hai portato i cinque euro?

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Tra i membri di una classe di un qualsiasi corso di qualunque natura, fotografia o attività sportiva amatoriale o scrittura creativa o avviamento alla degustazione di birre, oltre al leader, al suo braccio destro, i gregari, quelli che si imboscano, quelli che aiutano e quelli che dicono si potrebbe e si dovrebbe, trovano spesso posto quelli che fanno il regalo di fine anno all’insegnante e raccolgono i soldi, talvolta in palese conflitto di interesse se l’oggetto del dono è di loro competenza, lo commercializzano, lo assemblano, lo producono. Io poi non sono molto portato per i regali, un po’ perché sono ligure e mi spiace separarmi dal denaro, un po’ perché sono entrato in crisi da quando non si possono regalare più dischi perché tutti se li scaricano, non si possono regalare libri perché nessuno legge più, per gli oggetti personali occorre conoscere bene il territorio per sapere dove acquistare cose fighe senza andare in rovina, si possono cercare cose carine su Internet ma poi mi ricordo troppo tardi e non ci sto dentro con i tempi di spedizione. Un tempo andavo sul sicuro con i miei scrittori preferiti. Ma è l’idea in sé che mi turba, non so, non mi sembra il caso. Comunque regalare un libro a una che fiacca di addominali il prossimo due volte alla settimana può sembrare pretenzioso. Forse è per questo che quella che nel mio corso di atleti della terza età si è auto-incaricata in pieno trend grillino di rappresentare il gruppo per la scelta del regalo di fine anno a suggellare l’entusiasmo degli iscritti per i risultati conseguiti, forte della sua appartenenza a una setta di fanatici del biologico da ricchi, ha optato per un cesto di prodotti a chilometro zero, quelli della cosa giusta e dei mercatini della solidarietà e della salute anti-GDO alimentare. L’operazione è iniziata con largo anticipo, almeno a un quarto del secondo quadrimestre, e ora vira verso la conclusione, con tanto di consegna ufficiale e baci sulla guancia di ringraziamento programmata per l’ultima lezione. A cinque euro a cranio, che io manco a farlo apposta me ne dimenticavo sempre ma, ogni volta, c’era proprio lei a ricordarmelo. D’altronde, defilarsi mi pareva brutto, vero?

decentrare l’argomento

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C’è tutta la vita di tempo per andare fuori tema, ma a qualcuno capita di rimanere in periferia del nocciolo della questione più o meno sempre. Nell’entusiasmo della risposta, dell’esposizione o dello svolgimento scritto si fa presto a smarrire la strada o a prendere l’autobus o la metro nella direzione sbagliata. Sali su in superficie e ti ritrovi in un altro contesto dove, se proprio hai orgoglio, puoi continuare con la dimostrazione e la ricerca del risultato anche lì, con punti di riferimento nuovi o anche inventati. Rimanendo ai margini c’è comunque tutta una narrazione che ha il tono di quelle circonvallazioni concentriche che ci sono qui a Milano, negozi che passano di mano in mano, mezzi pubblici gremiti e parcheggi selvaggi nel segno della temporaneità. Così c’è chi è preposto a dirti che è tutto bello ma che non c’entra, che non era questo su cui occorreva spendersi, che in un altro contesto saresti potuto anche risultare accettabile ma non in questo. Sei OT, come si dice sul web, sei uscito fuori dal seminato, altrove, altri discorsi, magari altri tempi. Sbagliati, questo è sicuro. E vedete, anche qui, volevo parlare di un’altra cosa ma poi è finita che mi sono perso.

non c’è più religione

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A pochi passi dal mio nuovo ufficio c’è un esteso complesso scolastico di diversi gradi che comprende un oratorio parrocchiale, il che la dice lunga sulla proprietà dell’intero stabile grande quanto un quartiere a sé. Si tratta di un edificio dei primi del novecento il cui perimetro, frammentato da cortili delimitati da cancellate, a percorrerlo a piedi consente di smaltire un pranzo medio da giornata lavorativa.

La mattina è tutto un brulicare di genitori che accompagnano bambini, mamme e papà non più giovanissimi malgrado i figli in tenera età a cui si alternano analoghi quadretti di stranieri strutturati già più come l’opinione comune vorrebbe fosse composta una famiglia da un punto di vista della connotazione generazionale. Il che non vuol dire un cazzo, per carità, è solo che gli ultraquarantenni come me costretti nella postura da scudo protettivo verso l’esuberanza della progenie si caratterizzano per l’innaturalezza dei gesti di chi, con i capelli quasi bianchi, dovrebbe dare pacche sulla spalla a figli laureati o giù di lì e invece siamo ancora al livello delle gite al Museo Egizio di Torino. Ma – e chiudo questa parentesi da sociologia da tanto al mucchio – è evidente che un quartiere così come questo è abitato da gente che ha fatto carriera (per quelli come me che sono come loro ma non l’hanno fatta una qualunque indagine sarebbe banale) e dal relativo personale preposto all’aiuto famigliare. Tate, badanti, colf, portinai, tuttofare di evidente provenienza intercontinentale.

Verso le diciotto, invece, è tutto deserto tranne l’ingresso dell’oratorio, davanti al quale stanzia un gruppo di ragazzini sui quattordici o quindici anni, forse qualcosina in più. Notavo però le facce, l’abbigliamento e il comportamento di questo insieme piuttosto omogeneo che, a quanto sembra, frequenta il ritrovo parrocchiale o, almeno, sembra usufruire dei servizi di aggregazione. Un tempo i ragazzi dell’oratorio erano una categoria ben definita. Avete presente, no? Dicevi “quello è un ragazzo dell’oratorio” se intendevi uno un po’ babbionello, con il k-way chiuso e legato in vita come un’escrescenza corporea, gli occhiali con le lenti spesse e i brufoli, un taglio di capelli ordinario e una manifesta propensione alla conduzione di un’esistenza di fede e rigore. Nulla di negativo, anzi, vuoi mettere uno così con uno che da grande diventa come Pino Scotto o, peggio, Capezzone?

Ecco, i ragazzi che si ritrovano nei pressi dell’oratorio ubicato a un isolato dal mio ufficio, nel tardo pomeriggio, non sono così. Ascoltano Fabri Fibra con lo smartphone, sfoggiano creste e sputano, mentre le ragazzine vestono succintamente e molto attillato, discutono animatamente di tematiche tutt’altro che riconducibili alle Sacre Scritture e non invitano al contatto intergenerazionale. Anzi, diciamo che cambio il marciapiede proprio per non passare in mezzo a loro, per evitare di prendermi una pallonata, uno sputo sui pantaloni, qualche sfottò vista la mia appartenenza anagrafica. Insomma, tutto fa pensare a una categoria di giovinastri più affine a quelli che definiremmo teppisti di strada. Ed è strano, vista l’utenza del mattino. Nulla che richiami a una provenienza di buona famiglia o a un’estrazione di un certo livello. Chiaro che questa mia esposizione ottocentesca di una scena piuttosto comune a qualsiasi latitudine della nostra penisola è voluta e paradossale. I ricchi non mandano certo più in giro i propri rampolli adolescenti con i completi di lana e i papillon, e l’intamarrimento generale della nostra società è riuscito a superare le differenze tra le classi sociali più di ogni altro tentativo politico o culturale dei decenni passati. Più dell’associativismo, dei dopolavori, dei concerti di Pollini nelle fabbriche e delle gite sui campi da sci a prezzi popolari. Il problema è che tutto è omologato verso il basso, e questo sì, lo ammetto, è un giudizio morale.

risposte alle lettere degli stellari condannati all’unfriend su Facebook dai propri amici

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Caro amico/a, se dopo aver nascosto i tuoi interventi dalla mia bacheca mi sono sentito in dovere di rimuoverti dai miei contatti per qualche tuo commento è perché non sono avvezzo alla discussione politica, anzi, antipolitica sui social network, prassi che ritengo sterile e difficoltosa da portare avanti per iscritto, a singhiozzo, in differita, in pubblico e con il pubblico che interviene, quando già è difficile decifrare post ricchi di puntini di sospensione, apostrofi messi a cazzo, farneticazioni corredate di punti esclamativi e abuso ingiustificato del caps lock. Non te la prendere come immagino che tu non ci sia rimasto male per non aver avuto nemmeno una commissioncina di serie B da questo nuovo esecutivo governolettico, che tanto alle prossime elezioni farete l’en plein, prenderete tutto senza fare prigionieri e allora noi del PD – che magari a seconda di come si sono messe le cose saremo ex – potremo finalmente mettere in atto quella Resistenza alla quale ci ispiriamo da decenni, con la nostra spocchia e la nostra ironia che ormai è fuori luogo quanto un’altra qualsiasi manifestazione di superiorità etica in un mondo in cui della sinistra probabilmente non c’è più bisogno. Ti ricordo solo di fare il miglior uso possibile delle funzionalità di personalizzazione della home page di Facebook, dove davvero è possibile filtrare i post altrui per non sentirsi spinti a commentare quelli che ci sembrano così distanti dai nostri e che, come io vedo voi che avete abbracciato questa sorta di scientologismo apparentemente evoluto, trovate di un altro pianeta. Sperando che questo episodio che si è messo tra noi non vada a ledere il nostro rapporto interpersonale vero, quello dal vivo, e che non lasci nessuna scia. Chimica, manco a dirlo.

tutto si aggiusta

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Converrete con me che la figura dell’uomo di fatica esiste ancora. Siamo noi, e siamo in tutte le case. Mariti, compagni, conviventi che comunque quando c’è da sgobbare siamo per forza di cose chiamati in causa perché i lavori pesanti, alla fine della fiera, spettano sempre a noi. Ci pensavo stamattina alle sette mentre guidavo e mi restavano ancora più di tre ore di strada dopo aver passato una notte pressoché in bianco per un mix di tossi diffuse altrui  ed esuberanza felina e mentre crollavo dal sonno ma dovevo sforzarmi per portare la mia famiglia nel luogo di villeggiatura stabilito – una nota città d’arte italiana – la mia famiglia si era già addormentata e mi aveva lasciato in quel duro compito di non cadere nella tentazione di un fatale colpo di sonno. Loro dormivano tanto c’era chi guidava ed era naturale che fosse così. L’uomo è al volante sempre, in ogni situazione e quindi anche in senso metaforico. Perché capita ogni tanto di chiedere a tua moglie di lavare cortesemente i piatti mentre devi per forza controllare se si sono aggiunti nuovi follower al tuo profilo di Twitter. Oppure se non le pesa cambiare la lettiera dei gatti perché non puoi assentarti dal flame che stai seguendo sul tuo social network preferito. A me è successo, per esempio, di sottrarmi al tradizionale cambio degli armadi di stagione ma solo perché non avevo ancora ultimato un post per questo blog. Ciò non toglie, però, che le nostre consorti sentano come dovuto l’affibbiarci ogni scocciatura che secondo loro ci spetta di natura. Fare buchi con il trapano. Portare continuamente cose giù in cantina o in garage, per poi riportarle su qualche mese dopo perché occorre portare giù le altre che la volta prima avevate portato su. Togliere le tende e riallestirle dopo che sono asciutte. Per non parlare degli interventi sul pc di famiglia, già perché noi uomini siamo tutti periti informatici (e allora voi donne siete tutte cuoche? Eh?) e forniamo help desk 24 per 7, e ci spetta anche tutto ciò che è soggetto a un funzionamento meccanico. Dall’apribottiglie al motore a scoppio passando per serrature, giocattoli dei bambini e rubinetteria. E questi sarebbero i lavori di fatica, sento già mormorare le voci inquisitorie al di là dello schermo. No, però i trasporti pesanti li ho omessi in quanto sono un dato di fatto. Sposta il tavolino lì, la libreria sta meglio là, la cameretta potremmo rivederla perché il lettino è vicino a una parete esposta a nord. E noi a rimboccarci le maniche come quegli energumeni delle imprese di traslochi. Quando ce ne staremmo molto più volentieri spaparanzati a leggere il nostro romanzo preferito malgrado tutti quei rumori di aspirapolvere e lucidatrici. Ecco, la parità dei diritti dovrebbe essere un po’ più pari ma dalla nostra parte. Altro che.

in parole povere

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La piazza che si lascia inquadrare dalle telecamere e intervistare stupisce per la semplicità che rasenta l’analfabetismo, per non parlare del contrasto tra umiltà di condizione e mancanza della stessa da un punto di vista caratteriale che l’esasperazione giustifica solo in parte. Probabilmente le trasmissioni di attualità mirano a mostrare il peggio, i casi più sofferenti, le storie più drammatiche. Dall’altra parte, la classe politica che parla risalta per preparazione dialettica, capacità di analisi, citazionismo colto, intelligenza sociale. Attenzione, non sto dicendo che una sia meglio dell’altra né sto esprimendo un giudizio morale. Mi sembra solo che lo scollamento sia sempre più ampio, altro che digital divide, non mi stupirebbe che antipolitica e sfiducia nei partiti siano maturate proprio a causa del fatto che, dal basso, certe cose nessuno le capisce. Ma a partire proprio dal linguaggio. Dalle parole. Ci sono studi che dimostrano la scarsa attitudine degli italiani alla comprensione dei testi, giusto? Testi semplici di taglio informativo o narrativo. Figuriamoci discorsi propagandistici con speculazioni sui massimi sistemi. Ecco così che i temi diventano le imprese che chiudono, i disoccupati, i soldi che mancano per la cassa integrazione, i giovani e i loro contratti farlocchi perché fanno breccia. Ma nemmeno questi sono argomenti condivisi. Nei carrelli dei centri commerciali, negli abitacoli delle macchine di lusso, nei ristoranti eat all you can, nei villaggi all inclusive non se parla. Sotto questo ceto povero dentro ma tutto sommato benestante fuori per sotterfugi e imposte non pagate c’è un seminterrato di povertà che non protesta per Rodotà o chi altro perché non sa nemmeno cosa stia succedendo. Il totale di questa enorme porzione sociale lo si trova in quella metà di italiani che non votano, alcuni per protesta, altri perché non ne comprendono l’utilità ai fini pratici del tornaconto in beni posseduti o, nei casi peggiori, della sopravvivenza. Un giorno arriveremo a parlare due lingue diverse ma in senso proprio, sarà impossibile capire l’italiano dell’informazione da quello dell’entertainment, Internet compresa. Si tira in ballo il populismo ma giustamente qualcuno cerca di fare da interprete tra politica e gente, d’altronde se si depotenzia l’istruzione e la cultura non ci sono alternative e non è nemmeno giusto chiedere alla politica di adattarsi diversamente. Non ne sarebbe capace.

ripararsi dalle intemperie

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Il luogo comune delle mezze stagioni ormai è un dato di fatto, è innegabile, quindi dovremmo tutti impegnarci a rimuovere questa patina di pour parler da chi esprime considerazioni su ciò e, anzi, riconoscere la profondità e l’autorevolezza di chi lo sostiene. Oltre al coraggio di impostare una conversazione sul tema dei repentini cambiamenti climatici dal freddo al caldo e viceversa, oggi che tutti fanno finta che non ne possono più di quel genere di battute tipo qui era tutta campagna eccetera perché sotto sotto ridiamo, siamo attratti dall’infantilismo e una prova tangibile è stato il successo di una canzoncina del menga come quella di Tricarico e della sua maestra – vi ricordate? – solo perché il testo conteneva una parolaccia. Ma se effettivamente ci siamo giocati primavera e autunno e relative sfumature, il danno maggiore consiste, secondo i più, nell’aver reso inutile una cospicua porzione del nostro guardaroba che, a dirla tutta, era la preferita di molti. Me per esempio. I capi di abbigliamento di mezza stagione sono quelli più comodi perché né troppo pesanti e né troppo leggeri. Sono quelli meno vincolanti negli abbinamenti, stanno su tutto, consentono molteplici combinazioni. Posso portare l’esempio delle giacche di pelle, quelle che mia nonna additava come l’uniforme da debosciati perché piuttosto equivoche. Io ne avevo più di una, un tempo nei negozi di roba usata te le tiravano dietro. Peccato che questi, come altri capi tipo i giubbotti di velluto, le casacche militari, i cappottini di lana, sono diventati ormai merce superflua che occupa spazi utili all’economia familiare, da destinare per esempio all’abbigliamento dei figli dismesso da altri e ricevuto in omaggio provvisorio per una catena infinita di ricicli sotto il profilo dell’economia domestica, prima di una coscienza ecologica. Sì, capitano quei due o tre giorni in cui ci è concesso di indossarli, in cui occorre incrociare le condizioni atmosferiche con l’occasione. Per esempio non ci si veste da debosciati per andare in ufficio, soprattutto se si vira verso i cinquanta. Allo stesso modo non è  possibile conciarsi così con la famiglia, insomma bisogna darsi un contegno. Poi ecco che si presenta la situazione perfetta ma nel frattempo è arrivato un caldo boia e a mettersi una giacca di pelle ridono i polli e i figli di Apelle che giocano a palla. Quindi nulla, si aspetta la successiva mezza stagione che ancora non non ti sei convinto che non ci sono più, come te lo devo far capire, lo dice persino la saggezza popolare. Per non parlare dell’impermeabile. Io non lo possiedo ma una volta, verso i vent’anni, ne avevo uno bellissimo e grigio che indossavo quando minacciava pioggia ed era perfetto da marzo a fine aprile. Due mesi buoni con il trench che nemmeno nei film americani anni ’50, ci mancava giusto il borsalino. Ora mi sembra che la moda maschile non lo contempli più, ma forse perché non c’è più tempo per l’impermeabile, passi dal piumino che è impermeabilizzato alla giacca leggera e se piove amen. Ne ha però uno bellissimo mia figlia, beige e molto di classe, lei poi è alta e le sta benissimo. Anzi, sembra molto più grande, direi troppo. La osservo qualche secondo prima di uscire di casa per andare a scuola, vestita con il trench, e penso che non solo non ci sono più le stagioni di mezzo ma probabilmente nemmeno le età.

sogno ribelle

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Ogni generazione ha la sua cultura da strada, chiamiamola così, che fa presa su una larga fetta di giovani e diversamente adolescenti. Il bisogno di anticonformismo ordinario che va dal manager con suoneria dei Clash al maestro elementare che frequenta i rave è una testimonianza della doppia vita che resta latente in ciascuno di noi, ma si fa presto a considerarlo una valvola di sfogo alle presunte costrizioni della vita odierna, con cui è più facile fornire una giustificazione. Ma il punto è capire da dove nascono, in quale momento nei remoti anfratti della nostra vita. Voglio dire, ci gettiamo alle spalle i primi anni di appartenenza al genere umano per fare di tutto per distinguerci omologandoci con ciò che è di moda, per non far parte di quello che il senso comune fa passare come di moda. Pensate al controsenso con cui si conducono le esistenze. Non penserete vero che giocare agli afroamericani del ghetto o ai punkabbestia nomadi sia uno spin off della società, vero? È la stessa cosa, baby, tutto è calcolato, ogni deviazione ha un suo canale youtube di riferimento o una sua community di hacker che ne infrange le regole – che a loro volta ne infrangevano altre – per una catena infinita di derivativi che poi, alla fine, uno si stufa anche e arresta il sistema. Ma se ci riferiamo all’aspetto più alla luce del sole di tutto questo, evidente malgrado i protagonisti se ne stiano ben nascosti a provare balletti corali negli androni sovradimensionati delle metro o nei loro ritrovi da addetti ai lavori sognando comunque che passino punti di riferimento del calibro di Maria De Filippi o dei suoi amici, ci attrae oltremodo la curiosità che spinge sempre nuovi adepti tra le braccia di questo consumo apparentemente sotterraneo di cultura alternativa. Da sempre, perché anche chi vi scrive ha i suoi trascorsi e i suoi scheletri nell’armadio. Se mi posso permettere, però, il sedicente rap e quel tipo di cultura lì che impiastra i vagoni della metro, oltre ad aver rotto un po’ il cazzo ha altrettanto sparigliato le carte perché così di basso livello (sempre nel senso informatico, ovvero di vicinanza al linguaggio macchina ma voi intendetelo un po’ come volete) da aver pervaso tutto trasversalmente. Ve la ricordate, vero, la metamorfosi dello specifico da CSOA, quando dall’hardcore si è passati alle varie posse. Nel frattempo tutto è diventato hip hop ma lo era già vent’anni fa quando un ragazzino dei quartieri popolari che aiutavo a studiare aveva la sua ghenga con i saluti che nemmeno Spike Lee e scriveva sul suo zaino Invicta i motti più arguti degli Articolo 31. Pensa te. E pensa te ora, con le bande di latinos e i nordafricani e gli italiani di periferia al confino che inneggiano a Fabri Fibra. Vedete, poi tutti mirano al contratto con le major mentre dall’altra parte gli utenti disagiati pensano di mettersi in fuga da tutto ciò che è commerciale ma non sanno che fanno parte di un target su cui molti brand sono già appostati e pronti a lanciare le loro esche. Ecco, proprio Fabri Fibra di questi tempi è seguitissimo tra i più giovani e si dice anche che sia il miglior rapper in circolazione. Che poi non fa rap, lui è uno che straparla sulla musica. Voglio dire, i rapper sono altro, Caparezza per esempio, molto bravo a scrivere testi in rima pieni di metafore e recitati alla velocità della luce. Fabri Fibra parla a tempo sui suoi pezzi, e se lui è un rapper allora lo sono anche gli Offlaga Disco Pax. Dimostratemi il contrario.

scoop

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Comunque io mi chiamo Roberto, molto piacere. Mi chiamo Roberto come il novanta per cento del genere umano di nazionalità italiana di sesso maschile della mia generazione. Intorno alla metà degli anni 60 Roberto doveva essere uno dei quei nomi di moda o magari c’era qualche personaggio in vista che si chiamava così e tutti i genitori pensavano che dargli lo stesso nome potesse essere di buon auspicio. Vi risulta? C’è qualche studio nell’Internet sulla antroponomastica di massa? Sta di fatto che dalle mie parti c’è stato un periodo quando ero ragazzo e frequentavo i miei coetanei in cui chiamavi Roby e si giravano in venti in un colpo solo. Un amico mio omonimo e il sottoscritto c’eravamo addirittura inventati un programma radiofonico in cui tutti si chiamavano Roberto. I due presentatori, lui e io, gli inviati a raccogliere finti servizi sul territorio, ancora io e lui. Ci sembrava una buona idea da proporre come format a qualche emittente locale. Ci siamo persino incontrati una volta per mettere a punto la puntata pilota con tanto di mixer e registratore. Ma lui aveva un po’ di erba e alla fine abbiamo desistito perché non la smettevamo più di ridere e ci toccava rifare sempre tutto da capo. Fino ad ammettere che l’idea non era granché, meglio archiviarla tra gli ennemila progetti lasciati a metà, anzi meno della metà.

Poi per fortuna la moda di chiamare Roberto è passata, chissà quanti altri trend di questo tipo sono nati, hanno raggiunto il top e quindi tramontati nella severa quanto giusta indifferenza generale. Ma, come tanti altri, vedete che anche i miei genitori si sono fatti omologare dal mainstream e dal momento che cercavano un nome che iniziasse per erre e che completasse la trilogia con le mie sorelle maggiori battezzate con la stessa iniziale hanno pensato a Roberto. Non immaginate quante volte mi sono reputato salvo per miracolo, pensate se avessero scelto Romualdo o Rodomonte o Rastrello. Scherzo eh, che visto come tira il momento vedo già frotte di commentatori che si chiamano così offesi solo perché il loro nome non rientra nei miei gusti. Sì, lo so che rastrello non è un nome proprio ma mi faceva ridere.

Ecco, il nome che è una cosa che volente o nolente ti porti dietro tutta la vita e oltre, perché come se non bastasse arriva il momento in cui te lo scrivono a indicare che in quell’urna è stato raccolto quel poco che è rimasto di te. Ma il vostro nome, se ci fate caso, alla fine quando lo usate? Ok, nei documenti ufficiali, a volte ma non sempre per compilare i form, nella firma, per farvi riconoscere quando occorre. Per il resto ci firmiamo con l’iniziale puntata, come R., oppure con un diminutivo. Io ho scelto Rob, lo uso in calce alle email e non chiedetemi il motivo che non so spiegarlo. Sul lavoro nessuno mi chiama Roberto perché è un nome lungo, credo, o forse perché non mi somiglia e così tutti usano Bob, o Bobby, o addirittura Zio Bob che non so come sia venuto fuori. A scuola sempre per cognome che però non vi dico, mica voglio mettere a rischio la mia privacy on line che già ho rivelato il mio vero nome. Ma perché ci si chiude dietro a nick, poi. Perché si sceglie l’anonimato? Chi crediamo di incuriosire con il mistero di una sequenza alfanumerica come la mia, o con nomignoli evocativi per farci sentire nelle discendenze di qualcos’altro?

In casa mi chiamano papà, papo, per non parlare di tutti i teneri modi di rivolgersi tra partner che ci si potrebbe scrivere un dizionario. Anzi, quando mia moglie pronuncia per intero il mio nome mi suona strano ma non è come nei film che bisogna stare all’erta perché si è agitata per qualcosa. No, lo fa per gioco, per sentire come suona il mio nome con tutte quelle erre, un nome di sicura provenienza germanica. In quel caso mi sento un estraneo, non so se capita anche a voi se avete nomi formati da più sillabe. Devo fermarmi a pensare se davvero si sta rivolgendo a me, a furia di sigle e nick forse è un nome che non mi appartiene più. O forse è solo che nell’era degli indirizzi IP il nome è superato. Comunque io mi chiamo Roberto, molto piacere.

opportuno

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– E così sei tu il laureando. Ci sarà tanta claque oggi alla discussione della tua tesi?
– No, solo mio nonno e la mia fidanzata, che mi seguirà in streaming dalla Francia.
– Come? E i tuoi genitori? Non vengono?
– No, sono orfano.
(da “Le grandi gaffe di Plus1gmt, vol. 2″)