addetto alla sicurezza caritatevole e propenso a regalare un sogno a qualcuno più meritevole di tutti gli altri. Che ingenuità.

Come da copione molte ragazze scoppiano in lacrime ad ogni inizio di canzone, d’altronde ogni canzone degli 1D è giustamente una hit che ha anche simili poteri. Scene che con tutte le loro sfumature generazionali si sono già viste nella storia con Elvis, poi con i Beatles, poi mi vengono in mente i Duran Duran e qualche altra boy band più recente. E anche la frustrazione di essere privato di un evento di quel tipo, una celebrazione di massa del tuo oggetto di culto, possiamo dire che non ha età, non conosce mode né generazioni. E infatti quando mi rendo conto dell’errore che ho commesso penso di auto-esonerarmi dal ruolo di padre. A me non sarebbe mai venuto in mente di andare a un concerto di Bowie fuori da uno stadio solo per sentire male i pezzi, coperti da decine di migliaia di omologhe dei directioner urlanti. Non mi sarebbe mai balenato nell’anticamera del cervello e so che avrei dovuto fare lo sforzo di dissuadere mia figlia da un’idea così malsana e frustrante come mi è già capitato migliaia di volte di fare per le Barbie nelle versione extra lusso con il cavallo, per il noleggio del pedalò sui canali di Amsterdam con temperature prossime allo zero, per rimandare l’acquisto dello smartphone, per non regalare a una sconosciuta la bambola di pezza dell’equo e solidale a cui sono – io, non mia figlia – così legato.

Ma i ragazzini non si fanno tutte queste sovrastrutture mentali, a loro è sufficiente l’eccezionalità della cosa in sé: essere ai piedi di una costruzione gigantesca come uno stadio di calcio dentro al quale si sta esibendo il loro gruppo pop del momento e di cui percepiscono una riproduzione piuttosto fedele a quella che sono abituati a veder passare su MTV. Il resto sono solo nostre proiezioni. Di lì a poco passa un padre visibilmente nel panico, schiaccia ripetutamente un pallone da calcio mentre chiama a voce alta il nome del figlio, deve averlo perso tra la folla di persone che, mentre la fine del concerto si avvicina, comincia ad accalcarsi nei pressi dello stadio. Un addetto alla sicurezza gli corre incontro e lo avvisa che il bambino è al sicuro nelle mani della polizia. Padre e figlio si ricongiungono con un abbraccio proprio mentre quattro ragazze conciate da supereroe, come citazione di non so quale video, spostano l’attenzione mia e degli altri.

Quindi si consuma il vero dramma: noto un sacco di spettatrici che escono prima che l’ultimo pezzo sia terminato, che per me costituisce un affronto inconcepibile. Come è possibile allontanarsi prima del termine, quando il gruppo suona ancora, senza contare che l’ultimo pezzo, anche se il gruppo si chiama One Direction, è quasi sempre il clou del live, l’acme della serata, la sublimazione, l’atto che consegna quell’esperienza nell’iperuranio dei ricordi di tutta una vita? Che delusione. Che razza di gente è questa che se ne va prima della fine? Che cosa hanno capito della musica e dello spirito di un concerto dal vivo?

cose che non sorprendono affatto

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Stefania, quante stefanie conoscete se siete degli anni ’60, eh? dicevo Stefania ha questo amico imbecille che si chiama Marco e fa un po’ da sparring partner, dove siete autorizzati a interpretare partner nell’accezione che volete. Uno di quelli che si tagliano il pizzetto perché Stefania ha la pelle sensibile e può capitare che se Stefania è libera sentimentalmente ci scappa un bacio, ma Stefania non è mai libera sentimentalmente quindi non c’è il rischio di ferirla, in ogni senso. Comunque nel dubbio Marco si taglia il pizzetto lo stesso, tanto nel giro di una settimana ricresce, che problema c’è.

Stefania chiama Marco soprattutto quando uno dei suoi amori ufficiali la mette da parte, allora lei si vuole sentire al centro di qualcosa e chiama Marco e Marco va fin sotto casa sua, in cima alla collina dove abitano quelli con i soldi proprio come Giovanni, quello con cui Stefania stava prima, uno che l’ho visto con i miei occhi accendersi le canne con le banconote da diecimila lire. Nemmeno nei film sulla banda della Magliana.

Marco invece viene dalla provincia e scala la collina con la sua Panda del cazzo targata Alessandria che già in seconda fa fatica. Stefania, che è l’unica stefania della sua vita, lo fa aspettare un po’ e quindi lo raggiunge nel parcheggio sotto casa. Qualche volta passa di lì suo padre che rientra dal lavoro anche se sembra avere ottant’anni ma è un’impressione, uno che trasuda ingegneria d’altri tempi e che una leggenda voleva persino minacciato dalle Brigate Rosse, negli anni di piombo, per il potere padronale che incarnava. Il padre di Stefania è abituato agli spasimanti di sua figlia che stazionano sotto casa in attesa di essere raggiunti dalla sua grazia, Marco forse è uno dei più simpatici con il suo essere alla mano anche se sa che il papà di Stefania cerca di essere imparziale e di non dare confidenza per non favorire uno dei pretendenti rispetto a un altro. A parte quello che ha scritto sul muro di fronte “Stefania ti scoperei fino all’osso”, quello non ha fatto certo una bella figura con la sua famiglia.

Così stasera Stefania ha convocato Marco sempre per lo stesso motivo, a dispensare un po’ del desiderio che suscita nella seconda fila dei pretendenti che come la serie B di calcio, in cui i calciatori dicono essere meno fighette e più pronti al sacrificio, così le retrovie di Stefania sono all’erta nel caso cadano quelli degli avamposti con le Saab e le Golf Cabrio. Ma a Stefania stasera le basta osservare sullo sfondo della sua crisi il cruscotto povero della Panda per fare dietro front, dice a Marco di essersi sbagliata ma Marco non capisce l’errore, chi l’ha commesso e in cosa consista.

Nel dubbio è lui ad aver torto, così Stefania ha il tempo di rientrare subito perché forse l’amore sta già facendo squillare un telefono e Marco ingrana la retromarcia proprio mentre si chiude il portone, e l’unico diversivo è mettere una cassetta. C’è tutto un accrocchio per stabilizzare l’autoradio alla destra del volante della Panda che non è nemmeno di serie.

Ora non so che cosa mettereste voi al suo posto nel 2014 come sigla finale di questo cortometraggio tragicomico, anche se non dovreste compatire Marco perché se le va a cercare. So che nel 97 estrae Ok Computer dalla custodia con il nastro tutto riavvolto, se lo lasci a metà corri il rischio di guastarlo. Era ancora a Castelletto, e se vivete a Genova sapete di che posto si tratti, quando ha ruotato la manovella del finestrino in senso orario per non disturbare nessuno con Airbag. Ma ecco che Marco si spara tutto il viaggio di ritorno con il nuovo disco dei Radiohead e arriva sotto casa poco prima che inizi No Surprises, è sovrappensiero e sta per spegnere la macchina e, conseguentemente, l’autoradio e la musica. Poi se ne accorge e così resta nell’auto fino alla fine del pezzo, fuori è notte e gli sembra di aver trovato un significato nelle luci accese del cruscotto riflesse nel parabrezza.

keep calm and confrontate i preventivi

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Anni di esperienza mi hanno insegnato che nelle emergenze tutto costa il doppio e se non ci stai attento corri il rischio di farti spillare un fracco di soldi. Che già nell’ordinarietà del mercato la straordinarietà coincide con la crescita esponenziale della domanda. Questo induce chi vende a tirare su i prezzi, e lo saprete meglio di me se avete avuto sete in una spiaggia sotto il sole a 40 gradi distante svariati chilometri dal primo centro abitato, o se incombe una minaccia chimica di qualche superpotenza militare impazzita e vanno a ruba le maschere antigas, o qualunque altro cartello di fornitori di qualcosa. Etica ed economia non vanno proprio a braccetto. Nei casi di tragedia ci sono persone abilissime a trarre profitto e ci sono quelli che sull’onda dell’emozione vanno nel panico e sono poi i polli che è facile spennare. Per questo sono da invidiare ed emulare le persone che pur fiaccate dagli eventi mantengono il controllo e non si fanno fregare. Trovare parcheggi gratuiti anziché lasciare l’auto nel posto a pagamento più vicino a dove ci si deve recare con urgenza vi può far risparmiare la manciata di monete che siete disposti a infilare nel parchimetro, che comunque ridendo e scherzando due euro sono quattromila lire, per dire. Devi mangiare e vai nel primo posto che trovi perché non ti puoi allontanare troppo e ci lasci un sacco di soldi per mangiare quasi sempre male. Per non parlare dei taxi. Le persone deboli che si trovano nel panico delle emozioni elargiscono mance e arrotondamenti a pioggia come se quelli che ti vendono qualcosa, che già hanno i loro margini, ti facessero un piacere. Per questo, pur avendo un pessimo rapporto con il mercato, mi compiaccio quando gli esercenti di qualunque tipo vanno in bancarotta e mi auguro che il fenomeno possa raggiungere anche altri settori monopolizzati dalle lobby. Pensate solo alle onoranze funebri. Spero non vi succeda mai o il momento in cui ne abbiate bisogno sia il più remoto possibile, in ogni caso cercate di affrontare con la massima lucidità qualunque preventivo e, soprattutto, richiedete la fattura su l’importo completo.

questo fino a quando qualcuno ti appare in sogno e ti detta una combinazione di numeri vincenti

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L’equivoco di fondo è invece quello per cui uno muore, un tuo parente stretto e magari con una certa autorità e controllo sulla tua vita come un genitore, e di colpo viene messo al corrente di tutto quello che hai fatto e che farai perché va a mischiarsi grazie a non si sa bene cosa con il tutto. Dovresti accorgertene nel momento in cui succede, Dimensioni che noi umani non possiamo nemmeno immaginare, strati di conoscenza a livello gassoso – non se ne spiegherebbe l’invisibilità – le cui molecole a noi ignote si uniscono a quelle della nostra chiamiamola anima in cui la più perfetta delle nanotecnologie ha concentrato miliardi di anni e di chilometri di storia in cui, per un padre per esempio, è facile individuare istanti con te protagonista che ti fai una canna all’uscita dell’orale della maturità nell’86 o certe perversioni casalinghe di auto-erotismo che ti hanno permesso non pochi compiacimenti in periodi esistenziali di – diciamo così – flessioni del proprio fascino sull’altrui interessamento. Ecco quindi svelato il terzo segreto della bidella complice di una truffa ai danni della prof di matematica e i pensieri perfidi quando è stato il momento di voltare le spalle al volere paterno la prima volta o il tasso alcolico in occasione dell’incidente con l’unica macchina di famiglia e i conseguenti nove milioni di lire di danni. Ora si tratta di cose che non dovreste sapere perché voi non siete ancora morti, quindi facciamo finta che abbia elencato peccati presi a caso e con molta libertà dalle vite altrui.

Invece non è così, anzi il contrario o quasi. Ovvero che è proprio in occasione di lutti come questo che uno viene a sapere di cose accadute a parenti vari perché nei momenti di mollezza da confessione reciproca a scopo consolatorio tra zii o cugini, di quel livello che si incontra solo in occasioni come queste, che saltano fuori certi altarini mica da ridere. Quello che dopo averlo tutto sommato stimato per tutta una vita e rispettato per essere passato a miglior vita in modo indecoroso vieni a conoscenza della sua militanza nella RSI, che finita la guerra ha setacciato certe montagne dietro a casa tua per dare degna sepoltura a nazifascisti giustiziati dalla resistenza, che poi è diventato esponente locale di punta dell’MSI prima di cambiare tutto e abbonarsi a una rivista di stampo anarchico. Quell’altra – e che brutta fine che ha fatto – ha invece abortito a quindici anni in tempi in cui non si poteva certo raccontare in giro. Ma anche un caso di alcolismo da terza età causato da solitudine improvvisa e i rischi del bicchiere in eccesso dopo certi tipi di farmaci.

In generale però mi sento di confermare che magari uno non ci pensa che gli altri abbiano bisogno di affetto e attenzioni anche in condizioni normali, quando non è il compleanno o quando gli succede qualcosa di tragico, come è successo a me. Ecco perché mi sento di lasciarvi rilanciando con quanto sia straordinario vedere le persone ogni giorno che stanno bene e che si beano del quotidiano e sarebbero da riempire d’affetto e di abbracci o di like su Facebook anche solo perché, anche oggi, hanno salutato i figli alla scuola materna o hanno mangiato prosciutto e melone a pranzo, oppure sono in attesa al banco gastronomia dell’Esselunga con i bambini che invece mettono fretta perché hanno in testa solo le figurine. Lasciate perdere il soprannaturale, ve lo dice uno che ha appena assistito a un rosario recitato da un diacono fiaccato dal Parkinson e con una pesante inflessione dialettale ligure. Se incontrate amici o parenti mentre svolgono funzioni apparentemente banali ma concrete e misurabili, di quelle che alla fine reggono l’intero sistema delle convenzioni sociali, date loro l’importanza che meritano, metteteli al centro delle loro vite come se quel giorno, ogni giorno, fosse il loro giorno.

come interpretare quelle sopracciglia arcuate

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Alla fine, dopo trentasei ore di veglia e dormiveglia ma anche un po’ di dormi-e-basta, io e mia mamma ci siamo concessi una tregua. Assistere il papà in questa – a detta dei medici – fase terminale è un’attività che per la sua temporanea stazionarietà genera assuefazione. Il respiro in un ritmico su e giù della cassa toracica a protezione di un cuore forte, la bocca spalancata nella maschera dell’ossigeno a rubare tutta la vita che c’è lì dentro, il tutto nella cornice di uno stato di totale assenza, un sonno profondo, un qualcosa che anche se non l’ho mai visto – per fortuna – non stenterei a definire coma. Dopo un giorno intero, quindi, speso nell’intento di captare anche un minimo segnale di cambiamento che non si sa mai se sia meglio auspicarlo o meno, in questo loop straziante del respiro che, paradossalmente, ha un ritmo con gli altri rumori dell’ospedale e dei suoi macchinari che arrivano dal corridoio, un respiro almeno due volte e mezza più veloce del mio, ci siamo arresi all’auto-conservazione. Una persona fidata ci sostituisce per la seconda notte e io mi avvio a consumare il primo pasto completo da quando siamo lì. Davanti a un paio di porzioni di un ghiotto piatto locale, che non mangiavo da anni, mia mamma ed io siamo persino riusciti ad avere un po’ di ristoro emotivo. Abbiamo persino riso quando lei mi ha fatto notare che mio papà morirà senza aver capito che lavoro faccio. Addirittura mi sono steso sul divano a casa loro, dopo cena, approfittando dell’abbonamento a Sky per seguire la partita che poi non era nemmeno su Sky. Mi sono però addormentato in quel lungo spettacolo dell’attesa televisiva, quella in cui si spremono tutti i contenuti per tenere il più a lungo gli spettatori sullo stesso canale e aumentare così il valore pubblicitario. Mi sono svegliato che i giochi erano fatti e la nazionale italiana dava il meglio per difendere il risultato. Ed è stata una fortuna, perché i miei tempi di sopportazione di un incontro di calcio non superano i venti minuti. Questa mattina presto, poi, siamo tornati da lui ed era ancora così, con la stessa espressione che sembra più esausta che rassegnata. All’inizio ci trovavo dello spavento, magari la paura dell’ignoto. Poi però mi sono convinto che sia un severo monito a non perdere mai un’occasione per dirsi le cose.