difficile da mandare giù

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Il codice della buona educazione verso il prossimo comprende tra le prime dieci posizioni il “non si parla con la bocca piena”, che le persone hanno schifo del bolo altrui. Ho una specie di collega che prende alla lettera le indicazioni su questo comportamento corretto al pubblico tanto che sembra vivere con angoscia la possibilità di violazione della privacy del cibo in fase di masticazione. Forse è la paura che la ptialina, sorpresa da terzi nello svolgimento delle proprie funzioni proto-digestive, non riesca a portare a termine il proprio lavoro sui carboidrati, non so, dico così per dire. Per questo tende a tenere la mano davanti alla bocca per tutta la durata del pranzo, che alla lunga secondo me è una posa che dà più fastidio di qualche sputacchio verso i commensali. Perché non sta zitta un attimo e non vuole rinunciare a parlare, dire la sua è oltremodo importante ai fini della conversazione. Parla e parla ma sempre rigorosamente con la mano davanti alla bocca che ti aspetti che invece debba sbadigliare. Poi ho scoperto che si copre le cavità orali anche quando parla senza mangiare e c’è qualche estraneo o semplice conoscente in prossimità. Allora ho pensato che possa trattarsi di alitosi o della convinzione di non essere apprezzata per gli odori connessi all’alimentazione e all’apparato ad essa preposto. O forse ha una brutta dentatura come la mia o ha la lingua come Gene Simmons, ma vi giuro non lo perché non si riesce a capire, quella fascia dal naso al mento è off limits.

dite cheese

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Quando vedo le foto delle rockstar o degli attori americani al college in quei bellissimi album commemorativi che, indipendentemente dall’anno del diploma o della classe di appartenenza, sembrano sempre così vintage anche se i ritratti sono molto recenti, provo una enorme invidia nei confronti del sistema scolastico americano che offre un modo così banale ma d’effetto per essere ricordati da tutti i compagni di corso negli anni a seguire. Ciascun alunno con il proprio spazio ben definito come in un album delle figurine Panini, il sorriso e lo sguardo verso l’ignoto lettore che, nel momento dello scatto decisivo, incarna il futuro in una gamma che negli Stati Uniti va da Bill Gates a quello che tiene segregate ragazzine in casa per dieci anni, passando per buontemponi del calibro di Kurt Cobain o una delle tante Beyoncé che si alternano nell’immaginario pop a stelle e strisce. Ci penso ogni anno in questo periodo di foto di classe, quando i bimbi della primaria sono in fibrillazione per l’istante che suggella l’anno scolastico che volge al termine. Cortili e giardini che fanno da teatro a tante speranze – per lo più dei relativi genitori – messe in posa in due o tre file, dove è facile notare la mancanza di questo o quel compagno di classe della propria figlia che poi vieni a scoprire che non è che fosse ammalato, solo che mamma non ha voluto dare l’autorizzazione per la privacy perché chissà in mano di chi la foto di classe può finire. A me sembra che la questione della privacy abbia rincoglionito tutti, perché poi quelli che ti fanno storie alle feste di compleanno sono gli stessi che, su Facebook, postano le foto delle vacanze con i bambini in costume che, se la vogliamo proprio dire tutta, se la paura è quella della pedo-pornografia sono ancora peggio. Ma non volevo fare la morale alle persone che credono che nelle famiglie vicine si praticano i più turpi vizi nei confronti dei bambini, mentre a casa loro lasciando libertà ai minori di seguire le trasmissioni di Italia 1 o MTV è ancora peggio. C’è un altro aspetto importante di cui tenere conto. Quando passo nella cameretta di mia figlia e vedo appesa nella bacheca sopra al letto la foto della sua classe del 2012, vedo una sfilza di bimbi tutti con gli occhi strizzati perché il fotografo, lo scorso anno, li ha posizionati rivolti verso il sole che quel giorno doveva essere molto forte. Il risultato è imbarazzante, nel senso che non serve essere fotografi professionisti ma persone armate di buon senso per arrivare a capire l’effetto di una azione così demente. Così, chiacchierando con un amico che invece è del mestiere, ho scoperto che – giustamente – il criterio con cui le scuole attribuiscono gli incarichi per questa attività – così popolare quanto sempre più discussa – è unicamente il costo. Vince chi si fa pagare di meno. Un criterio che, con qualche eccezione, premia spesso l’incompetenza, il pressapochismo, attrezzature scadenti, improvvisazione, metodi sbrigativi. Poi, come mi capita sempre di dire, nella scuola e per di più primaria siamo abituati purtroppo alla qualità terra terra. Cose fatte male alle quali non facciamo più caso perché abituati alla tv satellitare che si vede male, alle cose che si guastano dopo poco che le compri, alle insegne dei negozi di tutti i tipi e colori malgrado l’architettura degli edifici, e tanto altro ancora. Poveri bambini, tutti con il sole in faccia e gli occhi chiusi a sorridere alla propria vita che li aspetta dall’altra parte dell’obiettivo, dove al momento della foto c’è solo un incapace e che non sarà, purtroppo per loro, la prima e unica volta.

le donne e i tempi dispari

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Mia moglie che ama i The National quanto me, anzi forse di più perché il fascino di Matt Berninger conferisce quel qualcosa che il genere femminile riesce a cogliere a differenza di noi maschi che invece siamo soliti schermirci con un’inutile pellicola omofoba, nemmeno se subire il sex appeal di un uomo fosse la fine del mondo, dicevo che mia moglie ha lasciato che i tempi dispari dei due brani con cui si apre il loro nuovo album “Trouble will find me” influenzassero il suo giudizio su tutto il resto del disco, non entusiasta come per il precedente – comunque oggettivamente inarrivabile – “High violet”. Inutile che vi dica che il titolo di questo post è volutamente sessista nel senso che anche se non ci riesco sempre cerco di conquistarvi con la mia ironia e la mia modestia, nel senso che mia moglie non ha pregiudizi musicali e si lascia consigliare di tutto. Però il sette quarti la mette a disagio per il superficiale senso di mancanza di equilibrio nelle parti, quella non chiusura dovuta all’assenza di un elemento conclusivo a sancire il ritorno all’inizio. E non è l’unica. Frutto della cultura di background di noi occidentali, questa è la scusa più plausibile e con un fondo di verità valido per un’esperienza come quella dell’ascolto, tra le più immediate nel processo di assimilazione della nostra mente e del nostro corpo. Ti arriva il segnale e tu lo percepisci per come sei fatto dentro, e se sei cresciuto in quattro quarti o, al massimo, con i valzer dei nonni, già ti vedo che inciampi e sbatti le ginocchia contro i battiti perché cercavi quello di chiusura della battuta e hai preso dentro lo spigolo dell’uno che non avevi visto ripresentarsi. Io sono convinto che, nei casi come il nostro in cui la disparità non ci è congeniale, subentrino due fattori, due spunti di riflessione. Intanto c’è l’abilità del musicista nel mascherare lo sbilanciamento ritmico evitando di sottolineare la mancanza dell’ultimo battito ma cercando di amalgamare il tutto in modo che l’ascoltatore non sia indotto a soffermarsi su ogni singola battuta ma colga la successione di pattern dispari come un blocco unico da prendere così, una sequenza di loop anomali che danno vita però a una trama regolare. Ci sono casi in cui i pezzi in sette possono essere addirittura ballabili, pensate a Disco Labirinto dei Subsonica. C’è poi il vizio di fondo della danza su ritmi pari perché derivante dalla composizione binaria dei nostri arti e della percezione simmetrica del nostro corpo. Facciamo un gesto a destra e inevitabilmente rispondiamo con uno speculare a sinistra. Un passo e quello dopo. Così ciò che non è ballabile di pancia non rientra nei nostri gusti, dobbiamo fermarci per capire l’andamento. E se osserviamo questo fenomeno da un punto di vista di chi suona, il rischio è lasciare il sette quarti di unico dominio del rock progressivo, quando invece altrove va a costituire matrici diffuse di musica popolare. Non so, pensate al caos del riff di “Luglio, agosto, settembre nero” invece come ormai ci è entrato nel sangue tanto che lo eseguono persino i supergruppi del Primo Maggio. O pensate ancora alla lunga parte strumentale di “Cinema show” dei Genesis, come sembra una composizione regolare dopo decenni di ascolti ed esecuzioni (per modo di dire, a farla bene occorre essere davvero preparati, io ci riuscivo solo a metà). E i brani di apertura del nuovo lavoro dei The National sono la massima espressione dei tempi dispari nella modernità, a dimostrazione che il songwriting può avvalersi anche di metriche traballanti pur sembrando in linea con tutto il resto della produzione di un gruppo come il loro. E sono certo che mia moglie, dopo qualche ascolto, la penserà come me.

spazio 1999

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Tutti si chiedono come sarà la vita nel duemila. Quali attori saranno sulla cresta dell’onda e se ci nutriremo di pillole e di cibi liofilizzati come vaticinano i registi della fantascienza. Se ci saranno alieni a insegnarci come eleggere i nostri rappresentanti o se sarà giusto o no espellere quelli che non stanno ai patti nei movimenti di riscossa popolare, magari con sistemi inutilmente innovativi. Sta di fatto che nessuno crede che le grandi questioni che affliggono l’umanità potranno essere risolte. Non aspettatevi quindi che il trentun dicembre del novantanove sarà l’ultimo giorno utile per le miserie, le lotte fratricide e le guerre, i disastri ambientali, gli incidenti sul lavoro, il terrorismo, la maleducazione o il cattivo gusto di certa gente. I nostri antenati, all’alba del ventesimo secolo, anche loro erano pieni di speranze e non potevano certo immaginare che stesse per cominciare un periodo così contraddittorio, denso di grandi scoperte ma anche di tragedie. Il microchip e l’olocausto.

Ciascuno di noi però spera che il solo fatto che esista un futuro, almeno questo auguriamocelo, permetta di riporre nel domani ogni desiderio di rivalsa o di progresso, perché è così che funziona. Le cose, come le lancette, vanno per forza in avanti e nessuno sarebbe disposto a rinunciare a conquiste quali la libertà dalle schiavitù vere o metaforiche, il presidenzialismo e il sistema democratico o la sanità pubblica solo per un capriccio, per una moda, per un cambiamento fine a se stesso.

Proviamo a immaginare un giorno qualsiasi del duemila, tiriamo a sorte aprendo un libro dove capita. Sommando il numero delle pagine con lo stesso meccanismo con cui certe prof di matematica alla fine simulano la casualità per interrogare sempre gli stessi scansafatiche capelloni, ecco che è venuto l’undici maggio duemila e tredici. Facciamo un gioco. Dove vi immaginate l’undici maggio duemila e tredici? Come sarete e con chi sarete in quello che sarà un giorno qualunque, come oggi e come tutti gli altri undici maggi della storia (lo so che i mesi non si mettono al plurale ma lasciatemi sperimentare un po’ di avanguardie che forse sono anticipi dei trend del duemila) da quando le cose funzionano come sappiamo, con il sole che sorge, la terra che ruota e così via.

Ecco, io mi immagino quel giorno, seduto sugli spalti della palestra di una scuola elementare, c’è mia figlia – che nascerà probabilmente nel 2004 – che gioca un torneo di pallavolo, è ancora piccola e la formula è quella dei più incontri tra formazioni di tre giocatrici. So che devo prepararmi psicologicamente, tra tempi di attesa e gioco l’unica forza al trovare interesse nello spettacolo è l’abnegazione genitoriale, questo non lo dico solo io.

Sono seduto sugli spalti e non so se essere più sbigottito dalle scarpe indossate dalle persone che sono intorno a me o dal fatto che il genere umano abbia trovato un sistema elettronico attraverso il quale incanalare parte della sua rabbia ignorante e dargli voce, tanto che giornalisti e intellettuali vi sfuggono come una volta gli aristocratici si tenevano alla larga dalle bettole e dalle piazze. Questo è ciò che dicono i quotidiani di quel giorno che deve ancora venire.

Ho con me un coso a cui, dal passato, chiaramente non riesco a dare un nome né a descriverne nel dettaglio la composizione ma so che, con quel coso, posso fare delle fotografie e condividerle all’istante con migliaia di persone. Così per evitare di insultare l’allenatore e prendermela con il sistema che ha organizzato in modo pessimo quel mini-torneo a dimostrazione che la cura per tutto ciò che riguarda i bambini è latente in ogni periodo storico – un tempo a sei anni si costringevano i minori a scavare in miniera, oggi chi è preposto all’educazione dei tuoi figli pur pagato si ricorda a malapena il loro nome – ho il presentimento che con quel coso mi metterò a fare foto alle scarpe che le mamme delle compagne e delle avversarie della squadra di mia figlia indossano e le pubblicherò su una specie di bacheca virtuale, alla mercé di una comunità di stronzi come il sottoscritto che vedono la deriva sociale soprattutto negli inutili ghirigori tatuati che le stesse mamme sfoggiano sui piedi. Ma chissà, forse l’undici maggio duemila e tredici non sarà così, noi quattro gatti del PD saremo su Marte a misurare le dinamiche sociali degli extraterrestri – che ci sembreranno tamarri tanto quanto gli italiani – con la nostra presunta superiorità morale ed estetica, che alla lunga però stufa soprattutto in assenza di gravità.

gente che va, gente che viene

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Era un periodo in cui li trovavi tutti su Blob, ogni sera su Rai Tre. Cambiavi canale e tra il meglio del peggio della tv che aveva pezzi da novanta come Sandra Milo e Alba Parietti passavano rapidi tagli con le persone con cui avevi bevuto una birra la sera prima. Anche uno dei soci della software house in cui lavoravo come programmatore aveva avuto un cammeo, una volta, tutti dicevano che era un artista ma io, a dirla tutta, non gli avrei dato due lire. Un altro che faceva mostre con ritagli da riviste porno, particolari molto espliciti, anche lui era stato trasmesso. Pure quel video off in cui passavano in rassegna nottambuli sbevazzoni che non avevano di meglio da fare che pisciare nel buio contro i muri dei vicoli, o nei portoni, rei di atti scemi in luogo pubblico ignari di essere ripresi da un occhio attento e un nastro affidabile. Il gruppo di raggamuffin in dialetto che sfrecciava in ape sulla sopraelevata. Avevo persino mangiato un ottimo minestrone a casa del più geniale di tutti, suonava la tromba e la chitarra e si esercitava anche davanti ai fornelli. Lui e il suo gruppo avevano persino composto la musica per lo spot di una delle birre industriali più conosciute, e i video dei loro brani erano montaggi autoprodotti con disegni animati in bianco e nero degli albori del cinema che tra i ritagli o come sigla finale non mancavano mai. Una volta mi sono visto di spalle, non in una delle riprese delle varie feste di africani e italiani che ballavano insieme, ma tra il pubblico di un cantante con cui poi sono finito a dividere il palco, quando ormai aveva tutte le caratteristiche di una vecchia gloria, uno che ha perso il treno. Ma dev’essere andata proprio così. Ci sembrava davvero di abitare nel posto più all’avanguardia del mondo, poi non so cos’è successo ma sono andati tutti via.

nati con la camicia

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Non è che uno può cominciare a vestirsi business così, da un giorno all’altro. Il business lo hai dentro e qualunque cosa tu metta sopra quella scorza frutto di millenni di evoluzione per trasudare business, se il business non fa parte della tua natura il corto circuito è fatale. Ora guardati allo specchio. Sei business già nela forma del cranio e, nolente o volente, nel taglio e nell’acconciatura dei capelli. Sei molto business se sei pelato, ma lo se ancora di più se hai il ciuffo di quel grigio chiaro e uniforme che viene solo alle personalità business, sopra ciglia che una volta erano bionde e occhi rigorosamente non marroni. Che banalità. Tutto il resto non è business comunque. Basta una pettinatura corta e la barba di quelle che crescono male, anche uniformemente ma con il pelo che resta perpendicolare alla faccia e sembri un anziano poco di buono dei cartoni animati, anche se hai quarant’anni. E ci sono pure le spalle, il torace, l’addome, i glutei e persino le cosce business, tutte componenti che dentro un abito business lo riempiono e ne completano i volumi. Infatti non è che tutte le persone che ostentano la propria “businessness” sono realmente business, non è che hai i soldi entri alla Coin, ti metti un vestito di sartoria a quattro cifre e puoi considerarti business. La pancia davanti, le gambe storte, la schiena curva, sono cose che è difficile da nascondere ma tra persone business ci si passa sopra, non sarebbe infatti business se non ci fossero di mezzo i soldi e il potere d’acquisto. Se i soldi non ce li hai sei fuori dai giochi. Puoi anche provarti lo stesso Hugo Boss che è in esposizione sul manichino ma ancor prima di pensare a quanto cazzo costa ti spogli nel camerino e i vestiti vecchi che appoggi sulla panchetta sembrano un cumulo di cenci prossimi al falò. Allora ti si sgonfia una parte dell’insieme, una componente di quelle che dicevo prima e che generano i giusti volumi per cui sei fiero di aver usato la carta di credito – spalle, torace, addome, glutei e persino cosce – e magari noti l’alluce valgo che spunta e fa capolino insaccato nel tubolare di spugna dal fondo dei pantaloni canna di fucile abbondanti sui piedi, che dovrai chiedere a tua madre o a tua suocera per l’orlo, mentre da ragazzo chiedevi alla zia o alla nonna. Ecco, questo per dire che il quadro non è business, proprio per un cazzo.

Quello è il punto di rottura, tanto che alla fine ti focalizzi sul tuo orgoglio casual business, che non è business è può dare adito a tante interpretazioni quante sono le individualità del nostro tempo. Anche le Geox, anche Robe di Kappa negli stock che finiscono nei reparti abbigliamento della Coop, anche i Rica Lewis, per intenderci. Tutto. Casual business è business di risulta. Meno dell’entry level, quasi una sottomarca. Casual business alla tua maniera, perché non hai mai posseduto una Lacoste in vita tua. Nonostante ciò, nulla può demolire la tua certezza casual business, nemmeno la partecipazione a una cena di business puri con tanto di business ineleganti e di informalmente business. Una cena di lavoro, se no che business sarebbe, ripeto. Una cena in cui ti chiamano a rilasciare la tua dichiarazione su un podio al microfono, e il presentatore osservandoti in maniche arrotolate di camicia per il caldo e senza cravatta sottolinea il fatto che tu rappresenti il tuo business in modo molto molto informale. L’asta del microfono poi è molto bassa, e la curva casual business della tua schiena non dev’essere un bello spettacolo, come la voce che, parlando così velocemente, non sarà arrivata comprensiva a nessuno. Così, mentre torni al tuo posto ancora casual business e prima di ritornare clamorosamente anonimo, pensi a tutti i posti in cui sarebbe meglio essere. Senza vestiti. Tenendo conto però che anche gli aborigeni, nella loro nudità, a modo loro alcuni di essi sanno essere molto business.

in fondo, il simbolo @ un po’ la A cerchiata la ricorda

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Talvolta l’ingenuità del genere umano di fronte alle enormi opportunità e ai rischi che le potenzialità insite nell’Internet comportano continua a sorprendermi. Gli hacker che rubano le email degli stellari sprovveduti e l’anarchia denunciata da Laura Boldrini sono una presa di posizione lecita quanto inutile, come quelli che si ostinano a dichiarare illegali dei vegetali solo perché a fumarli ti gira un po’ la testa o le manifestazioni per dire no alla povertà. Voglio dire, denunciare un fenomeno a volte suona come cercare di piegare cucchiaini con la forza della mente. Solo Uri Geller ci riusciva, ma con il trucco. La diffusione incontrollata e incontrollabile della rete nostro malgrado non può essere soggetta a limiti o censure, continueranno a perpetrarsi crimini e ingiustizie perché Internet è costituita da grandi piazze frequentate e illuminate come da anfratti bui dove tramare di nascosto, fermo restando che come nella vita reale si possono mettere a segno gesti eclatanti e forieri di conseguenze gravi perché la gente è curiosa e ficca il naso dappertutto, con la differenza che da questa parte delle periferiche è ancora molto facile preservare l’impunità. Mettersi in mostra o cercare la privacy sul protocollo Internet è come dare la propria autorizzazione a questi pericoli e bisogna farsene una ragione, se non si è consapevoli di ciò è meglio non accenderlo nemmeno, il computer, o tornare a un modello di informatica d’altri tempi. Ma, se volete la mia opinione, sempre meglio l’@narchia del faxismo.

hai portato i cinque euro?

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Tra i membri di una classe di un qualsiasi corso di qualunque natura, fotografia o attività sportiva amatoriale o scrittura creativa o avviamento alla degustazione di birre, oltre al leader, al suo braccio destro, i gregari, quelli che si imboscano, quelli che aiutano e quelli che dicono si potrebbe e si dovrebbe, trovano spesso posto quelli che fanno il regalo di fine anno all’insegnante e raccolgono i soldi, talvolta in palese conflitto di interesse se l’oggetto del dono è di loro competenza, lo commercializzano, lo assemblano, lo producono. Io poi non sono molto portato per i regali, un po’ perché sono ligure e mi spiace separarmi dal denaro, un po’ perché sono entrato in crisi da quando non si possono regalare più dischi perché tutti se li scaricano, non si possono regalare libri perché nessuno legge più, per gli oggetti personali occorre conoscere bene il territorio per sapere dove acquistare cose fighe senza andare in rovina, si possono cercare cose carine su Internet ma poi mi ricordo troppo tardi e non ci sto dentro con i tempi di spedizione. Un tempo andavo sul sicuro con i miei scrittori preferiti. Ma è l’idea in sé che mi turba, non so, non mi sembra il caso. Comunque regalare un libro a una che fiacca di addominali il prossimo due volte alla settimana può sembrare pretenzioso. Forse è per questo che quella che nel mio corso di atleti della terza età si è auto-incaricata in pieno trend grillino di rappresentare il gruppo per la scelta del regalo di fine anno a suggellare l’entusiasmo degli iscritti per i risultati conseguiti, forte della sua appartenenza a una setta di fanatici del biologico da ricchi, ha optato per un cesto di prodotti a chilometro zero, quelli della cosa giusta e dei mercatini della solidarietà e della salute anti-GDO alimentare. L’operazione è iniziata con largo anticipo, almeno a un quarto del secondo quadrimestre, e ora vira verso la conclusione, con tanto di consegna ufficiale e baci sulla guancia di ringraziamento programmata per l’ultima lezione. A cinque euro a cranio, che io manco a farlo apposta me ne dimenticavo sempre ma, ogni volta, c’era proprio lei a ricordarmelo. D’altronde, defilarsi mi pareva brutto, vero?

decentrare l’argomento

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C’è tutta la vita di tempo per andare fuori tema, ma a qualcuno capita di rimanere in periferia del nocciolo della questione più o meno sempre. Nell’entusiasmo della risposta, dell’esposizione o dello svolgimento scritto si fa presto a smarrire la strada o a prendere l’autobus o la metro nella direzione sbagliata. Sali su in superficie e ti ritrovi in un altro contesto dove, se proprio hai orgoglio, puoi continuare con la dimostrazione e la ricerca del risultato anche lì, con punti di riferimento nuovi o anche inventati. Rimanendo ai margini c’è comunque tutta una narrazione che ha il tono di quelle circonvallazioni concentriche che ci sono qui a Milano, negozi che passano di mano in mano, mezzi pubblici gremiti e parcheggi selvaggi nel segno della temporaneità. Così c’è chi è preposto a dirti che è tutto bello ma che non c’entra, che non era questo su cui occorreva spendersi, che in un altro contesto saresti potuto anche risultare accettabile ma non in questo. Sei OT, come si dice sul web, sei uscito fuori dal seminato, altrove, altri discorsi, magari altri tempi. Sbagliati, questo è sicuro. E vedete, anche qui, volevo parlare di un’altra cosa ma poi è finita che mi sono perso.

non c’è più religione

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A pochi passi dal mio nuovo ufficio c’è un esteso complesso scolastico di diversi gradi che comprende un oratorio parrocchiale, il che la dice lunga sulla proprietà dell’intero stabile grande quanto un quartiere a sé. Si tratta di un edificio dei primi del novecento il cui perimetro, frammentato da cortili delimitati da cancellate, a percorrerlo a piedi consente di smaltire un pranzo medio da giornata lavorativa.

La mattina è tutto un brulicare di genitori che accompagnano bambini, mamme e papà non più giovanissimi malgrado i figli in tenera età a cui si alternano analoghi quadretti di stranieri strutturati già più come l’opinione comune vorrebbe fosse composta una famiglia da un punto di vista della connotazione generazionale. Il che non vuol dire un cazzo, per carità, è solo che gli ultraquarantenni come me costretti nella postura da scudo protettivo verso l’esuberanza della progenie si caratterizzano per l’innaturalezza dei gesti di chi, con i capelli quasi bianchi, dovrebbe dare pacche sulla spalla a figli laureati o giù di lì e invece siamo ancora al livello delle gite al Museo Egizio di Torino. Ma – e chiudo questa parentesi da sociologia da tanto al mucchio – è evidente che un quartiere così come questo è abitato da gente che ha fatto carriera (per quelli come me che sono come loro ma non l’hanno fatta una qualunque indagine sarebbe banale) e dal relativo personale preposto all’aiuto famigliare. Tate, badanti, colf, portinai, tuttofare di evidente provenienza intercontinentale.

Verso le diciotto, invece, è tutto deserto tranne l’ingresso dell’oratorio, davanti al quale stanzia un gruppo di ragazzini sui quattordici o quindici anni, forse qualcosina in più. Notavo però le facce, l’abbigliamento e il comportamento di questo insieme piuttosto omogeneo che, a quanto sembra, frequenta il ritrovo parrocchiale o, almeno, sembra usufruire dei servizi di aggregazione. Un tempo i ragazzi dell’oratorio erano una categoria ben definita. Avete presente, no? Dicevi “quello è un ragazzo dell’oratorio” se intendevi uno un po’ babbionello, con il k-way chiuso e legato in vita come un’escrescenza corporea, gli occhiali con le lenti spesse e i brufoli, un taglio di capelli ordinario e una manifesta propensione alla conduzione di un’esistenza di fede e rigore. Nulla di negativo, anzi, vuoi mettere uno così con uno che da grande diventa come Pino Scotto o, peggio, Capezzone?

Ecco, i ragazzi che si ritrovano nei pressi dell’oratorio ubicato a un isolato dal mio ufficio, nel tardo pomeriggio, non sono così. Ascoltano Fabri Fibra con lo smartphone, sfoggiano creste e sputano, mentre le ragazzine vestono succintamente e molto attillato, discutono animatamente di tematiche tutt’altro che riconducibili alle Sacre Scritture e non invitano al contatto intergenerazionale. Anzi, diciamo che cambio il marciapiede proprio per non passare in mezzo a loro, per evitare di prendermi una pallonata, uno sputo sui pantaloni, qualche sfottò vista la mia appartenenza anagrafica. Insomma, tutto fa pensare a una categoria di giovinastri più affine a quelli che definiremmo teppisti di strada. Ed è strano, vista l’utenza del mattino. Nulla che richiami a una provenienza di buona famiglia o a un’estrazione di un certo livello. Chiaro che questa mia esposizione ottocentesca di una scena piuttosto comune a qualsiasi latitudine della nostra penisola è voluta e paradossale. I ricchi non mandano certo più in giro i propri rampolli adolescenti con i completi di lana e i papillon, e l’intamarrimento generale della nostra società è riuscito a superare le differenze tra le classi sociali più di ogni altro tentativo politico o culturale dei decenni passati. Più dell’associativismo, dei dopolavori, dei concerti di Pollini nelle fabbriche e delle gite sui campi da sci a prezzi popolari. Il problema è che tutto è omologato verso il basso, e questo sì, lo ammetto, è un giudizio morale.