la musica è finita

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Dalla prima strettoia siamo usciti indenni, c’era un segnale grosso come una casa che avvertiva del restringimento della carreggiata. Come riflesso mi sono aggrappato al sostegno assumendo quella postura da anziano in automobile per la quale tutti ti prendono in giro, ma a dirla tutta l’ho sempre trovata molto comoda, sarà che tenere le braccia verso l’alto favorisce la circolazione (quella del sangue). Sta di fatto che mi rilassa viaggiare così. Ma quando avverto il pericolo e non sono io a guidare mi viene d’istinto di puntare i piedi come a premere un pedale del freno immaginario, nemmeno fossi su una vettura da scuola guida con i doppi comandi, mi spingo indietro con la schiena schiacciandomi sul sedile e dopo aver afferrato la maniglia cerco di capire cosa succede. E fortunatamente non è mai successo nulla di grave e nemmeno quella volta lì. È che Fede, che era al volante, l’avevo visto subito prima di partire che aveva qualcosa. Fede manifestava quel tipo di sbornia che hanno i tossici e gli ex-tossici e quelli che ne sono usciti ma mica tanto, dopo un paio di bicchieri gli scendevano le palpebre e sarà che aveva le guance scavate da tutti i denti che aveva perso e la mania di indossare camicie troppo larghe, quando lo vedevi barcollare non capivi che tipo di sostanze aveva dentro di sé. Due bianchi macchiati, una birra, una canna o la merda. O tutto insieme. Fede era appoggiato al bancone e beveva e sgranocchiava pistacchi fumandoci su Winston con il pacchetto morbido, li apriva al contrario non si sa bene il perché strappando la carta da sotto. Forse era una di quelle trovate che hanno i neofiti del tabagismo come girare la prima sigaretta quando togli l’incellofanatura o forse era solo un tic da ribellione all’autorità costituita e alle multinazionali americane. Poi siamo partiti per il solito posto del venerdì sera ma c’era solo lui con l’auto e il pieno contemporaneamente. Mezz’ora di litoranea per non pagare i quindici minuti dell’autostrada più cara d’Italia non era molto, ma sufficiente a stamparsi contro qualcosa. Io lì a fianco che armeggiavo con le cassette per far finta di nulla ho tirato su la testa giusto per vedere il muro a secco a pochi centimetri dalla portiera del passeggero e a girarmi dietro per capire come prendere in mano la situazione. Ma non c’è stato il tempo per attuare una strategia diversiva: la corsia si restringeva ancora all’inizio del ponte qualche centinaio di metri più avanti. Non è stato uno scontro frontale con un’ostacolo: la Fiat Tipo su cui viaggiavamo ha percorso tutta la lunghezza del guard rail raschiando la fiancata destra in un tripudio di scintille, meglio così perché in senso contrario stava transitando un autobus di linea e sbattere su un oggetto in movimento avrebbe avuto conseguenze diverse. Fede si è così svegliato, ha bestemmiato ma ha proseguito fino ad accostare la vettura al bordo della strada terminato il ponte. Il danno era evidente e solo di carrozzeria, ma per sdrammatizzare e per buttarla sulla casualità ho raccontato di quando a mio papà uno spargisale gli aveva aperto a metà la fiancata della Ford Taunus di famiglia come un apriscatole. Fede non si è offeso quando mi sono messo alla guida e ho portato tutti indenni alla meta della nostra serata. Lì però mi era passata la voglia, mentre Fede era partito subito con una serie di richiami – come li chiamava lui – per non perdere l’effetto allucinogeno per cui aveva pagato. A metà serata, malgrado la musica fosse più che accettabile, trovai Paola che si sedeva sempre di fianco a me in biblioteca quando studiavo lì, era con un’amica e doveva rientrare presto. Non avvisai nessuno che stavo per andarmene, sapevo che la decisione che avevo maturato era molto più articolata.

being hrundi v. bakshi

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Mia moglie mi spiega per filo e per segno come devo fare quella cosa che devo fare, sa che come tutti gli uomini sono refrattario ad alcune incombenze amministrative, poi lei è prodiga di dettagli tanto che mi armo di finta ironia per tentare di nascondere la coda di paglia chiendendole se per recarmi in tal posto devo muovere una gamba dopo l’altra per camminare e al contempo aprire e chiudere i polmoni per respirare, ma so che fa bene a prenderla alla lontana. Conoscendo il soggetto, cioè il sottoscritto, meglio abbondare di dettagli e raccomandazioni. Che poi sono due cose molto semplici: pagare la quota settimanale di iscrizione all’oratorio estivo e acquistare in loco cinque buoni pasto, per nostra figlia naturalmente. Non per rovinare la suspense, ma meglio chiarire subito che entrambe le operazione sono state concluse con successo. Il problema è che di fronte alle operatrici parrocchiali, vestite in borghese ma egualmente timorate di Dio di quelle in divisa, non ho fatto una bella figura perché c’era molta confusione, come potete immaginare. Decine di bambini appena “mangiati” quindi al pieno di energia mattutina che davano il meglio in parole e opere, e io quando c’è casino faccio fatica a concentrarmi su quello che devo fare. Fatto sta che prendo la penna per compilare il buono pasto e la penna mi cade per terra, poi prendo il buono compilato e nell’affidarlo a mia figlia mi cade anch’esso, poi non riesco a raccoglierlo sul pavimento perché ho le unghie cortissime e nel mentre un pallone da basket mi urta il polpaccio e mi fa perdere l’equilibrio, poi cerco di pagare ma il vano del portafoglio che contiene le monete è aperto e si rovesciano tutte sul tavolo insieme alle tessere che come ogni buon consumatore porto sempre con me anche se creano un inutile peso aggiuntivo. Raccolgo tutto e concludo quella sequenza di gag che nemmeno Peter Sellers in Hollywood Party, quindi bacio la bambina e mi avvio a piedi, e solo dopo una cinquantina di metri mi ricordo di aver lasciato la bicicletta nella rastrelliera dell’oratorio. Torno indietro e mi dico che è il caldo, già, non può che essere quella la ragione.

un lavoro di squadra

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La prima cosa che mi chiesero fu se fossi doriano o genoano, in perfetta linea con il desiderio primitivo di categorizzare il nuovo membro del branco secondo quella dicotomia calvinista tipica di alcune città divise a metà da un muro ideologico, più che fisico. Io però non seguivo il calcio almeno da quando Berlusconi era entrato a gamba tesa nel campionato italiano e anche quella era stata una parentesi. Mi avevano entusiasmato qualche anno prima alcune prodezze sportive dell’Internazionale che aveva conquistato uno scudetto con un punteggio record in classifica, un’infatuazione durata pochissimo e terminata con la cessione di Diaz che lasciò il posto a Jurgen Klinsmann e la conseguente rottura dell’equilibrio che aveva portato i nerazzurri a un successo così ampio. In tutto una ventina di mesi di tifo. Prima di quello, l’ultimo ricordo che ho di me davanti a un schermo intento a seguire una partita risale ai mondiali del 78, io in lacrime dopo i due gol che Dino Zoff aveva subito contro l’Olanda da due tiri da lontano e mio padre che mi minacciava dicendo che non mi avrebbe più lasciato seguire un incontro se non avessi imparato a dare la giusta gravità a una sconfitta della nazionale.

Così quando in occasione della prima uscita a pranzo con i nuovi colleghi mi venne rivolta questa domanda dall’ingegnere che era anche uno dei due soci dell’azienda con cui avevo da qualche giorno iniziato a collaborare, rimasi sbalordito perché erano quasi dieci anni che saltavo a piè pari le pagine sportive di Repubblica e anzi al lunedì non compravo nemmeno il giornale perché ritenevo la percentuale degli articoli dedicati al campionato indegna per una società sviluppata dell’occidente europeo come la nostra, o almeno come mi illudevo che fosse. Ma dovevo aspettarmelo che iniziando a lavorare per una software house ad alto tasso maschile e ingegneristico le probabilità di essere messo di fronte a domande come quella potessero essere elevate, è che speravo che il momento non arrivasse così presto. Così proprio mentre percorrevamo in linea i portici di Sottoripa direzione Gran Ristoro per raggiungere una tavola calda molto più dozzinale della paninoteca più fricchettona di Genova, il boss mi mise davanti alle mie responsabilità e lo fece a tradimento, dinanzi a tutti i miei nuovi colleghi.

Il primo istinto fu quello di inserire un elemento di discontinuità dichiarando la mia passione per una squadra oggettivamente più forte, un argomento che avrebbe messo a tacere ogni discussione se non su presupposti campanilistici. Ma non mi andava di dire tengo per l’Inter o la Juve o tantomeno il Milan di Forza Italia. In seconda istanza pensai a un outsider, ricordavo un mio compagno di liceo che era un supporter della Fiorentina ed era ligure quanto me e tu non potevi dirgli niente perché era sempre fuori dalle dinamiche competitive, così pensai alla stessa Fiorentina o al Torino o al Brindisi che aveva una divisa che mi piaceva da morire, bianca con una v blu davanti e avevo anche la squadra del Subbuteo. Ma se poi qualcuno fosse andato in profondità con domande tipo che ne pensi di quell’attaccante venduto o di quell’altro terzino più forte della serie B, avrei potuto fare una figura pessima e precludermi la fiducia se non addirittura la carriera futura. Che con il senno di poi forse avrei fatto meglio a finirla prima di incominciarla, ma questa è un’altra storia.

Così decisi di dire la verità tutta la verità nient’altro che la verità e confessai che, in fatto di calcio, mi ritenevo agnostico. Mai termine fu però più fuori luogo perché l’ingegnere capo aggrottò le sopracciglia forse pensando in quale team potessero riconoscersi i tifosi agnostici, d’altronde c’è anche una squadra di Bergamo che si chiama Atalanta, ma non voglio pensare che non conoscesse il significato della metafora che avevo usato per schernirmi in modo così poco virile. Ed è anche probabile che si sia sentito un po’ preso in giro e lui, in quanto maschio alfa designato per la superiorità di grado, abbia visto attentare alla sua autorità con un vile gesto anarchico del primo venuto. Così l’ingegnere capo liquidò la conversazione con un sogghigno e per riconquistare il territorio perduto si rivolse ad alzare la gamba dove sapeva di trovare terreno fertile per uno scambio di battute sul derby imminente, quell’altro ingegnere che come nelle più classiche storie di vita in azienda si lasciava battere a squash per scalare l’organigramma societario. Sentendomi in colpa e con l’obiettivo di sdrammatizzare il confronto, sfidai la sorte ordinando a pranzo lo stesso piatto che aveva scelto l’ingegnere capo, un secondo scaldato da schifo al microonde, e al suo commento di approvazione a suggello di inequivocabili versi di soddisfazione rincarai la dose, esaltandone le qualità organolettiche ma usando una terminologia più alla portata.

ultras lagaccio

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Questa cosa de Il Post che racconta tutte le storielle di ogni argomento caldo del giorno mi piace parecchio perché la fanno solo loro. E, a proposito del thread di oggi, anche io voglio dire la mia, perché, come immagino saprete, di biscotto vero ce n’è uno solo.

non andare lontano

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Quest’estate non facciamo vacanze, mi dice Andrea, non ci siamo organizzati in tempo e abbiamo deciso di non andare da nessuna parte. Io rimango basito perché non mi capacito del fatto che uno non senta la necessità di partire e togliersi da casa almeno per qualche giorno, anche se sei povero in canna i risparmi spesi in viaggi sono l’investimento migliore, vedere posti diversi ti apre la mente. Che poi Andrea non è uno che ha grossi problemi economici, quindi non è quella la causa, come per esempio l’altro Andrea, quello che aveva il mutuo e così lui e la sua fidanzata avevano montato la tenda in salotto e per qualche giorno hanno dormito lì per far finta di essere al campeggio.

Così questo Andrea e Piera, sua moglie, si sono ritrovati con un po’ di soldi in più, quelli che non devono spendere per le ferie, e hanno deciso di comprarsi un po’ di cose nuove. Il telefono nuovo per lei, una tv più grande da mettere in salotto e un computer più potente per il figlio Stefano che sogna di fare l’urbanista e passa ore da solo in camera a studiare come sono costruite le principali città del mondo. È un ragazzo introverso e taciturno, in casa come a scuola, ma negli studi è molto diligente. Fa il liceo artistico e va alla grande. A Stefano piace cercare le metropoli sui libri di geografia e su Internet e immagina il rumore che ci dev’essere in quelle strade e lo mette a confronto con il silenzio che c’è in casa sua. In famiglia si parla poco, anche tra Andrea e Piera le conversazioni si sono spente e io lo so il perché. Andrea è un annoiato cronico e gli sta stretta la famiglia ma non sa nemmeno lui cosa vorrebbe in alternativa. E quello è il vero motivo per cui l’idea di organizzare un viaggio o un qualsiasi soggiorno e stare a contatto con Stefano e Piera da mattina a sera e di notte e per due settimane lo manda in crisi. D’inverno Andrea esce prima di tutti per andare al lavoro e torna tardi anche se finisce prima per non trovarsi in situazioni destrutturate che potrebbero rendere necessario un dialogo e gli argomenti per imbastirlo, mentre a cena o dopo cena ci sono comunque i programmi televisivi da seguire o si può uscire con una scusa o un’altra.

Alla fine i tre trascorrono il mese di agosto in casa, le ferie comunque le devono prendere per forza e il primo giorno vanno insieme all’Ipercoop a comprarsi qualcosa di nuovo come avevano deciso, il reparto di elettronica del supermercato è un altro posto in cui si sa di cosa parlare. Che modello scegli, quanti pollici, ha il bluetooth, quanti giga di ram, magari spendi cinquanta euro in meno e poi tra un anno lo butti via. Poi in macchina tornando a casa si può parlare di quello che si è acquistato. Però non trascorrere troppo tempo davanti al computer, riesci a copiarmi la rubrica sul nuovo cellulare che non voglio perdere i contatti del lavoro. E le due settimane che seguono sono realmente diverse, in effetti, c’è un minimo di evasione a volerlo trovare. Stefano le trascorre a spostarsi più velocemente tra le periferie delle città di cui ha letto, Piera a seguire le repliche dei musicarelli in bianco e nero, quelli con Gianni Morandi sono i suoi preferiti perché li guardava da piccola con sua mamma e ora li segue tenendo il telefono nuovo con su lo sfondo di un panorama esotico accanto a sé, vicino al telecomando, e Andrea a volte va in garage a sistemare qualcosa, a volte sta sul divano quando la tv è libera, e conta i giorni di ferie e quelli che mancano a riprendere il lavoro ma tutto sommato anche così il tempo passa.

no vabbè dai andiamo in montagna, sicuramente farà più fresco e poi ci sarà meno casino che al mare

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licenza media di utilizzo

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Caro blogger, mi permetto di scriverle per metterla al corrente di un avvenimento che le farà piacere, o forse no. Nel dubbio ho deciso di contattarla perché si tratta di un aneddoto a mio giudizio stimolante che potrebbe anche non sfigurare tra i suoi scritti, a me ha fatto sorridere e ho pensato che comunque fosse corretto informarla. Mi chiamo Irene e insegno materie letterarie in una scuola secondaria di primo grado della provincia di Cremona. Premetto che non sono una lettrice assidua di blog, ogni tanto capita che tramite Facebook o semplicemente via e-mail qualche amico o collega mi segnali notizie interessanti, ma in genere non ho molto tempo da dedicare a questo universo e forse quello che mi è successo costituirà uno stimolo per rivolgere maggiore attenzione d’ora in poi a quello che accade in rete, tra i suoi frequentatori e a siti come il suo. Ora vengo al punto. Ho appena terminato l’anno scolastico con una seconda, tutto sommato una buona classe. Tra i ragazzi si trova di tutto. Ci sono quelli già grandi, quelli che sono bambini a tutti gli effetti, quelli che hanno famiglie attente e quelli che sono meno al centro dell’attenzione a casa e la cercano in classe, tra i coetanei e verso i professori. Uno dei miei ragazzi, si chiama Ivano, ha delle forti carenze nella scrittura. Difficilmente ha raggiunto la sufficienza nella stesura di temi, per questo mi è stato facile adombrare sospetti sulla provenienza di alcuni svolgimenti scritti a casa, temi che gli assegnavo come esercizio, sorprendentemente scorrevoli e fin troppo ben costruiti. Ne ho parlato con i genitori che mi hanno assicurato la loro estraneità, non avevano dato alcun aiuto, il passo in avanti era fin troppo ampio per essere vero. Era palese che quegli elaborati non fossero farina del suo sacco. Era impossibile che avesse copiato di sana pianta da libri, molto più facile che avesse cercato “ispirazione” su Internet. Così ho provato a inserire intere frasi dei componimenti di Ivano sui motori di ricerca, e ogni volta come primo risultato ho ottenuto parti di post del suo sito su argomenti vari, dalle feste natalizie o temi più complessi legati alla famiglia e all’amicizia. Il che significa che gli argomenti di cui tratta nel suo sito sono eterogenei e trasversali – la immagino come una persona adulta, ho letto alcuni estratti in cui parla di sua figlia – che sono facilmente rintracciabili da Google e che denotano una freschezza tale da dare fiducia a ragazzi come Ivano (…)

La mail continua con alcune considerazioni che preferisco non riportare, mi limito a considerare l’età mentale e narrativa di quanto scrivo qui e l’affinità che ne può scaturire con un tredicenne. Cara professoressa Irene, tutto questo non può che mettermi di buon umore. E, caro Ivano, mi piacerebbe conoscere la tua versione dei fatti, quali brani hai fatto tuoi, quali impressioni ne hai tratto, se hai fatto solo un uso strumentale del blog, se hai copiato a caso o se continui a seguirmi.

stop motion da paura

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La strategia per evitare che nostra figlia provasse interesse per la tv è consistita nel cercare di metterle a disposizione la più ampia varietà possibile di titoli – cartoni e film – intelligenti, secondo il nostro metro di giudizio, da poter seguire senza le interruzioni pubblicitarie e, soprattutto, on demand. Per questo sono sempre all’erta sul materiale nuovo e vecchio disponibile e chiedo consigli su quello che mi sono perso. Come immaginerete, questo comporta dei limiti. I prodotti di qualità non sono infiniti, occorre metodo e applicazione, bisogna evitare di eccedere in censure, sapere in partenza che le cose che piacciono ai grandi possono non piacere ai piccoli e viceversa. E penso a tutto questo mentre a pochi passi davanti a me ascolto di nascosto una giovane baby sitter piena di tag e tatuaggi (io vedo solo quelli sul gomito, collo e polpacci) che sta discorrendo con la bimba di cinque/sei anni che tiene per mano circa la trama di “Coraline e la porta magica”. Quello che ha colpito la bambina è la questione dei bottoni cuciti sugli occhi, che fa di quel lungometraggio un piccolo horror per i più piccoli. A me lo aveva consigliato una collega, descrivendolo come un film che fa paura ma paura sana, ora non ricordo l’esatto termine che aveva usato ma il concetto era che non spaventava solo per spaventare ma che dietro alla cattiveria di una dei protagonisti c’era una finalità costruttiva. Ma ricordo benissimo che quando l’avevo portato a casa mia figlia l’aveva visto una volta e poi basta. Era stato chiaro sin da subito che le vicende di Coraline non rientravano nella sua lista di film preferiti anzi mi ha pure chiesto di sbarazzarmi della copia. Si era spaventata e non poco. E un po’ ci sono rimasto male, come quando le faccio sentire gruppi che mi piacciono e che lei non apprezza, perché spero sempre che ci sia sintonia tra i gusti di entrambi. Così mi allontano per non invidiare troppo quella complicità tra baby sitter e bambina, lei che sazia la sete di particolari della più piccola che sembra non averne mai abbastanza dei dettagli più raccapriccianti, e penso che i bambini di quell’età sono davvero ben strani. Ah, se volete consigliarmi qualche film o cartone nei commenti, siete i benvenuti. Purché la paura suscitata sia sana sul serio.

una camicia coi baffetti

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E pensare che era uno dei pilastri per sentirsi tali, più avanti scoprirete tali a che, perché indossandola sotto una giacca e i più dandy con l’aggiunta di una cravatta, entrambe dello stesso colore, creava quel tono su tono per darsi un tono ed enfatizzare sia il pallore del viso che, per chi li aveva, i capelli corvini pettinati in barba alle leggi di gravità. Mi riferisco alla camicia nera, pezzo numero due (il numero uno erano le scarpe da prete) indispensabile per soddisfare le guideline del look all-black per non sfigurare alle convention (chiamiamole così) new wave di allora.

Diventava fondamentale mettere da parte i pregiudizi nei confronti di un capo di abbigliamento già ampiamente messo in discussione per motivi politici, tanto che se ne trovavano pochissime in commercio e quando le chiedevi ti guardavano in cagnesco, e poi vagli a spiegare che non eravamo post-nazifascisti ma solo boriosi ragazzotti di provincia intrisi di ideologia musicale britannica. Però poi quando passavo davanti alla bancarella del venditore di libri usati, i cui numerosi candelabri a sette bracci tra un contenitore di volumi e un altro non lasciavano dubbi circa le sue radici, avere addosso la camicia nera mi metteva sempre a disagio e addirittura una volta il libraio di strada mi ha assalito verbalmente facendomi vergognare non poco. Non passare più qui vicino, mi ha urlato, non sai le camicie nere cosa hanno fatto alla mia famiglia. In pieno riflusso, mentre i simboli più atroci del novecento venivano ampiamente decontestualizzati dalle correnti e dalle sottoculture pop – ricordiamo le svastiche indossate dalle star del punk commerciale – una casareccia quanto autarchica camicia nera indossata tutt’altro che militarmente e fuori dai pantaloni speravo potesse anche suscitare maggiore indulgenza dalle frange della popolazione mondiale passate al setaccio dalla storia. Poi, trattandosi dell’unico esemplare in mio possesso e dovendolo indossare in ogni occasione, giorno dopo giorno, lavaggio dopo lavaggio iniziò a sbiadirsi. Ma la sbornia dark riuscii a smaltirla prima di una dismissione forzata di quell’uniforme. Un bel giorno rigettai quella schiavitù in cotone misto acrilico e acquistai un più consono golfino rosso girocollo. Ma non è finita qui.

La camicia nera era anche una delle più ambite divise delle orchestre di musica da ballo. Nelle mia lunga militanza sui palchi delle principali balere e feste di piazza del basso Piemonte, il fisarmonicista che dava anche il nome alla band imponeva la mise pseudo-repubblichina ai musicisti, cosa di cui mi vergognavo io questa volta, e con l’obiettivo di distinguermi dagli altri e non essere frainteso politicamente usavo svisare sui pezzi di ballo liscio suonando adattamenti in tre quarti di cavalli di battaglia della tradizione musicale comunista, su tutti l’Internazionale che ben si presta alle costruzioni armoniche di valzer e mazurche. Da quell’esperienza, gettata l’ultima camicia nera in uno dei tanti contenitori destinati alla fornitura di vestiti ai più poveri, mi è stato possibile dire basta e promettermi che mai più ne avrei indossata una. Questo proprio in un momento in cui la camicia nera era tornata di moda e portata fisicamente e metaforicamente pure dal nostro, anzi vostro, ex-premier. E tutt’ora tamarri di ogni latitudine sfoggiano camicie nere in ogni stagione, sotto completi da sera o aperte sul petto nei mesi più caldi, un capo di abbigliamento che è sempre stato troppo impegnativo per me. E se siete orgogliosi proprietari di un così nefasto cimelio, vi lascio un paio di suggerimenti circa la sua conservazione: per non scolorirla lavatela a temperature fredde, mentre per asciugarla vi consiglio di stenderla al contrario, appesa con il colletto verso il basso, che è la morte Sua.

come si accende la telemedicina

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Dopo una visita di controllo, in cui ho avuto conferma che sembra essere tutto ok, il cardiologo mi chiede se avevo portato con me l’ultimo ecg. Ma non essendomi stato ricordato in fase di prenotazione, ovviamente l’avevo lasciato a casa. Chiedo quindi al dottore se non avesse a disposizione in rete una cartella clinica virtuale con tutto lo storico della mia salute, almeno degli ultimi anni dall’avvento dell’informatizzazione nella sanità. Per lavoro leggo di consulti on line, di tablet in corsia, di check con codici a barre tra pazienti e farmaci in modo da abbattere il margine di errore in ambito ospedaliero e chissà perché mi ero fatto il film che, fatto un elettrocardiogramma o un qualsiasi esame presso una struttura della mia regione, l’esito comunque rimanesse archiviato in un database a cui attingere per ogni evenienza. Voglio dire: ho un incidente, mi portano in un qualunque ospedale della Lombardia, il dottore inserisce la mia tessera sanitaria in un lettore e il chip invia le informazioni a un sistema che gli riporta tutti i dettagli relativi alla mia salute. Oppure banalmente nel corso di una visita specialistica come quella odierna non serve che io porti con me i referti di analisi perché tutto è registrato in un data center della sanità, non dico nazionale ma almeno locale. Il cardiologo e la sua infermiera mi hanno guardato sbalorditi come se mi fossi espresso in gaelico, descrivendomi un ambiente di lavoro così come “lunare”, confermando che il film che mi ero fatto era di fantascienza.