ho lasciato l’Alabama per venire fin quaggiù

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Una pattuglia di agenti della polizia locale sta rimproverando in modo concitato qualcuno, si sente anche da qui. Incalzati da un crocchio di gente piuttosto inviperita, due bambini nomadi afferrano quel che possono della filippica con cui il più alto in grado degli addetti al traffico gli si sta scagliando contro. Poco prima, un giovane alla moda distratto dalla conversazione amorosa con il suo smartphone in cui era immerso anima e corpo, camminando per strada, ha avvertito qualcosa di strano alle sue spalle. Voltandosi ha scoperto i due ladruncoli con le mani nel sacco, anzi nella borsa, una specie di tascapane militare di marca portato a tracolla sotto il culo. E probabilmente i due, cresciuti e formatisi attraverso test eseguiti su stuntman di ben altre fattezze e armonie fisiche, modelli di elasticità abituati a un tempismo al millisecondo – un istante di ritardo e il trapezio torna indietro e per l’acrobata non resta che la rete dell’infamia – e alla destrezza assoluta indispensabile per arrampicarsi sulle grondaie, dicevo i due non hanno considerato l’inferiorità del genere umano occidentale, fiaccato già in giovane età da disturbi della postura dovuti a posizioni innaturali come le borse al ginocchio e i pantaloni a metà natica. La scoliosi induce a un andamento irregolare fuori dai canoni classici dell’animale in posizione eretta, e probabilmente è stata l’asimmetria della vittima del tentato furto a essere decisiva: una mano del malintenzionato ha urtato la borsa e il colpo è andato in fumo.

Il più scaltro dei due guarda in malo modo il compare, forse è stato lui la causa di tutto. L’agente dai modi più bruschi gli toglie lo zainetto dalle spalle e ne rovescia il contenuto sul cofano di una berlina parcheggiata a fianco. Il valore totale della refurtiva sembra irrisorio, ancor più in contrasto con la vernice lustra di quella macchina. Qualche banconota da cinque e dieci euro spiegazzata, un paio di modelli di cellulari così superati che nessuno ne rivendicherebbe la proprietà, e un cofanetto rettangolare in velluto porpora. “E questa dove l’hai rubata?”, chiede una signora che si fa largo nella calca non appena un agente apre la scatola e ne estrae una armonica a bocca cromatica Hohner. “Questa è mia”, si difende il ragazzino, “la uso per suonare in metropolitana”. Il capo degli agenti lo incalza con le sue obiezioni, probabilmente suona o comunque sa che quel modello costa almeno duecento euro e dubita che un bambino di umili origini possa disporre di uno strumento musicale da ricchi. Così gli lancia la sfida: “Allora fammi sentire se è vero che tua”.

Quello, lo stesso che poco prima spaventato dai passanti che lo stavano bloccando dopo essere stato scoperto ha rischiato di finire sotto un taxi per scappare, strappa di mano l’armonica al vigile e la porta alla bocca. Malgrado il periodo natalizio, che più di ogni altro impone scalette monografiche, malgrado la cultura dell’est Europa sia tutt’altro che limitrofa al blues, il ragazzino si lancia in un ispirato medley composto da un motivetto dixieland americano, qualche svisa, un accenno a un classico come “Oh when the saints” per finire con una galoppante “Oh Susanna”. Mica male, gli astanti si guardano tutti stupiti e il ragazzino ne approfitta per godersi la vittoria della sfida e pulire con la sciarpa lisa l’armonica. Ma Corso Buenos Aires non è Manhattan, non siamo sulla Quinta Strada, il negozio più esclusivo qui è H&M e il pubblico non sembra ammettere il lieto fine alla storia. L’agente gli ordina di rimettere l’armonica nello zainetto insieme al resto degli oggetti rimasti sul cofano, nel frattempo è arrivato un furgone delle forze dell’ordine e i due nomadi, con la pattuglia, salgono alla volta del commissariato più vicino. Il concerto è finito, nessuno ha chiesto un bis.

let’s dance to manovra

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E giusto per sdrammatizzare, stamane tra un taglio di qui e una tassa di là si parlava con alcuni amici dei pezzi più divertenti da ballare della storia del dancefloor, un argomento vasto tanto quanto l’intera produzione musicale. Perché voi mi insegnate che qualunque cosa può essere ballabilissima e interpretabile attraverso un corpo dotato da almeno un quarto di mobilità, che il ritmo è nel sangue indipendentemente dal colore della pelle perché è soggetto solo al modo in cui ciascuno ascolta la musica e la trasferisce alle proprie membra. Sono partiti fischi con “One step” dei Kissing the pink proposta dall’ala “oneshot”, un po’ ingiustamente, forse i più critici non l’avevano mai ascoltata in precedenza. Ma come dar loro torto, basta con ‘sti anni ottanta, diamine. Così, onde evitare provocazioni, abbiamo ristretto il campo: almeno dal 1990 in poi, niente rock perché non si parla di saltelli sul posto o di spintoni a casaccio, niente classiconi da discoteca tipo Rythm is a dancer o What is love?, niente ska e reggae. Ecco, i pezzi più ballabili tra quelli mediamente commerciali, mediamente conosciuti, mediamente cool, oggettivamente ritmati, brani grazie ai quali in situazioni più o meno critiche da tasso alcolico fuori controllo abbiamo passato tre minuti di puro divertimento fisico, da soli o in compagnia, muovendoci come forsennati al chiuso di un club o all’aperto di un party estivo, in entrambi i casi soggetti a smodate sudorazioni. Nessuno dei miei due candidati ha vinto la competizione, non si sono nemmeno classificati dignitosamente, quindi ho pensato di rimetterli al vostro giudizio. Sono graditi like e apprezzamenti in cambio del buon umore che ricaverete dall’ascolto delle canzoni qui sotto. Sapete quanto mi piace quando dite che ho ragione, soprattutto in ambito musicale. Pronti?



catena di redistribuzione

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“Mi fanno molta tenerezza quelli che ad ogni finanziaria si aspettano cose tipo patrimoniale al 50% ai ricchi, supertassazione alla chiesa, far pagare le tasse solo a chi non le ha mai pagate (ovvero chi è totalmente sconosciuto al fisco) e altre simili utopistiche amenità”. Via.

ad Amerigo ciò pareva sublime

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La sobria efficienza del Presidente del Consiglio e dei suoi ministri nel corso della conferenza stampa di questa sera, al di là dei contenuti e di tutto quello che sarà, mi ha riportato alla mente quel passaggio de “La giornata d’uno scrutatore”, in cui Italo Calvino si bea dell’ordinarietà e del grigiore di una macchina pubblica che fa il suo dovere in confronto ai fasti e alle pompe a cui il potere ci ha abituati – del fascismo per lui, del precedente governo per noi – e agli ossequi che una certa Italia ha tributato ai relativi cotillon. Poi, alle lacrime del ministro Elsa Fornero mi sono stupito anche io, sapete, non siamo più abituati alla spontaneità, quindi mi sono voltato verso mia moglie, ho visto anche lei visibilmente commossa, e ho pensato che la sensibilità era un aspetto della politica che quasi non ricordavo più.

di tutti, di più

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“La biblioteca è il posto migliore che ho conosciuto”, dice Marius in questa struggente clip di Amnesty International dedicata a un ragazzino rumeno che tra sgomberi e mille difficoltà, in pochi mesi e grazie all’aiuto di volontari ha imparato a leggere e a scrivere e ha trovato un seconda casa. Il ruolo della biblioteca civica come spazio pubblico condiviso e gratuito, in cui chiunque può sostare senza essere cacciato, non è solo più quello di tempio della cultura, dell’archiviazione e del nozionismo, o almeno non solo quello. Un luogo in cui è possibile consultare quotidiani e usare Internet (le biblioteche più evolute) gratuitamente o comunque a prezzo non di mercato, aree talvolta addirittura dotate di wifi libero, che proprio a causa delle nuove povertà stanno acquisendo un significato diverso, quello di versatile tetto pomeridiano comune. Sono certo che i puristi storceranno il naso di questo, alcuni operatori del settore grideranno allo scandalo, chi usa la biblioteca per studiare sbufferà infastidito in prossimità di bambini che giocano e schiamazzano in sala ragazzi e adolescenti che si alternano alle postazioni dotate di pc. Ma credo che libri, dvd e cultura non siano mai stati così meglio di adesso, in mezzo a così tanta vitalità e a disposizione di chi ha bisogno di un po’ di tutto. Via Tilane. In questa foto, invece, un utente con la propria figlia.

gente piccola piccola

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Non saprei dirvi se si tratti del migliore film a cartoni animati dell’anno perché non ho abbastanza termini di paragone, di certo Arrietty, l’ultima lavorazione dello Studio Ghibli (quelli che possono permettersi un logo come Totoro) distribuita in Italia è una delle produzioni cinematografiche di animazione più sorprendenti alle quali il sottoscritto e la sua discendente abbiano mai assistito. La favola degli gnomi come vicini di casa, anzi di stanza, uno dei temi più sfruttati dalla letteratura per l’infanzia che pur nella loro dimensione ridotta hanno sentimenti ed emozioni extralarge. E nell’anno del ritorno dei Puffi, ecco questo sì lo conosco anche io, da oriente arriva un punto di vista alternativo sulle creature antropomorfe più piccole che si possano immaginare. La famiglia a cui appartiene Arrietty è umana al 100% e vive esattamente come una qualunque famiglia costretta ad arrangiarsi perché di natura gnomica. Costretta a una sorta di esproprio delle cose più piccole, spesso cose di minima importanza dei giganti che abitano la villa che sovrasta il loro mini-appartamento, il padre trascorre le sue ore lavorative in continua spedizione, turni rigorosamente di notte, a spasso tra cose più grandi di lui alla ricerca dei generi necessari, e per fortuna i suoi congiunti si accontentano di poco. In questo scarto di proporzioni, Arriety non riesce a sottrarsi ai sentimenti di amicizia verso il ragazzo malato e costretto a una clausura forzata pre-operatoria proprio in quella villa di campagna. Ma nelle leggi della natura non è concepito un rapporto alla pari tra specie diverse, essere grandi e grossi impone l’istinto della dominazione. Un film perfetto per chi ama contornarsi di miniature, sbirciare nelle case delle bambole, costruire plastici in scala ridotta. Tratta da un mondo dove un gatto è più che un dinosauro, un corvo è un temibile predatore e una cavalletta equivale a un nostro equino adulto, Arrietty è un storia in grado di lasciare a bocca aperta adulti e bambini, un viaggio in una dimensione sotto i dieci centimetri per tornare ad essere piccini piccini e meravigliarsi di tutto quello che, visto da laggiù, può essere di nuovo una grande scoperta.

secondo lavoro

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Una mattina finì il dentifricio, era già venuto il momento di ricomprarlo. Nella stessa sessione di igiene personale si esaurì il deodorante che già l’aveva trafugato a casa dei suoi che era mezzo consumato, un paio di spalmate sotto le ascelle ed era rimasta solo la plastica del tubetto che, spingendo sulla pelle sensibile, la irritava. Nella cassetta della posta la sera precedente aveva raccolto la prima bolletta della luce con i costi dell’allaccio della nuova utenza, per fortuna la scadenza per il pagamento sarebbe stata dieci giorni dopo. Un’eternità. Nel frattempo stava esaurendo il latte, anche quello da annotare nella lista della spesa da fare nel pomeriggio, al rientro dall’ufficio. E i sacchi della spazzatura, quelli sono fondamentali. Poi il doppione delle chiavi della nuova casa che aveva preso in affitto, poco più che un monolocale. Senza contare la pulizia del boiler della settimana scorsa, di sua competenza, e l’acquisto del futon da usare come letto, una cosuccia in confronto alle tre mensilità anticipate e la caparra versata al padrone di casa. E quella mattina, quella del dentifricio, da solo in un bagno minuscolo e freddo, dietro una tenda di plastica Ikea da doccia, non era nemmeno la metà del mese.

non nelle mie corde

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Una volta esisteva una tipologia di nerd musicofilo, passatemi il termine, ben definita con gusti ben precisi. Quelli che in macchina, un’automobile solitamente sportiva con tutti quegli ammennicoli che non saprei definire, quegli optional che ne facevano un mezzo tendente alla vettura da rally o comunque differente dalla media, avevano un portacassette in cui non era difficile trovare artisti e gruppi tipo i Toto, Pat Metheny, gli Eagles, Gary Moore e, soprattutto, le favolose schitarrate di Carlos Santana. La confortevole fragranza dell’arbre magique alla vaniglia faceva da teatro sinestesico a quella specie di – come definirlo? –  soft hard rock melodico, tutto guitar-based, che il proprietario ascoltava con le mani ben salde sul volante da competizione, il capello un po’ lungo e ondulato sul collo, lo sguardo sognante a un tramonto dal quale speravano prima o poi di veder sorgere un fiore di luna. Ecco, dove siete ora? Che ne è stato di voi? Che musica ascoltate?

internet, una rete o un acquedotto?

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Stamattina, acceso il mio minimac in ufficio, mi sono chiesto se il fatto che miliardi di impiegati e lavoratori di ogni tipo al mondo sono connessi a questo infinito videogame che è Internet durante il 100% delle loro ore lavorative sia in qualche modo collegato alla crisi economica. Non so, un calo generale della produttività, un po’ come l’avvelenamento da piombo presente nell’acqua tra le cause della caduta dell’Impero Romano. Il mercato globale finisce ko per i troppi like sui social network? Sarà un enigma per gli archeologi del futuro capire la fonte di questa intossicazione generale che ha indotto una intera civiltà all’autodistruzione da cazzeggio.

che crea falsi miti di progresso

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I Subsonica hanno pubblicato una nuova edizione del loro ultimo lavoro, Eden, in cui hanno incluso anche la loro rivisitazione di “Up patriots to arms”, un pezzo che non ha bisogno di presentazione alcuna e che fa parte di una delle migliori produzioni musicali italiane del secolo scorso che è l’album Patriots di Franco Battiato. La band torinese ne propone la cover da un po’ di tempo, recentemente era compresa in un medley con “L’ultima risposta” ed oggi, finalmente, è stata registrata in studio con tutti i crismi, voce di Battiato compresa. Chiaro che stiamo parlando di una di quelle canzoni così intense e belle che è quasi impossibile eseguirla male, puoi anche rivoltarla come un calzino ma conserva comunque il suo fascino. Quindi grazie a Rael che mi ha dato l’ispirazione, e qui sotto trovate riunite l’originale, la prima cover che io ricordi che risale addirittura ai Disciplinatha, una versione rockettara dei Negrita e la più recente di Samuel e soci (in qualità meno che disdicevole, ma è quanto passa per ora il convento).