post Stravinsky

Standard

Ma che fine ha fatto Stravinsky, invece? Gestiva una specie di trattoria in cui si mangiava una farinata così così, ma il bello di quel posto era il fatto di costituire una sorta di enclave anarchica, quei locali che ai tempi li vedevi solo all’estero, nelle grandi città in cui tutto è lecito, o al massimo a Bologna. C’erano i muri neri ricoperti di scritte e disegni, anche io avevo fatto la mia,”Durutti Column”. Poi a un certo punto della serata Stravinsky si metteva a fare i giochi di prestigio, che a vederlo sembrava un mix tra Jacques Tati e Ian Dury, più Ian Dury che il primo, se non altro per la filosofia di vita. Da Stravinsky c’era il calcetto e un televisore con il videoregistratore e un po’ di nastri di concerti che se non c’era musica te li potevi vedere, roba abbastanza fuori dai circuiti. D’altronde lì era tutto fuori dai circuiti se non tutto fuori tout court, entravi e non sapevi come ne saresti uscito, in che condizioni e con chi. Una sera ho trovato quindicimila lire a pochi metri dall’ingresso, sono entrato e ho offerto da bere persino agli sconosciuti. E alla fine Stravinsky ha chiuso ed è sparito nel nulla, voci informate lo davano addirittura rifugiato oltre cortina in un paese del Patto di Varsavia, che da lì a poco si sarebbe infranto (il patto) e tutto il resto. Ma forse è tornato e non lo so, e scusate l’uso di questo spazio privato per motivi privati, è solo che ripensando a Stravinsky mi viene ancora il mal di testa per la qualità del vino sfuso e dell’untuosità della farinata. Ma nessuno allora ci badava più di tanto.

Monti di Reggio Emilia

Standard

Non se se vi è capitato di sentire il discorso di Mario Monti ieri in occasione del 215esimo anniversario del Tricolore (la bandiera, non la fiamma) a Reggio Emilia. A parte immaginarsi come avrebbe potuto condurre un intervento del genere la persona che lo ha preceduto nella stessa carica, per usare una locuzione veltroniana. Ma questo è il punto: l’aver trattato un insieme così apparentemente eterogeneo di temi riconducendo nello stesso discorso la storia, il presente e il futuro dell’Italia, immaginarsela non solo nel 2021 ma anche nel 2051, l’economia e il risorgimento, la manovra e la bandiera. E ogni volta che gli sento proferire qualche passaggio a proposito della caducità del suo mandato, e lo ha fatto anche in questa occasione, sento che mi manca già. Sarà difficile tornare indietro dopo questa esperienza, sarà un vero trauma quando riprenderà la campagna elettorale.

tutto il resto è noia

Standard

L’ultima volta in cui ci siamo incontrati eravamo in un bar da fannulloni della riviera, io ero dietro un pianoforte elettronico e accompagnavo una cantante che non aveva ancora interiorizzato il fatto di essere lesbica, tu eri seduto a un tavolino con un noto spacciatore e due avanzi di bordello, ti sei fatto portare una bottiglia di champagne da supermercato pagandola più del triplo del suo prezzo, ne hai versato un po’ nella scarpa con il tacco della più buzzicona delle due, dopo avergliela sfilata, e lo hai trangugiato da lì, un po’ ti si è rovesciato sulla camicia di jeans che indossavi aperta sul petto. Poi ti sei sistemato il codino che raccoglieva sulla nuca quel poco di capelli sopravvissuti e mi ha richiesto una canzone, per fortuna non ricordo quale, da dedicare alla fortunata che ha dovuto rimettersi la scarpa bagnata di vino. Mi spiace, ti ho rimosso la mattina successiva a quell’episodio, non credo che accetterò la tua amicizia su Facebook.

se l’è portate via

Standard

Le festività natalizie si fa presto a farle e disfarle, finiscono senza che uno abbia tempo di posizionare i Re Magi davanti al bambinello in maniera credibile, figuriamoci se le tre autorità straniere riescono a consegnare i loro presenti e a godersi un po’ di ospitalità nella capanna. In quattro e quattr’otto spariscono fasciati nelle pagine di un quotidiano, chiusi nella scatola da dove vengono estratti ogni anno insieme ai protagonisti e alle comparse di questa sceneggiatura che si ripete uguale e si mette in scena solo perché c’è una bambina che si diverte a organizzare il gioco delle parti, allo stesso modo con cui si inventa momenti di vita quotidiana con quel simulacro di umanità che sono i Playmobil e tutti i loro accessori da tedeschi. Per non parlare dell’albero sintetico e relativi addobbi. Il kit per la tradizione casalinga, finché resistono il fascino e la magia dei corrieri soprannaturali e delle consegne puntuali senza tracking online, torna giù in cantina, tanto è questione di una cinquantina di settimane che è già il tempo di riallestire il tutto. E al momento di archiviare il Natale ho sempre paura che mia figlia possa rattristarsi, il ritorno alla vita normale fatta di scuola e sport e compiti può costituire uno shock. Ma si tratta di un timore infondato. Lei non ha fatto una piega. Io invece mi guardo intorno e noto quegli spazi vuoti, il piano della libreria usato come location del flash mob sulla natività ospita di nuovo libri e la gallina salvadanaio, al posto dell’abete in plastica c’è la mia poltroncina anni 50. Ed è facile scoprire l’identità dell’unico sensibilone che, ai titoli di coda, si lascia cogliere dalla malinconia.

non c’inghiotte e non torniamo più

Standard

Prima ci andavo pervaso dal complesso di inferiorità di chi abita nella provincia, ero molto giovane e Genova era ancora la città di una volta, con via San Lorenzo carrabile e la facciata della chiesa ancora tutta sporca di smog. Perdersi nei vicoli non era una sensazione piacevole. Una mattina in cui avevo saltato scuola, bighellonando davanti a un portone di quelli da libro di storia dell’arte con cui le camionette che transitano a raccogliere la rumenta non ci vanno tanto per il sottile, ho sentito suonare colpi di grancassa dentro, ho pensato fosse una sala prove e ho dato un’occhiata. In tre stavano pestando uno, era il rumore dei pugni sulla faccia quello che avevo scambiato per una batteria. Di certo andavano a tempo.

Poi ho passato lì un lungo periodo da genovese con tanto di residenza, la città stava diventando sempre più bella con l’Università nel centro storico e tutto il recupero del Porto Antico realizzato durante e dopo le celebrazioni colombiane del 92. I venerdì non ti muovevi nei vicoli dalla ressa, con quella sensazione di vivere tra la gente più invidiata, quella che sta operando un cambiamento sociale, se ne rende conto e in virtù dei risultati tangibili si impegna a fare ancora in eccesso. Succede così quando c’è tolleranza, c’è integrazione, c’è materiale da trasformare finché si vuole.

Ora torno a Genova da milanese, meno di quanto vorrei. Faccio il turista ma poi incontro sempre qualcuno. Mi capita anche qualche visita di lavoro. Faccio finta di non essere pratico della città, ormai ho perso completamente la “còcina”, e chiedo consigli su dove mangiare. Una volta, era estate, in un’azienda in cui stavamo girando un video di marketing mi hanno mandato al Gran Ristoro a Sottoripa, per chi non lo conosce è una bottega piccolissima in cui fanno panini imbottiti con qualunque cosa. Davvero. In vetrina hanno vaschette di ogni genere di companatico, sembra il plastico di una città da cartone animato costruita con materiale commestibile. Davanti, sotto il portico, pochi tavolini sempre gremiti da gente comune, turisti pochi perché non gli daresti due lire ed esponenti dell’underground umano locale. Ma la qualità dei panini è superlativa.

E da milanese ho fatto la coda come la facevo da provinciale prima e da genovese più tardi, ho preso la mia rosetta imbottita con non ricordo quale tipo di arrosto e la birra in bottiglia. Mentre stavo pagando ho pensato a un manager genovese che consiglia a un operatore marketing milanese un posto così, voglio dire provate a immaginare la stessa scena al contrario: venite a Milano per lavoro da Genova e il vostro cliente vi suggerisce uno di quei camioncini che vendono i panini con la porchetta per strada (il paragone è inglorioso per il Gran Ristoro, ma è giusto per fare un esempio), gremito di sudamericani che smerciano free press in pausa pranzo. Così ho preso panino e birra e mi sono seduto sulle panche in muratura sotto l’Acquario, a fianco di una nordafricana di mezza età che mangiava tonno in scatola e che portava con sé tutti i suoi averi in un sacchetto di un discount. Una miriade di piccioni sfrontati erano lì pronti a divorare le mie briciole e, a giudicare da ciò che lasciavano in cambio, sembravano tutt’altro che riconoscenti.

punk’s not dead

Standard

Poco dopo aver letto l’epitaffio di Gino Castaldo su Repubblica in cui, a suo modo, proclama la morte del rock mi è capitato questo lugubre tumblr dall’azzeccatissimo nome “Live”, in cui si applica l’effetto trasparenza 0% ai membri dei gruppi rock passati a miglior vita sulle copertine di alcuni album piuttosto celebri. Ma si sa, la rete è “la morte sua” delle coincidenze. Quella qui sotto, per esempio, mi ha messo di cattivo umore.

fenomenologia del giro armonico

Standard

Ascoltando per la milionesima volta Enola Gay degli OMD, ma secondo me se avete un buon orecchio anche prima, vi sarete accorti che la arcinota pietra miliare del synth-pop dei primissimi eigthies è tutta stramaledettamente uguale, dall’inizio alla fine. Sarà questo il suo punto di forza? Un continuum di strofe o di ritornelli, a vostro piacimento, dall’inizio alla fine, alternato solo al cantabilissimo riff di sintetizzatore ma dalla sequenza armonica invariata e a un break che comunque lascia presumere la completa aderenza al resto dei pattern che interrompe, cosa che si deduce dalle ultime due battute in cui ricompaiono gli accordi in crescendo. Perché di un giro armonico si tratta, il classicissimo I, relativo minore, IV (relativo maggiore a sostituzione del II minore) e V risolutore anche senza la settima. La storia del pop è piena di composizioni scritte ed eseguite secondo tale successione, è facile dilettarsi con mash up mentali o cantati di Enola Gay con qualsiasi altra canzone con analoghi intervalli,  “Let’s twist again” è la prima che mi viene in mente. Tutto questo perché il giro in questione fa parte dei primi rudimenti per un approccio attivo a un qualsiasi strumento d’accompagnamento armonico, piano o chitarra per esempio. Corrisponde all’ABC per gli strumentisti, che con quattro accordi, se sono dotati di una voce accettabile, posso lanciarsi nell’esecuzione di una miriade di brani, italiani e non. E solo un siffatto mantra di sigle può non annoiare l’ascoltatore e placare la smania da risoluzione in ritornello; la ripetizione del giro riduce l’ansia da apertura trionfale verso il climax melodico perché si rincorre ad libitum, sufficiente a sé stessa in un andamento ricorsivo che trasmette la sicurezza di ripartire, ogni volta, dallo stesso punto senza rischio di smarrimento del riferimento tonale. Un fenomeno curioso sicuramente generato dall’abitudine all’ascolto, tanto che le orecchie vergini come quelle dei più piccoli sono le uniche che sono in grado di reagire al moto perpetuo del giro, sbuffando e reagendo come solo loro sanno fare, applicando la stessa insofferenza a mantenere la stessa posizione con il corpo per più di pochi secondi. Che, su un riproduttore audio, si traduce in “papà, ma ‘sto pezzo è tutto uguale, metti quello dopo”. Che, per mia fortuna, è Electricity.

felici e-content

Standard

Mi rivolgo a voi, aziende italiane che pubblicate annunci di lavoro in lingua inglese per posizioni che di inglese hanno solo il nome altisonante ma che sono basate in Italia e per le quali la conoscenza della lingua inglese è utile solo a farcire di inutili locuzioni anglofone le presentazioni Power Point per i vostri italianissimi clienti e lasciarli a bocca aperta con la vostra presunta caratura internazionale, pardon, globale. Voi società giovani e dinamiche che avete riquadri dei vostri organigramma occupati da manager che parlano inglese con la cadenza del dialetto della loro regione di provenienza e che inviano comunicazioni corporate in lingua italiana farcite di congiuntivi discutibili e di evasioni semantiche di termini che un tempo avrebbero causato la bocciatura all’esame di scuola media inferiore. Voi organizzazioni che volete darvi un tono e ricevere resume dai canditati alle posizioni scoperte solo in lingua inglese nell’illusione che un giorno l’inglese marketing, lingua che voi masticate anche a pranzo a condimento di pietanze che da vecchi additerete come causa della devastazione della vostra flora intestinale, rimarrà come unica traccia della civiltà di provincia di cui siete padri fondatori, in un tempo ben oltre i termini delle fatture dei vostri fornitori pagate a 120 giorni. Ecco, voi che poi comunque dovrete farvi tradurre da qualcuno le informazioni sugli skill e l’experience dei candidati malgrado l’annuncio sia rivolto a un target tutto locale, mi dite che senso ha il requisito “fluent Italian written and spoken is essential”?

cuore di cane

Standard

L’ascensore è giunto al piano, la spia “presente” si è colorata di verde e le porte automatiche si sono aperte. Un vecchio cane è schizzato fuori e, trovando l’ingresso dell’ufficio ancora aperto, si è infilato in agenzia. È stato facile intuire la dinamica dei fatti: il cane, con tanto di collare, ha preceduto chi l’ha portato fuori per la passeggiata mattutina smanioso di rientrare al calduccio, a dimostrazione che i vecchi animali di qualunque specie sono tutti uguali. La mia collega da qui ha chiamato l’ascensore con animale domestico incorporato, che, appena si è aperta una via di salvezza, l’ha colta al balzo senza pensarci su.

Ma una volta in ufficio si è reso conto di non essere a casa sua e, sgomento, ha iniziato a tremare come non ho mai visto fare a un animale, giuro. Con gli occhi bassi ha cercato di orientarsi, cercando qualche odore familiare lì intorno, senza successo. Gli accessi ai piani e le porte del vano ascensore sono tutte uguali, la fretta di essere arrivato a destinazione forse gli ha giocato un brutto tiro. O forse, dall’alto della sua intelligenza, ha capito che la salita era durata troppo poco, noi siamo al primo piano, e si è lasciato prendere dal panico. Non sarebbe comunque rientrato a casa sua, ma cercare l’aiuto degli umani poteva essere una alternativa valida per chi non arriva con le zampe alla pulsantiera. Abbiamo cercato di calmarlo, non era certo un cane aggressivo, tutt’altro, ma lo sguardo di chi non si dava pace per l’errore commesso e per l’incredulità continuava a essere straziante.

Mi sono precipitato sotto per avvertire il portinaio, anche se difficilmente avrei compreso la sua risposta proferita nel suo dialetto inaccessibile mescolato a modi inqualificabili. Per fortuna nell’androne è comparsa una signora, presumibilmente coetanea del cane. Procedeva trafelata verso di me, è bastato un istante per capire che ci stavamo cercando a vicenda. Io ci sono arrivato non tanto perché reggeva in mano un guinzaglio, quanto per la straordinaria somiglianza con l’animale che l’aspettava su. Stessa preoccupazione di aver smarrito qualcuno, stessa andatura di chi si muove al meglio di quanto il fisico lo permette. L’ho tranquillizzata e l’ho accompagnata verso la sua parte complementare. La donna e il cane, entrati nel campo visivo l’uno dell’altra, si sono come ricomposti di quella dignità austera di cui solo gli esseri viventi più anziani sono dotati. Lui ha smesso di tremare, lei lo ha amorevolmente redarguito, e sono tornati sereni alla loro routine di coppia.

punti di vista

Standard