mi piace ma non è il mio genero

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Il padre della mia ragazza mi sta sul cazzo perché è presuntuoso e poi fa cose strane. Ho notato che quando ci accompagna in auto da qualche parte passa il tempo del viaggio a fare zapping con l’autoradio finché non trova una stazione che trasmette canzoni che piacciono a lui e a quel punto ho come l’impressione che voglia sfidarmi a colpi dei suoi gusti perché se ne infischia se chi è lì non gradisce. Sa che suono e ho un gruppo e vuole far pesare il fatto che anche lui è stato un musicista e ha una conoscenza del settore davvero impressionante, questo lo devo ammettere, sembra che non abbia mai fatto altro nella vita che scaricare musica di tutti i tipi o acquistare vinile dagli Stati Uniti per compensare in qualche modo il senso di colpa provato. Ma non posso fare alcuna obiezione perché è il padre della mia ragazza e ho paura che lei se la possa prendere visto che gli è così affezionata. Sono molto uniti, hanno passato un casino di tempo insieme ma ora lui deve mettersi in testa che sua figlia è grande e ha una sua vita privata. Il guaio è che finché non ho la patente non posso accompagnarla ai concerti, e secondo me lui ci porta perché così può entrare senza vergognarsi di essere il più vecchio, ha la scusa di essere in nostra compagnia ma non è mai successo che è rimasto fuori. Anzi, si mette in fondo ma balla e non si perde un pezzo. Loro due ascoltano più o meno lo stesso genere e io mi sono dovuto adattare, anche se certe cose proprio non mi piacciono.

Poi è successo che un paio di settimane fa senza dirmi niente lei gli ha fatto avere la demo che abbiamo finito di registrare il mese scorso, voleva fargliela sentire a tutti i costi ma io no perché non mi interessa il giudizio di un adulto che è così distante dal nostro modo di vivere la musica. Gli altri del gruppo dicono che invece è perché temo il suo giudizio ma non è vero. Insomma che la mia ragazza gli ha passato i file ancora caldi dal mixaggio e poi me lo ha detto e subito mi sono incavolato ma ormai il gioco era fatto. Lei era convinta fosse stata una buona idea, io mica tanto. Così dopo qualche giorno sono passato a prenderla per uscire e al citofono lei mi ha chiesto di salire. Era sabato e c’era suo padre in casa che mi ha detto siediti che ascoltiamo i tuoi pezzi insieme. Ero imbarazzatissimo, volevo dirgli che non era proprio il caso e sarei corso via di lì se non avessi rischiato di fare una pessima figura con tutta la famiglia, c’era anche sua mamma che anche lei non è una che mette a proprio agio chiunque. Mi siedo e lui armeggia con il remote controller del suo sistema multimediale, che è perfetto finché non deve ascoltare i suoi vinili che mi domando chi ci sia ancora nel 2020 che si compra i dischi a parte lui. Parte il primo pezzo, l’atmosfera si fa gelida, vorrei chiedergli di abbassare il volume perché trovo fuori luogo che una persona di quell’età ascolti musica così. Poi il secondo, che secondo me è il migliore, e lui inizia a dondolare il collo e fa un gesto che non capisco cosa significhi, probabilmente è un modo di dare l’approvazione che si usava quando era giovane lui. Con il terzo si è sollevato dal divano e ho notato che si muoveva a ritmo, non è che stesse ballando ma ogni piccolo gesto lo faceva a tempo anche se la canzone è in sei. Passata anche l’ultima pausa prima della quarta canzone, quella con cui si conclude il nostro EP, che le pause sono le peggiori perché c’è il silenzio e per fortuna durano solo un paio di secondi, si è seduto accanto a me, ha annuito con il capo, mi ha guardato e mi ha chiesto se ci serviva un tastierista.

la vedo nera

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Poveri deathmetallari o gothic-brutal-epic-symphonic-quelchel’è costretti a cercare rifugio dietro a colonne e pensiline per riparare il loro pallore epiteliale dalle angherie funky-reggae-latin del caldo di questi giorni. L’estate è così cinica nel rovinargli addosso l’inadeguatezza dello loro divise di stagione, e li insegue uno ad uno mentre cercano scampo per le vie trascinando gli anfibi che un discutibile compromesso gli consente di calzare slacciati sugli stinchi. E oltre che là dentro, i raggi solari si insinuano tra le lunghe code di cavallo con cui uomini e donne raccolgono i capelli sulla nuca, sotto la tracolla del tascapane nero sulla spalla, intorno alle magliette sulle quali il sonno della ragione musicale ha generato mostri del rock e alle bermuda con i tasconi di cui le linee guide ammettono l’uso lasciando scoperte le ginocchia ma solo perché si tratta di un caso eccezionale che lo dice anche Pino Scotto in tv. D’altronde non ci si può sentire in un modo quando fa freddo perché i propri beniamini vengono dai ghiacci del nord e perché fa comodo e poi mandare a monte mesi di ascolti impossibili solo perché il sudore costituisce una minaccia sociale. Il buco nell’ozono e il global warming sono però una realtà, checché se ne dica, e in qualche modo occorre far fronte. Cari deathmetallari o gothic-brutal-epic-quelchel’è, date tregua a voi stessi e evitate le ore di punta quando la massa commerciale si riversa sui mezzi pubblici, che già c’è abbastanza da soffrire così.

lo zen e l’arte di avere pazienza con i treni in ritardo

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Oltre a essere un Paese di allenatori della Nazionale e di Presidenti del Consiglio, e anche di eterni indecisi su cosa e quando alcuni nomi vadano scritti con l’iniziale maiuscola o no, siamo anche un popolo (questo sono sicuro che va minuscolo) di addetti ai trasporti pubblici ed è facile accorgersene se c’è gente come me o come chi ha anche un blog dedicato al pendolarismo che sarebbe in grado di scrivere un’intera bibliografia su cosa va e cosa non va. Soprattutto oggi in cui le Ferrovie dello Stato o Trenitalia o come diamine si chiamano ora hanno pensato di organizzare un incontro con alcuni influencer e, come si dice, di metterci la faccia. No, non sono stato invitato, lo sapete che non sono nel jet set. Ma di treni e di cose che succedono lì sopra ne potrei raccontare a centinaia. Ho viaggiato su locali per frequentare l’Università ogni giorno, ho trascorso una media di quattro ore in andate e ritorni quotidiani per anni tra Genova e Milano per lavoro prima di trasferirmi definitivamente nella metropoli fino a diventare un tesserato modello delle Ferrovie Nord con tanto di card di ultima generazione con chip integrato per acquistare l’abbonamento on line e attivarlo in stazione, in attesa che tutto si possa fare con il telefono. E giusto ieri io e centinaia di lavoratori come me siamo stati sballottati in Bovisa da un convoglio all’altro perché purtroppo alcune situazioni critiche, come il gelo e la neve che ormai non costituiscono più un’eccezione o i lavori su una tratta che moltiplicano la necessità di convogli sull’altra – ovviamente vista la stagione si trattava di questo – l’organizzazione lascia a desiderare. Capisco che si tratti di un sistema logistico di una complessità inimmaginabile mettere insieme vagoni e orari e binari e stazioni, ma a volte vien da chiedersi su errori ripetuti se l’obiettivo sia quello di prenderci per il culo. E, per quello che vedo, la differenza in positivo tra Trenord e le linee della compagnia statale sono più che evidenti, soprattutto sul trasporto locale e per quello che riguarda il materiale utilizzato. L’antidoto alla sofferenza da treno chiuso pieno all’inverosimile che non parte e non si sa il perché è la full immersion nella narrativa. Questo per non riflettere sulla somma del tempo perso in ritardi e treni guasti, che se fai il pendolare e provi a fare due conti non sono bruscolini. Carichiamo sulla tessera allora i punti-vita individuali, ce li facciamo restituire in bonus e vediamo di quanto si allunga la nostra permanenza qui?

un lavoro di squadra

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La prima cosa che mi chiesero fu se fossi doriano o genoano, in perfetta linea con il desiderio primitivo di categorizzare il nuovo membro del branco secondo quella dicotomia calvinista tipica di alcune città divise a metà da un muro ideologico, più che fisico. Io però non seguivo il calcio almeno da quando Berlusconi era entrato a gamba tesa nel campionato italiano e anche quella era stata una parentesi. Mi avevano entusiasmato qualche anno prima alcune prodezze sportive dell’Internazionale che aveva conquistato uno scudetto con un punteggio record in classifica, un’infatuazione durata pochissimo e terminata con la cessione di Diaz che lasciò il posto a Jurgen Klinsmann e la conseguente rottura dell’equilibrio che aveva portato i nerazzurri a un successo così ampio. In tutto una ventina di mesi di tifo. Prima di quello, l’ultimo ricordo che ho di me davanti a un schermo intento a seguire una partita risale ai mondiali del 78, io in lacrime dopo i due gol che Dino Zoff aveva subito contro l’Olanda da due tiri da lontano e mio padre che mi minacciava dicendo che non mi avrebbe più lasciato seguire un incontro se non avessi imparato a dare la giusta gravità a una sconfitta della nazionale.

Così quando in occasione della prima uscita a pranzo con i nuovi colleghi mi venne rivolta questa domanda dall’ingegnere che era anche uno dei due soci dell’azienda con cui avevo da qualche giorno iniziato a collaborare, rimasi sbalordito perché erano quasi dieci anni che saltavo a piè pari le pagine sportive di Repubblica e anzi al lunedì non compravo nemmeno il giornale perché ritenevo la percentuale degli articoli dedicati al campionato indegna per una società sviluppata dell’occidente europeo come la nostra, o almeno come mi illudevo che fosse. Ma dovevo aspettarmelo che iniziando a lavorare per una software house ad alto tasso maschile e ingegneristico le probabilità di essere messo di fronte a domande come quella potessero essere elevate, è che speravo che il momento non arrivasse così presto. Così proprio mentre percorrevamo in linea i portici di Sottoripa direzione Gran Ristoro per raggiungere una tavola calda molto più dozzinale della paninoteca più fricchettona di Genova, il boss mi mise davanti alle mie responsabilità e lo fece a tradimento, dinanzi a tutti i miei nuovi colleghi.

Il primo istinto fu quello di inserire un elemento di discontinuità dichiarando la mia passione per una squadra oggettivamente più forte, un argomento che avrebbe messo a tacere ogni discussione se non su presupposti campanilistici. Ma non mi andava di dire tengo per l’Inter o la Juve o tantomeno il Milan di Forza Italia. In seconda istanza pensai a un outsider, ricordavo un mio compagno di liceo che era un supporter della Fiorentina ed era ligure quanto me e tu non potevi dirgli niente perché era sempre fuori dalle dinamiche competitive, così pensai alla stessa Fiorentina o al Torino o al Brindisi che aveva una divisa che mi piaceva da morire, bianca con una v blu davanti e avevo anche la squadra del Subbuteo. Ma se poi qualcuno fosse andato in profondità con domande tipo che ne pensi di quell’attaccante venduto o di quell’altro terzino più forte della serie B, avrei potuto fare una figura pessima e precludermi la fiducia se non addirittura la carriera futura. Che con il senno di poi forse avrei fatto meglio a finirla prima di incominciarla, ma questa è un’altra storia.

Così decisi di dire la verità tutta la verità nient’altro che la verità e confessai che, in fatto di calcio, mi ritenevo agnostico. Mai termine fu però più fuori luogo perché l’ingegnere capo aggrottò le sopracciglia forse pensando in quale team potessero riconoscersi i tifosi agnostici, d’altronde c’è anche una squadra di Bergamo che si chiama Atalanta, ma non voglio pensare che non conoscesse il significato della metafora che avevo usato per schernirmi in modo così poco virile. Ed è anche probabile che si sia sentito un po’ preso in giro e lui, in quanto maschio alfa designato per la superiorità di grado, abbia visto attentare alla sua autorità con un vile gesto anarchico del primo venuto. Così l’ingegnere capo liquidò la conversazione con un sogghigno e per riconquistare il territorio perduto si rivolse ad alzare la gamba dove sapeva di trovare terreno fertile per uno scambio di battute sul derby imminente, quell’altro ingegnere che come nelle più classiche storie di vita in azienda si lasciava battere a squash per scalare l’organigramma societario. Sentendomi in colpa e con l’obiettivo di sdrammatizzare il confronto, sfidai la sorte ordinando a pranzo lo stesso piatto che aveva scelto l’ingegnere capo, un secondo scaldato da schifo al microonde, e al suo commento di approvazione a suggello di inequivocabili versi di soddisfazione rincarai la dose, esaltandone le qualità organolettiche ma usando una terminologia più alla portata.

ultras lagaccio

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Questa cosa de Il Post che racconta tutte le storielle di ogni argomento caldo del giorno mi piace parecchio perché la fanno solo loro. E, a proposito del thread di oggi, anche io voglio dire la mia, perché, come immagino saprete, di biscotto vero ce n’è uno solo.

licenza media di utilizzo

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Caro blogger, mi permetto di scriverle per metterla al corrente di un avvenimento che le farà piacere, o forse no. Nel dubbio ho deciso di contattarla perché si tratta di un aneddoto a mio giudizio stimolante che potrebbe anche non sfigurare tra i suoi scritti, a me ha fatto sorridere e ho pensato che comunque fosse corretto informarla. Mi chiamo Irene e insegno materie letterarie in una scuola secondaria di primo grado della provincia di Cremona. Premetto che non sono una lettrice assidua di blog, ogni tanto capita che tramite Facebook o semplicemente via e-mail qualche amico o collega mi segnali notizie interessanti, ma in genere non ho molto tempo da dedicare a questo universo e forse quello che mi è successo costituirà uno stimolo per rivolgere maggiore attenzione d’ora in poi a quello che accade in rete, tra i suoi frequentatori e a siti come il suo. Ora vengo al punto. Ho appena terminato l’anno scolastico con una seconda, tutto sommato una buona classe. Tra i ragazzi si trova di tutto. Ci sono quelli già grandi, quelli che sono bambini a tutti gli effetti, quelli che hanno famiglie attente e quelli che sono meno al centro dell’attenzione a casa e la cercano in classe, tra i coetanei e verso i professori. Uno dei miei ragazzi, si chiama Ivano, ha delle forti carenze nella scrittura. Difficilmente ha raggiunto la sufficienza nella stesura di temi, per questo mi è stato facile adombrare sospetti sulla provenienza di alcuni svolgimenti scritti a casa, temi che gli assegnavo come esercizio, sorprendentemente scorrevoli e fin troppo ben costruiti. Ne ho parlato con i genitori che mi hanno assicurato la loro estraneità, non avevano dato alcun aiuto, il passo in avanti era fin troppo ampio per essere vero. Era palese che quegli elaborati non fossero farina del suo sacco. Era impossibile che avesse copiato di sana pianta da libri, molto più facile che avesse cercato “ispirazione” su Internet. Così ho provato a inserire intere frasi dei componimenti di Ivano sui motori di ricerca, e ogni volta come primo risultato ho ottenuto parti di post del suo sito su argomenti vari, dalle feste natalizie o temi più complessi legati alla famiglia e all’amicizia. Il che significa che gli argomenti di cui tratta nel suo sito sono eterogenei e trasversali – la immagino come una persona adulta, ho letto alcuni estratti in cui parla di sua figlia – che sono facilmente rintracciabili da Google e che denotano una freschezza tale da dare fiducia a ragazzi come Ivano (…)

La mail continua con alcune considerazioni che preferisco non riportare, mi limito a considerare l’età mentale e narrativa di quanto scrivo qui e l’affinità che ne può scaturire con un tredicenne. Cara professoressa Irene, tutto questo non può che mettermi di buon umore. E, caro Ivano, mi piacerebbe conoscere la tua versione dei fatti, quali brani hai fatto tuoi, quali impressioni ne hai tratto, se hai fatto solo un uso strumentale del blog, se hai copiato a caso o se continui a seguirmi.

come si accende la telemedicina

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Dopo una visita di controllo, in cui ho avuto conferma che sembra essere tutto ok, il cardiologo mi chiede se avevo portato con me l’ultimo ecg. Ma non essendomi stato ricordato in fase di prenotazione, ovviamente l’avevo lasciato a casa. Chiedo quindi al dottore se non avesse a disposizione in rete una cartella clinica virtuale con tutto lo storico della mia salute, almeno degli ultimi anni dall’avvento dell’informatizzazione nella sanità. Per lavoro leggo di consulti on line, di tablet in corsia, di check con codici a barre tra pazienti e farmaci in modo da abbattere il margine di errore in ambito ospedaliero e chissà perché mi ero fatto il film che, fatto un elettrocardiogramma o un qualsiasi esame presso una struttura della mia regione, l’esito comunque rimanesse archiviato in un database a cui attingere per ogni evenienza. Voglio dire: ho un incidente, mi portano in un qualunque ospedale della Lombardia, il dottore inserisce la mia tessera sanitaria in un lettore e il chip invia le informazioni a un sistema che gli riporta tutti i dettagli relativi alla mia salute. Oppure banalmente nel corso di una visita specialistica come quella odierna non serve che io porti con me i referti di analisi perché tutto è registrato in un data center della sanità, non dico nazionale ma almeno locale. Il cardiologo e la sua infermiera mi hanno guardato sbalorditi come se mi fossi espresso in gaelico, descrivendomi un ambiente di lavoro così come “lunare”, confermando che il film che mi ero fatto era di fantascienza.

nemmeno un prete per chiacchierar

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Non ricordo dove l’ho letto, però pensate quanto è vero. Non sceglieremmo mai per i nostri figli cibo scadente tantomeno dannoso, giusto? Allo stesso modo dovremmo mettere a loro disposizione risorse e oggetti di qualità e di buona fattura, a partire dalla proposta culturale fino a generi materiali come giocattoli e vestiti. La prima volta in cui ci ho pensato è stato dopo l’acquisto di una tastiera elettronica a tasti piccoli con cui pensavo di avvicinare mia figlia alla musica suonata che a conferma del prezzo irrisorio e della pessima fabbricazione – suoni e funzionalità terrificanti malgrado la marca storica – è stata da lei utilizzata pochissimo e ogni volta in modo piuttosto improprio. Chiaro che prima di investire qualche migliaia di euro in uno strumento acustico come un pianoforte, per esempio, uno ci pensa due volte visti i tempi, voglio dire le cose di qualità talvolta hanno costi proibitivi, ma con un po’ di astuzia e di ingegno si riesce ad arginare il problema. Da allora cerco di valutare appieno ogni acquisto, non vi dico mia moglie che passa ore in rete per documentarsi su qualsiasi tipo di articolo si renda necessario prima di decidere quale comprare.

Una analoga accuratezza andrebbe esercitata anche in ambiti più complessi come la gestione familiare in rapporto ai mesi di vacanza dei bambini. Ma mai come in questo caso il benchmarking è superfluo. In una società basata praticamente solo sulla disponibilità dei nonni, nel momento in cui si è costretti a rinunciare al loro supporto si apre una voragine organizzativa. Le proposte alternative non mancano, ma la sostenibilità economica è a dir poco proibitiva. Ed è il nostro caso. Se piazzare nonni e nipoti in una casa in montagna per uno o due mesi prima delle ferie ufficiali di agosto era tutto sommato accessibile e di facile ammortamento, le iniziative settimanali per bambini nelle strutture private sono fuori portata e non convenienti, benché estremamente valide. La scelta così alla fine si riduce all’offerta pubblica e agli oratori, un servizio che è poco più di un parcheggio erogato in modalità discutibile su cui mi sono già espresso più volte.

Questo per dire che ci sforziamo di ottenere il meglio da tutto ma siamo disposti a chiudere un occhio sulla qualità del tempo che i bambini trascorrono quando sono in nostra assenza (poi c’è anche la questione di come passiamo il nostro tempo con loro, ma questo è un altro discorso). Insomma, da lunedì mia figlia è iscritta all’oratorio estivo della parrocchia nei pressi di casa mia, noi non siamo credenti né praticanti ma a malincuore abbiamo confermato la scelta delle ultime due estati per i costi irrisori (il personale è tutto volontario) e perché l’alternativa comunale sfrutta le strutture scolastiche che i bambini frequentano già tutto l’anno, non ci sembrava giusto costringerla ancora negli stessi ambienti in cui è rimasta tutto l’inverno. Una scelta un po’ ipocrita di cui farei a meno, ma non sapremmo come comportarci altrimenti, e come noi tante altre famiglie come a dire mal comune mezzo gaudio. Così, quando accompagno mia figlia in oratorio e la lascio in quel cortile, tra centinaia di coetanei in quel momento di anarchia totale che precede la chiusura dei cancelli e l’inizio delle attività, penso che non è giusto, che una società che trascura in questo modo suoi membri più vulnerabili e importanti non è poi così evoluta anche se cerchiamo di convincerci, quando li vediamo raggiungere gli amichetti mentre ci allontaniamo per recarci al lavoro, che per loro, per i bambini, un posto vale l’altro.

assenteismo

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Nella rete che conta e nei socialcosi di quelli in cui si leggono solo le imperdibili conversazioni tra i minivip che animano il jetset a 140 battute e rotti è tutto un pullulare di gente che non fa. Quelli che non seguono il calcio e tantomeno guardano le partite alla tv e tantotantomeno gli incontri dell’Italia. Ah ma nemmeno sapevo ci fossero gli Europei, ti scrivono tra un chiocciolaqualcosa e un cancelletto, e quell’altro che fa il digei Francesco dei poveri e lo fa da almeno trent’anni che risponde ah nemmeno io, alla tv guardo solo i telefilm più in vogah. E poi quell’altra che ha pubblicato il libro che cerca di vincere su tutti, ah io non guardo la tv scrivo solo per i programmi fino al decisivo io la tv non ce l’ho nemmeno, ho solo un display LCD sul quale vedo i film scaricati che vince su tutti (ma il canone dovresti pagarlo ugualmente). Che poi, permettetemi la citazione pop, tutto questo is the ultimate “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Ah ma io non li vedo i film di Moretti.

manifesta incompatibilità

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Quante volte avrei voluto fermarvi in tempo e dirvi che quella di mettervi insieme non mi sembra una buona idea, non siete per nulla compatibili anche se l’entusiasmo del momento vi fa interpretare come amore e passione tutta una serie di sensazioni che tra un mese o dieci o un anno vi faranno soffrire. Si vede lontano un miglio che non siete fatti per stare insieme e se è plausibile che ci siano contingenze tali da riposizionare le priorità per cui ci si fa scegliere da un partner – solitudine, attitudine alla condivisione, curiosità o casualità – sarebbe più opportuno interpellare gente come il sottoscritto e fare un sondaggio e quindi rimettersi al senso comune. Chi dei due metterà a tacere le proprie necessità prima o poi non troverà più il rapporto soddisfacente abbastanza da giustificare l’impeto di remissività e un giorno vi sveglierete pensando che la buona causa che vi ha fatto mettere insieme non vi sembra più così buona. Ripensateci, slegate il vostro abbraccio che vi cinge inopportunamente sui sedili di questo treno. Vorrei che tutti gli estranei qui con me e voi interrompessero ciascuno i propri pensieri e si spendessero in un dibattito sul vostro caso, sono certo che l’esito confermerebbe le mie turbe e vorrei altresì che il più convincente di questo tribunale popolare trovasse le parole migliori a persuadervi che c’è troppa differenza di tutto, età e letture e modalità espressive e a dirla tutta anche posizione politica. E secondo me non siete nemmeno gratificati vicendevolmente sotto le lenzuola perché appartenete a due modelli che nella dimensione della quotidianità sono inclini ad allontanarsi. Guardatevi dentro, parlatevi, e poi fatemi avere un feedback circa la vostra decisione. Un giorno mi ringrazierete.