parole note

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A dimostrare quanto le recensioni musicali siano superflue ci viene in aiuto Frank Zappa, grazie a uno dei suoi ipse dixit più celebri, quel “parlare di musica è come danzare di architettura” quasi al confine del nonsense e che vale soprattutto quando le parole vogliono essere messe per iscritto e date in pasto ai lettori. Si tratta di una forma di narrazione che è di per sè un paradosso. Come si fa a raccontare un pezzo di musica? L’espressione artistica che più di ogni altra non può essere contemplata staticamente, un divenire continuo che, anche alla fine del brano e alla ritorno del silenzio, non consente la sua visione completa. Nel momento in cui se ne afferra un istante, ci si trova già alla misura successiva e così via. Per raccontarlo battuta per battuta, tanto vale cantarlo e suonarlo, e a quel punto tanto vale riprodurne la versione originale. Per di più la fruizione di insieme è impossibile, non si può descrivere un brano come si descrive un quadro. Anche un libro, la lettura stessa è un divenire. Ma implica un operato attivo dei sensi, attraverso il quale chi legge può fermarsi, tornare indietro e ripartire quando vuole senza perderne la visione di insieme, a differenza di chi ascolta. Per non parlare del maggiore sforzo e impegno necessario alla fruizione. La musica è accessibile in tempo reale  mentre la lettura implica il filtro della comprensione.

Ma supponiamo che, una volta che il pezzo sia finito, io possa raccontartelo. Ok. Posso dirti il tono, l’andamento, il timbro (sempre più difficile). Posso parlare del ritmo e del tempo. Bello, brutto, mi piace, mi repelle? Siamo nell’ambito del  giudizio. Ma non ho descritto il brano. Posso parlare del testo, ma allora siamo nel campo della critica letteraria. Posso mettere in ballo tutta la mia competenza musicale cercando gli echi di altri compositori o di altri gruppi nel brano in questione, ma sto facendo critica comparata. Posso elencare con saccenza tutti i generi che conosco e in cui quel particolare brano rientra, ma sto facendo una banale categorizzazione, né più né meno che la catalogazione di un libro propedeutica alla sua archiviazione biblioteconomica. E dato il carattere evocativo, specifico della musica, posso trovare in ogni brano, misura per misura, richiami a decine di altri brani che richiamano centinaia di sensazioni che richiamano migliaia di esperienze della mia vita. Ma allora sto scrivendo un’autobiografia, oppure sto facendo una trasposizione istantanea multidisciplinare, dalla musica alla prosa o alla poesia. O, più banalmente, non faccio altro che dire tizio assomiglia a caio, con un po’ di sempronio nel periodo in cui suonava come pompeo (mi mancava il quarto nome e sono andato a caso). In passato ho riempito fogli – virtuali e non – di parole e critiche in tutta la gamma del giudizio per questo o quell’altro cd novità che una ormai defunta webzine online mi spediva a casa da commentare, e andare oltre il comunicato stampa era piuttosto problematico, tanto più che si trattava di gruppi italiani esordienti, riguardo ai quali c’era ben poco da dire. Ma mi sembrava l’unico modo per mettere insieme due passioni, la musica e la scrittura. Poi ho gettato la spugna per manifesta inferiorità, e allo stesso modo sto alla larga dalle recensioni altrui. Un ascolto vale più di consiglio, anche quando se ne riesce a cogliere il significato.

glielo incarto

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Non c’è nulla di male se sei subentrata ai tuoi genitori nella gestione del bar che da giovane tanto denigravi, anzi è encomiabile tutto questo. E fai tenerezza ora che su di te i solchi degli anni sono così profondi, ti chini con meno elasticità di un tempo a raccogliere un cestino di Natale che un cliente turista, uno di quelli che sbarcano da quelle ingombranti navi da crociera che occupano il 95% del porto – che viste dall’alto sembrano una spedizione di amici di Gulliver nella terra dei Lillipuziani – e che con cartina alla mano visitano il metro quadro di cittadina in cui non si perderebbe nemmeno un bambino (cit.), ti ha appena richiesto. La beltà è sfiorita come le ambizioni, la laurea e il master all’estero si sono dimostrati un investimento irrealizzato se non nell’esercizio in cui la tua famiglia ha concentrato tutte le risorse. E tu, figlia unica, non ne volevi sapere, anzi, non ti passava nemmeno per la mente l’idea di dare una mano a mamma e papà, così zelanti e laboriosi nel continuare una tradizione di specialità locali con cui stipavano gli scaffali del bar e il magazzino nel retro. E a chi osava chiederti, conoscendoti poco, “ah, lavori al Bar Tizio?”, tu rispondevi colma di stizza “no, è mio”, a sottilineare il limite delle professioni umili da cui la tua brillante carriera di studi ti avrebbe allontanato di centinaia di chilometri. Anzi, così tanto che, probabilmente a causa della sfericità del globo terrestre, sei tornata proprio lì, tra un bizzarro presidio slow food (che altrove è bersaglio di doppi sensi) e i dolciumi sfusi con cui doviziosamente riempi confezioni regalo. Ti osservo dalla vetrina senza farmene accorgere, poi mi chiedo chissà se le persone che mi incontrano riconoscono allo stesso modo su di me il trascorrere degli anni. Che presunzione. Mi intravedo nella vetrina a specchio successiva, ed è meglio interrompere così questo post.

bombay bicycle club – bad timing

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i miracoli secondo Kaurismaki

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Se, come me, avete visto Welcome, il film di Philippe Lioret che fa da scenario al tentativo fallimentare di un giovane clandestino di raggiungere il Regno Unito a nuoto da Calais, e vi è rimasto quindi un conto aperto con il cinema in generale per non aver provveduto a un lieto finale almeno lì dove la finzione dovrebbe fare da antidoto alle nostre coscienze al caldo, ecco finalmente la rivincita. Miracolo a Le Havre è un film sorprendente soprattutto per la naturalezza con cui Kaurismaki innesta il proprio mondo, quello che si porta appresso in tutta la sua filmografia, in un tema urgente e attuale come l’immigrazione, la sfida delle umanità più povere di superare l’inaccessibilità delle barriere dell’occidente europeo e di arrivare alle nostre, di povertà. Perché ci sono le facce da film di Kaurismaki, innanzitutto, che non si trovano in nessun altro lungometraggio e ci si chiede in quale realtà parallela riesca a trovare un tipo di sottoproletariato così fedele alla realtà e perfette per il messaggio da trasmettere. C’è quindi una dimensione in cui il tempo si è fermato ad almeno trent’anni fa fatta di telefoni a disco, automobili e autobus e i rivestimenti stessi dei sedili di altri tempi, bar, dialoghi e musiche da jukebox e c’è una storia di solidarietà tra gente al di sotto del comune, quella sì senza tempo. Sono pochissimi gli elementi in grado di riportare lo spettatore alla realtà, forse il blu delle tute degli agenti che perquisiscono le case alla ricerca del giovane Idrissa, il colore dell’esercizio del potere che non ammette eccezioni. Ma alla fine anche loro, gli agenti, devono arrendersi alla visione di Kaurismaki. Nemmeno un personaggio da odiare, neanche il delatore perché scopri poi trattarsi di un attore in arrivo direttamente dai film di Tuffaut. Nemmeno l’investigatore che sembra cattivo ma che poi condivide con il protagonista, Marcel Marx di professione lustrascarpe, la complicità di quei bassifondi francesi di una volta nei quali manca solo un cameo di Jean Gabin, in un angolo al bancone con la sigaretta accesa a sorseggiare un pastis.

schiacciata dal destino

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Nelle fila della squadra locale milita una piccola fuoriclasse, oddio piccola nemmeno tanto, a quell’età sono ragazzine già sviluppate e quando si cambiano la maglia perché è dello stesso colore delle pallavoliste avversarie sono già pudiche e si voltano dall’altra parte rispetto al pubblico. L’abilità della campioncina, la media bravura delle compagne e di conseguenza la forza dell’intera squadra sono debilitate però dalla numero 11, che non è che sia proprio così scarsa, ma si vede da qui, dal gradino più in alto degli spalti (tutti quelli che vivono con ansia le prestazioni sportive dei propri pargoli e i semplici visitatori che sono lì per vedere le atlete più grandi della società in cui è iscritta la propria figlia) che è timida. La numero 11 vive un dramma duplice: la prestazione sportiva in pubblico la mette in forte imbarazzo, tant’è che impedisce a genitori parenti e amici di seguirla persino in casa, ma soprattutto l’agonismo per lei è una prova troppo forte, una sfida in cui lei perde in partenza adesso ma probabilmente arriverà sempre seconda tra due partecipanti per sempre. Gli avversari lo sanno, sanno anche che il coach la mette in campo perché nelle competizioni dei piccoli giocano tutte, anche se si tratta di un campionato a tutti gli effetti non importa chi vince o chi perde, l’ebbrezza dello scontro la devono provare tutti. E nei pochi minuti in cui la numero 11 entra in campo, non appena la battuta passa agli avversari, è un bombardamento sulla posizione che ricopre. E non è giusto, è vincere facile, è anti-sportivo. Lei non riesce a respingere le battute sparate al centimetro dalla capitana degli avversari. In quei pochi minuti in cui la numero 11 è nel sestetto in campo, la squadra ospite mette a segno una sfilza decisiva di punti, aumenta il divario e si candida a vincere la partita. E probabilmente sarà sempre così in tutte le partite di tutti i campionati, finché non cambierà qualcosa. O la numero 11 vincerà il suo blocco da prestazione o getterà la spugna e cambierà sport. La selezione della specie, vero? Non dev’essere nemmeno facile essere un allenatore, conciliare le brame di vittoria con i diritti di chi paga l’iscrizione e, giustamente, ha diritto a tutto quello che lo sport offre. La divisa, gli allenamenti, le partite. Le vittorie, le sconfitte, la responsabilità. Io però, dagli spalti lassù in cima, questa sera  – e sono certo che lo scriverò in un post – sono tutto per la pallavolista con la maglia numero 11, e in totale empatia mi auguro che quella partita abbia una svolta e si risolva, come la vita della mia temporanea beniamina, in un sereno ed eterno pareggio universale.

seguire la traduzione

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Che paradosso, sottotitolare i cartoni di Pingu. Eppure so di per certo che una signora, una volta, riportò indietro in biblioteca un DVD del celebre pinguino animato lamentandosi del fatto che fosse in inglese.

di botto, all’improvviso

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Malgrado la crisi economica, sembra che i soldi per comprare i petardi ai ragazzini ci siano sempre. Se vivete con i nervi a fior di pelle come me, il periodo non è certo dei migliori. Ti fanno la posta per strada, mentre sei in coda alla casa dell’acqua, quando stai contemplando le vetrine di questo o quel negozio. Le vittime preferite ovviamente sono gli adulti, gli stessi che hanno trascorso qualche ora del loro tempo a lavorare per mettere in mano ai piccoli dinamitardi la cifra necessaria all’acquisto di quel discutibile divertimento.  Ma non posso negare di aver passato una analoga fase anch’io con le miccette rosse e verdi al profumo di polvere da sparo. In casa, il mio passatempo era quello di far saltare in aria le casette del presepe, il ponticello che attraversava il fiume di carta stagnola e qualche pastore che, ignaro del suo destino, andava a rendere omaggio al re dei re in quel scenario in miniatura. Una interpretazione su misura e adattata e corretta dello stato di allora della questione palestinese.

che riflessi

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Scriveva bene Pippo Civati ieri su Il Post a proposito di partiti, specchi, Monti e Bruegel.

Nel tentativo di distinguersi e di precisare a proprio beneficio la manovra del governo – un tentativo a volte vano, altre vaneggiante, in alcuni rari casi invece più fortunato – le forze politiche si stanno spremendo le meningi per fare qualcosa di buono. Se in Croazia suona la sveglia, insomma, qui è suonata la campanella e tutti, dopo anni di torpore, si sono come accesi. Di Pietro promette un piano contro l’evasione, il Pd studia sofisticati correttivi sulle pensioni, Fli chiede di prendersela con gli scudati (ma Fli, lo scudo, non l’aveva votato?) e tutti quanti sono al lavoro per dare, innanzitutto, prova della propria esistenza. C’è chi suggerisce, chi minaccia, chi lusinga, chi si misura: e Monti è uno specchio per molti, uno di quelli da Luna Park, che restituisce alla politica un’immagine deformata di se stessa. Certo, lui è stato nominato, e non eletto: solo che con il Porcellum non sono in tanti a poter affermare, prendendo a modello se stessi, qualcosa di molto diverso. Certo, lui è una soluzione di emergenza: solo che la situazione di emergenza è stata provocata da molti dei protagonisti di questa vicenda emergenziale. Sembra un quadro di Bruegel (il Vecchio, perché di giovani se ne vedono sempre pochi): un attivismo ammirevole e una capacità progettuale che non vedevamo da tempo, per sfidare lo specchio e superare una formidabile ferita narcisistica. E tutto ciò – la dico così – è comunque un fatto positivo. Guardarsi allo specchio, dopo tanto tempo, fa bene.

se c’è un motivo

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Il processo creativo corale in musica, mi riferisco ancora a quella deformazione della personalità che i più definiscono con l’avere una band, è un fenomeno che non ha eguali in nessun altro campo artistico. Lo ammetto. Questo senza tener conto del risultato e della qualità del prodotto. L’atto in sé del comporre è uno spurgo di stati d’animo individuali senza precedenti e stupisce sempre il loro amalgamarsi con facilità con quelli altrui, sia in stato di comprensione o empatia dei musicisti con cui ci si accompagna che in quello di fraintendimento o mera versatilità da un’indole “di mestiere” e commerciale di un produttore dietro al software da home studio di turno. Gli spunti possono nascere ognuno imbracciando il proprio strumento in sala prove, l’alchimia della scintilla che genera il capolavoro è possibile ma non così semplice. In questo è di fondamentale importanza l’ambiente in cui si crea, non dico che occorrerebbe disporsi con gli strumenti secondo il feng shui, di certo più si è a proprio agio, come in tutte le attività, più piacevole sarà il lavoro. Nella mia ultima esperienza di esecuzioni collettive, la sala prove era un box rettangolare e in cinque eravamo costretti praticamente in fila indiana. Senza contare l’insonorizzazione solo parziale e il gruppo reggae nel box a fianco che si percepiva distintamente tra un pezzo e l’altro, annientando quella piacevolezza che si prova con il silenzio dopo aver suonato una canzone nel migliore dei modi. Non è durato a lungo.

Più frequente la condivisione delle proprie bozze, che ciascuno leviga e struttura apportando il proprio valore aggiunto fino all’opera compiuta, a volte specchio della prima release, a volte completamente stravolta. Il rischio è quello di pensare l’ensemble a disposizione a propria immagine, avere già ben delineato in mente il risultato finale di cosa si va a proporre e di respingere i tentativi di ciascuno di fare propria l’idea altrui. Qui gioca un ruolo decisivo la personalità di ciascun elemento e la predisposizione alla condivisione delle proprie produzioni, che è come dare in pasto se stessi agli altri. In questo occorre essere pronti alla vita in comune e il feeling deve essere a livelli elevatissimi. Se suonate lo sapete meglio di me, avere un gruppo è come avere una famiglia. Ci sono le stesse dinamiche, possessione, gelosia, inclinazione a far soffrire o a sacrificarsi, voler comandare, parlare senza far nulla eccetera eccetera. E per chi come me ha smesso, ogni tanto qualche nostalgia emerge pur nella accertata soddisfazione dell’aver realizzato l’impossibilità oggettiva di portare avanti coerentemente un progetto musicale. Ho appena letto un’intervista ai The National qui (via Slowshow, naturalmente) circa lo stato già avanzato del materiale per il loro prossimo album. Matt Berninger, fornendo qualche dettaglio sul loro modo di  far nascere le nuove canzoni, mi ha permesso di ricordare quella rara sensazione, che nella mia lunga esperienza mi è capitata solo una volta, di serenità nel confronto tra teste diverse e, soprattutto, adulte. “Aaron has given me about 10 ideas so far. He seems to be in some sort of really weird creative space. He recently had a baby, so maybe it’s a lack of sleep. He’s wired differently. The songs he’s given me are much less cerebral and academic and much more immediate and visceral than usual. I’m in love with them. I just spent all night listening over and over to some things he sent. I think they’re some of the best things he’s ever written. And I think it might be because he’s not thinking about it that much. He isn’t putting everything through the filter of Important Music as he has in the past. The music just seems to be working on a pure gut level“.

asfalto drenante

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Poi ti immetti nella rotonda da cui si accede anche all’autostrada e sul ciglio, tra la sua auto con le quattro frecce accese e la siepe, lo vedi in piedi, rivolto verso il bosso, lo sguardo è giù, attento a non bagnarsi e sporcarsi le scarpe anche se oggettivamente si meriterebbe di peggio. Così non solo sei costretto a notarlo, ma devi anche fare una manovra per spostarti di carreggiata. Viaggiando non è raro imbattersi in adulti di sesso maschile, e nemmeno incontinenti, che hanno confuso tra loro i concetti di spazio comune e servizio pubblico (nel senso del cesso) e per i quali ogni superficie verticale è un posto valido per marcare il territorio. E nemmeno in un punto nascosto da almeno due lati. Quel che è inaccettabile è che non si riesca a controllare lo stimolo fino al più vicino bar o autogrill, oltre alla presunzione di poter prendere in mano la situazione e farne partecipi tutti liberamente come se il prossimo non aspettasse altro. In quel frangente sarebbe magico fermarsi tutti, scendere in massa dal proprio veicolo e aspettare insieme la scrollata finale, quindi l’alzata di spalle che accompagna la chiusura della zip, e salutare la posa dell’ultima goccia con uno scrosciante applauso, fischi da stadio, clacson e vuvuzela, è una bella cosa incoraggiare l’altrui momento del bisogno anche se è già stato soddisfatto.