la domenica sportiva

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Ci sono certi trafiletti sui quotidiani online che solleticano particolarmente la nostra curiosità morbosa e la smania di dare un’occhiata per vedere che è successo, anche perché quando ci capita dal vivo mettiamo le quattro frecce alla nostra attenzione e ci fermiamo a fare da spettatori, e sono quelli che riguardano i casi di genitori che si menano sugli spalti di uno stadio o di un palazzetto mentre i rispettivi figli, distribuiti in campo tra squadre avversarie, praticano uno sport i cui principi base, almeno in teoria, dovrebbero seguire comportamenti opposti. L’ultimo episodio era su Repubblica qualche settimana fa: padri sulle gradinate che si minacciano per poi passare alle mani, madri intorno che fomentano e figli attoniti a cui tocca interrompere la partita per calmare l’agonismo dei supporter di famiglia.

Bene, sappiate che questa volta io mi schiero dalla parte dei genitori e dico che fanno bene a menarsi. D’altronde è l’ora di dire basta all’ipocrisia e di gettare la maschera: i nostri figli sono prepotentemente balzati al top delle attenzioni degli adulti, quindi non vedo cosa ci sia di male a essere pronti a prendere a sberle il prossimo quando il prossimo si mette di mezzo al successo o alla realizzazione dei nostri figli, che poi è essa stessa la nostra. Avere un figlio con una media del dieci in pagella è appagante, certo. Ma un figlio campione in erba in uno sport risponde a quell’innato appetito di prevaricazione fisica che ci mette sullo stesso piano di una bestia qualunque. Non c’è niente come l’umiliazione di un avversario da parte di un nostro io in miniatura a trasformarci in creature primitive degne della curva di un anfiteatro ai tempi dell’antica Roma.

Se avete un figlio impegnato in una disciplina sportiva giovanile e dilettantistica saprete come ci si sente il lunedì mattina a rientrare in ufficio tronfi di una parte di sé – perché questo sono i figli – che è riuscita a farsi spazio nella vita – che in gran parte è la nostra, di vita – con la propria superiorità fisica a differenza di noi, miseri adulti costretti a rispettare tutte le convenzioni della vita sociale. Manager a cui chinare la testa, colleghi con i quali esercitare un forzato lavoro di team che da troppo tempo sopisce la nostra esplosiva individualità, e tutti quei micro-episodi quotidiani in cui sarebbe molto più semplice mandare affanculo o dare due sganassoni per tirarsi fuori dalle situazioni, ma che invece non possiamo affrontare se non comprimendo la nostra aggressività.

Il motivo per cui noi adulti, durante il fine settimana, amiamo relegare i nostri completi e il nostro look business casual nell’armadio per sfoggiare una comoda tuta e scarpe da ginnastica è per somigliare di più ai nostri figli, e sentirci ancora più uguali a loro mentre li accompagniamo agli antipodi della città per la gara o la partita della giornata, e quando i figli stanno in panchina siamo pronti a spianare loro strada lamentandoci con l’allenatore e la società. I maschi con il calcio o il basket o il rugby, le femmine con la pallavolo o la ginnastica artistica, al giorno d’oggi la domenica è sportiva più che mai, e noi genitori siamo pronti a difendere anche con la violenza il nostro diritto a vincere, nella vita, ogni tanto, almeno per interposta persona.

tra genitori non ci si conosce per nulla

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Ieri l’altro, alla consegna delle pagelle – siamo già all’inizio del secondo quadrimestre della terza media – notavo che tra genitori non ci si conosce per nulla. Non so se è una cosa che riguarda me, ma l’impressione che ho avuto, a parte i saluti di circostanza in attesa del proprio turno per il colloquio con l’insegnante coordinatrice della classe e senza contare le conoscenze pregresse all’esperienza scolastica, siamo comunque gente di paese e di provincia, è che questi tre anni sono volati senza che nessuno, né tra le fila del corpo docente tanto meno per iniziative individuali, abbia messo in atto un tentativo progettuale in grado di coinvolgere le famiglie dei ragazzi.

Da questo punto di vista ho registrato, nel tempo, una sorta di escalation al contrario. Al nido eravamo chiamati molto spesso per attività di gruppo, ricordo persino numerosi momenti di riflessione su tematiche inerenti i nostri figli, separati in gruppetti da 3 o 4 genitori durante le frequenti riunioni indette dalle educatrici. Con la scuola materna è iniziato il periodo delle festicciole a ogni ricorrenza comandata, per non parlare dei compleanni ogni due per tre a casa di tizia o caia ai quali era richiesta la presenza degli adulti i quali, alla fine, erano quasi costretti ad approfondire la conoscenza reciproca.

Alle elementari, al momento l’esperienza più lunga, si sono saldati quindi molti rapporti sia tra le compagne che tra i relativi adulti di riferimento, sono sorti problemi su vari fronti, sia didattici che di dinamiche tra i ragazzini, che per forza di cose hanno indotto madri e padri a una risoluzione d’insieme. Poi, alle medie, complice la rimescolata data alla composizione delle classi rispetto alle provenienze degli alunni, stop. Il buio completo.

Tenete conto che lo spirito competitivo dei genitori è direttamente proporzionale all’età dei figli, ragion per cui è naturale che quando il gioco si fa duro e iniziano a delinearsi le carriere scolastiche dei ragazzi ognuno va per la sua strada. Inoltre alle medie i nostri figli iniziano a essere indipendenti e a gestire parzialmente il loro tempo in autonomia, conseguentemente a noi grandi ci viene un po’ da tirare i remi in barca sul controllo di quanto avviene in classe, e, dovendo scegliere con chi trascorrere il tempo, le relazioni imposte dalla vita dei ragazzi finiscono al fondo della classifica delle cose da coltivare.

Quindi niente. Sarà perché la secondaria inferiore in tutto sono 27 mesi scarsi di scuola o sarà che davvero in questa fase ci sono numerosi fattori che al tempo danno una velocità superiore, ma ieri pomeriggio a un certo punto ho realizzato di trovarmi in fila con donne e uomini visti a malapena nelle altre occasioni di questo tipo. Mia moglie, che era lì con me, se l’è cavata un po’ meglio ma lo sapete quanto le donne, e le mogli in particolare, siano su un altro pianeta dal punto di vista delle relazioni e allo stesso modo conservino una facilità nel ricordarsi le persone superiore al resto del creato.

Ho notato madri e padri con figli sconosciuti che magari avevo già visto il primo giorno di prima, quando in palestra chiamavano uno per uno a comporre la classe, ma anche se si tratta di una cosa successa appena due anni fa quei loro figli oggi sono ragazzoni e mi chiedo se anche mia figlia sia di quelle dimensioni lì. Probabilmente non ci sarà nemmeno la pizzata di fine anno e fine tutto, d’altronde non ne abbiamo mai fatto nemmeno una ed è un peccato perché tra i genitori dei compagni di mia figlia qualche persona interessante la si trova, a partire da un deputato del PD fino a una stimata insegnante di pianoforte. Per non parlare poi di uno scrittore americano in voga, molto concentrato su se stesso, che farebbe meglio a socializzare un po’ di più e a trarne beneficio, almeno in abbattimento della nostalgia.

un formula tutta da rivedere

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Il tempo dovrebbe risparmiare le nostre madri e prendersela esclusivamente con noi maschi, che tanto non abbiamo nulla da perdere. Ma poi i figli ci dicono che no, non esiste, noi serviamo come padri a dare man forte nella crescita, nelle scelte, nel trarre d’impiccio. La formula però fa acqua da tutte le parti e ci sarà pure un modo per impedire questo scempio di chi ci ha fatto nascere. Mia madre, come tutti in famiglia, ha preso lezioni di piano da bambina e si ricorda solo un pezzo che, fino a qualche anno fa, riusciva ancora a suonare. Oggi le sue mani non rispondono più così bene, così le accarezzo anche se non sono quelle che ricordavo e che tenevano le mie, da piccolo. Le tocco perché prendano qualcosa di me per tornare a suonare ancora quel motivo che, ironia della sorte, oggi è usato come jingle in uno spot televisivo. Non passa giorno senza che venga trasmesso. Ma poi i figli ci dicono ancora che no, non esiste, le nostre mani devono essere salde alla guida della loro vita, finché ne hanno bisogno. La stessa formula di prima, tutta da rivedere. E quella canzoncina facile, tutta da canticchiare.

per brevità Milano

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Stamattina ho accompagnato mia figlia a una lezione aperta in uno dei ginnasi che sta valutando come prosieguo degli studi. Il liceo si chiama Tito Livio ed è così in centro a Milano che lì a due passi ci sono i ruderi del circo romano, c’è una via di quelle che almeno una volta a fare shopping ci si deve andare, ci sono le fermate della metro con i nomi più famosi che sanno persino quelli che non sono di Milano, c’è il pavè e ci sono le scampanellate del tram. La lezione è durata due ore, era di greco e il prof, a quanto mi ha riferito mia figlia, era molto simpatico. Eravamo piuttosto emozionati entrambi e il perché è facile da intuire. Io l’ho lasciata all’ingresso e ho cercato di non commuovermi vedendola seguire il resto dei ragazzi che erano lì per lo stesso motivo. Ho pensato così di chiudermi in un bar a lavorare ed è così che ho scoperto l’Ostello Bello. Ho ordinato un cappuccio, mi sono connesso al loro wi-fi e mi sono sentito proprio nel centro di Milano, con i ragazzi stranieri ospiti della struttura che scendevano al bar a fare colazione, i gestori con il loro inglese impeccabile, il locale elegantemente scazzato come dev’essere un posto di quel tipo. Un insieme di fattori che mi ha fatto persino dimenticare la tensione, tanto che le due ore sono volate proficuamente. Mentre poi rientravamo verso casa e mia figlia mi raccontava qualche dettaglio di quell’esperienza che non avete idea di quanto la invidi, pensavo al fatto di vivere a poco meno di un chilometro ai confini con Milano e che per questo, a chi mi chiede dove abito, rispondo per brevità Milano. A mia figlia lasciamo la totale libertà di scegliere il liceo che preferirà solo a patto che la sede, qualunque essa sia, sia ubicata a Milano e non in provincia. Su questo aspetto siamo irremovibili, in modo che, a chi gli chiederà dove va a scuola, non abbia bisogno di omettere nulla.

donne motori gioie rancori

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La Patty e quattro sue amiche avevano preso in affitto un piccolo appartamento ed era evidente che l’intenzione era quella di utilizzarlo come pied-à-terre. La notizia si era diffusa in un paio di giornate grazie ad alcune malelingue, fino a quando l’ex fidanzato di una di loro, con un paio di fedelissimi a dargli man forte, aveva messo in opera una vendetta sin troppo efferata disegnando un lungo sentiero di cazzi con lo spray bianco da una via a grande frequentazione fino al portone, causando il disappunto dei condomini, del padrone di casa e dell’agenzia che, pur di liberarsi di inquiline di quel tipo, gli aveva poi stracciato il contratto in faccia restituendo loro l’intera caparra, a costo che sparissero nel giro di ventiquattr’ore e non si facessero più vedere. Una di loro, Michela, ci aveva riprovato qualche tempo dopo ma con un gruppo misto di persone, in modo da stemperare il mix tra desiderio di libertà e voglia di alcova senza rischi per la reputazione. Ancora oggi, se certe cose le fanno i maschi danno meno nell’occhio.

Conservo ancora qualche foto fatta in quella casa dall’arredamento per turisti di bocca buona che non trovano nulla di meglio della riviera ligure di ponente, quel genere di appartamenti che fuori stagione costano poco. Il punto è che io e Paola un posto tutto nostro non ce lo potevamo permettere e così, pur non contribuendo all’affitto, in casi estremi mi facevo lasciare le chiavi e Michela e i suoi amici chiudevano un occhio.

Avevo provato, in realtà, a cercare di rendermi indipendente ma Paola la considerava una questione di principio. I soldi per una casa, secondo lei, dovevano essere frutto del proprio lavoro per conferire il vero valore di emancipazione all’operazione. Raggiungere il totale della mensilità grazie anche a solo una parte della paghetta dei genitori, sebbene in aggiunta alle varie trovate con cui ci si ingegnava per sbarcare il lunario, era inammissibile. Avevo chiamato persino il papà di Massimo che aveva un monolocale sfitto nei vicoli e me lo avrebbe dato per l’equivalente di quello che tiravo su con quattro serate di pianobar al mese, ma lei, su questo aspetto, non cedeva a compromessi, tanto che ho ancora il dubbio che tutto quel rigore alla fine fosse solo un pretesto.

Quindi, alla fine, il periodo in cui mio padre è andato al lavoro il lunedì mattina con la stessa macchina con cui io e Paola durante il fine settimana ci davamo da fare non è durato poco. Il fatto è che non ricordo di aver mai prestato particolare attenzione al modo in cui gli facevo trovare l’auto dopo il mio utilizzo, né di avergli mai manifestato una riconoscenza esplicita alla sua cortesia, che io ritenevo un mero dovere genitoriale. A distanza di così tanto tempo – ero uno studentello universitario neopatentato, quindi esattamente trent’anni fa – e oggi che ormai mio papà non c’è più, mi chiedo come abbia potuto sopportare certi trattamenti all’abitacolo della sua Ritmo bianca, pur non essendo mai stato lui un meticoloso proprietario di quelli che, ogni due per tre, trascorrono le domeniche all’autolavaggio. Eppure qualche traccia doveva pur rimanere. I capelli lunghi, gli odori dell’età, le sigarette malgrado i finestrini aperti. Mio padre ed io non abbiamo mai affrontato l’argomento. Oggi, a ridosso del giorno dei morti, ho osservato la sua foto sulla lapide e gli ho chiesto scusa per questo, anche se un po’, mentre ripensavo a tutta questa storia, mi scappava da ridere.

un classico delle scelte discutibili

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Non ho ancora spento il motore nel parcheggio sotto casa che già mia figlia mi chiede se i minorenni possono pubblicare libri. Io vorrei parlare di com’è andato l’allenamento e se l’universo mondo mondiale si sta accorgendo della sua tecnica da alzatrice unica, ma lei invece vuole sapere se c’è spazio nell’editoria per una ragazza di nemmeno tredici anni. Anziché risponderle – anche perché non so cosa risponderle – le chiedo se ha intenzione di scrivere un romanzo o qualcosa del genere e lei mi risponde che si, ha qualche idea in testa e vorrebbe concretizzarla. Così le dico che non penso ci siano problemi nel pubblicare libri a una scrittrice che fa la terza media, senza aggiungere che trovo che scriva meglio di molti scrittori italiani adulti che evito come la peste perché non mi sembra corretto e poi, non avendo lei termini di paragone, non capirebbe. Stanno per uscire DeLillo e persino McInerney e già si prefigura una stagione letteraria con i contro-fiocchi. Anzi, aggiungo, se hai qualche trama che ti avanza dilla a me, che tutto sommato me la cavo a scrivere ma non trovo mai storie con un’inizio e una fine che possano essere sfruttate a fini commerciali. Condivido con lei persino una vecchia idea che tento di sviluppare da almeno dieci anni con risultati più che deludenti e lei sembra sbalordita. Mi dice che la trova molto interessante, anzi non crede nemmeno che sia mia, mi suggerisce persino un finale come piacerebbe a lei. Ecco, cari amici, vi presento la nuova generazione della mia famiglia di aspiranti specialisti di scienze inutili. Su in casa stiamo facendo da tempo un’analisi comparata dei licei classici di Milano per capire quale sia il più adatto a lei. Lo svantaggio di vivere in una metropoli è proprio l’eccessiva gamma di opzioni da valutare. Per noi cresciuti in una cittadina di provincia c’era solo da decidere il tipo di scuola perché esisteva solo un istituto per ogni indirizzo. Qui è tutto diverso. Ci sono quelli che dicono essere molto esclusivi, quelli in cui per cinque anni non metti naso fuori casa tanto c’è da studiare, quelli nei quali la componente nazifascista o ciellina è inutilmente in eccesso, quello che sembra interessante ma lo scorso anno non ha avuto sufficienti iscrizioni per allestire nemmeno una sezione, quello che sembra la scelta migliore ma la sede e quella dicitura di Regio Liceo Ginnasio sulla porta fa venire ansia solo al pensiero, per non parlare della soggezione che ti mette lo sguardo di Alessandro Manzoni nell’atrio. Mia figlia in pasto alla cultura giurassica e la scelta è da prendersi in poche settimane. Ma in tutto questo chissà se si può sbagliare, chissà se qualunque cosa decida riuscirà ad affrontarla con l’impegno giusto, chissà se tutta questa voglia di leggere e scrivere e non di fare di conto che abbiamo in famiglia, e che le abbiamo fatto involontariamente respirare, prima o poi si estinguerà e arriverà qualcuno frutto di qualche incrocio genetico a cambiare il corso del nostro destino e a fare qualcosa di utile per sé, per i suoi cari, per la cittadinanza, per il mondo intero.

il grande salto verso la perfezione

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La cosa migliore sarebbe montare delle teste da vecchi su dei corpi da preadolescenti e imparare che, per esempio, introdursi alle sei del pomeriggio di nascosto a scuola aiutandosi con un palo di ferro come dei topi d’appartamento professionisti ma solo per una cosa idiota come dare fuoco a un cestino di cartaccia è un gesto che non si fa. O comunque che, ancora per esempio, oggi anche le gabbie dei canarini hanno le videocamere di sorveglianza e che, di conseguenza, nemmeno ventiquattrore dopo sei già nell’ufficio della preside e va già bene che non sei al comando dei Carabinieri. Ma anche scrivere “portare le novelle della verga” sul diario anziché “del Verga” non fa ridere un uditorio che ormai non si sorprende più di nulla, figurati un professore di Italiano che poi, in calce alla battuta, ti mette una nota. Oppure mandarsi su Whatsapp le foto con la risoluzione dei problemi quando poi è richiesta la competenza sul procedimento, mica sul risultato. Imparare dai propri errori è ampiamente sopravvalutato, più efficace semmai adultizzare i nostri figli già nella culla e farli arrivare alle elementari già grandi, consapevoli che studiare è fondamentale, comportarsi a modo non ne parliamo, e già dotati di un prontuario delle cose da evitare. Finiamola quindi con queste storie sui cuccioli d’uomo che devono essere trattati come gli altri animali perché tempra il carattere. Ci siamo sviluppati già abbastanza, come genere umano, tanto vale fare il grande salto verso la perfezione.

agosto babbo mio non ti conosco

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Sull’otto e diciotto oggi vanno in scena i bambini. Potrei dire che fa caldo, che l’aria condizionata nel vagone non è all’altezza e che qualcuno ha aperto di quel poco che si può i moderni finestrini di cui il materiale ferroviario dedicato all’alta frequentazione è dotato. Ci sono altri particolari, i soliti. Qualcuno indossa infradito ma non se le potrebbe permettere. Solita percentuale vergognosa di gente che spippola su un dispositivo touch. Io che leggo irradiando la consueta dose di superiorità morale quotidiana. Ma oggi i protagonisti sono i nostri figli.

I miei stinchi sono presi d’assalto dalle sneakers del bambino seduto qui davanti. Peccato perché a parte questa forma di irrequietezza sembra proprio un amore di ragazzino, con il ciuffo come piace a me e la maglietta a righe che non sapete quando gli invidio. È salito con la mamma che fa l’impiegata e oggi trascorrerà la giornata in ufficio con lei. Gli passa l’iPhone e lo fa parlare con il papà, lei poco fa guardando lo schermo sorrideva a qualcosa. Sento che il papà gli chiede se è contento di andare al lavoro con la mamma ma non capisco la risposta. Si tratta comunque di una situazione piuttosto standard per chi non sa dove mettere i figli finita la scuola, finito il centro estivo, l’oratorio, finiti pure i parenti e amici a cui scroccare ospitalità.

Un’altra mamma, due sedili più in là, si fa passare da una certa Rachele la figlia al telefono e poi attiva il timbro vocale che si usa con i bambini, un concentrato di Sbirulino e di lessico famigliare. Deduco che la figlia dall’altra parte della conversazione è molto piccola perché, come ripete la mamma, si è dipinta il naso di rosso e le guance come un pagliaccetto. Come un pagliaccetto, vero amore?

Ma il mio cinismo è solo invidia perché voi maledetti bastardi siete tutti vicini ai vostri pargoli, anche se in modi diversi, e i vostri pargoli sono ancora sotto il vostro controllo e qualsiasi cosa facciano è la cosa più bella del mondo. Mia figlia in questo momento invece è ospite di un’amica in Sardegna. A giorni la raggiungeremo, ma in queste settimane che ha trascorso senza i genitori non ha sentito certo la nostra mancanza. Ha 12 anni, lei e l’amica hanno conosciuto dei ragazzi svizzeri e sembra proprio che questa volta ci sia qualche intrallazzo. Sapete come si dice, vero? Mi fido di lei, ma non fido degli altri. Poi penso a Gianluca e a sua figlia che invece di anni ne ha 16 e proprio ieri sera, in un noto borgo della riviera ligure dal nome tutt’altro che rassicurante, vista la situazione, ha trascorso il primo weekend da sola con un ragazzo, dormendo fuori. Insomma, è bene guardare sempre al peggio per trovare un po’ di sollievo.

è il 2016 e non è ancora stato sconfitto il flauto dolce

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Le immancabili considerazioni scritte di fine anno scolastico di mia figlia come da tradizione coincidono con la rappresentazione teatrale di classe – vulgo “spettacolo di fine anno” o “saggio di fine anno” – perché l’insieme di mia figlia + compagni di classe + genitori dei compagni di classe + professori + location parrocchiale + pressapochismo organizzativo genera mostri emotivi da esorcizzare sui blog genitoriali. Alla fine della seconda media i figli sono grandi, le femmine sono ragazze e i maschi sono poco più che bambini. Sul palco dell’oratorio mettono in scena alcune novelle del Decamerone e recitano a memoria (bene!) ma senza microfono (male!) e un po’ l’acustica, un po’ l’emozione, un po’ la carenza di tecnica teatrale, un po’ l’abitudine a non esprimersi a parole, un po’ certe inflessioni dialettali di origine, insomma non si sente niente e si perde l’effetto scenico. Mia figlia fa la narratrice e legge “Calandrino e la pietra dell’invisibilità”, quindi di lei si capisce tutto e si capisce anche che è un’adolescente e anche piuttosto bella malgrado il vestito che le è stato imposto per la rappresentazione. D’altronde ai tempi del Boccaccio non esistevano i dark, quindi è scesa a un compromesso, fortuna che a scuola – a differenza di casa – è ragionevole. Ho finito la fase in cui facevo foto su foto per documentare la vita di mia figlia. Intanto in teatro è buio e quindi non vengono, e poi potrei fare un video ma perché. Mi perderei la cosa dal vivo e so già che poi a casa non la guarderei mai. Se mi metto a passare in rassegna le foto di quando era piccola mi spiace perdermi il presente, ma a osservare con cura il presente non ci si accorge dei cambiamenti e quindi ci si ritrova con un adulto in casa senza rendersene conto. Se ho tempo rileggo cose scritte qui sul nostro passato trascorso insieme, e mi chiedo come sia stato possibile aver avuto un bambino in una porzione ridotta di spazio fisico di quello oggi occupato da questa strana ragazza che sta per prendere il volo. Peccato che lo spettacolo di fine anno preveda anche alcuni canti e balli tipicamente medievali (nei balli però si intravede qualche passaggio di hip hop preso in prestito dalla finale di Amici) e poi tutti insieme sul palco in due file, in piedi quelli dietro e seduti quelli davanti, a suonare il flauto dolce. Il flauto dolce ce lo portiamo appresso dalla prima elementare, la tecnica con cui lo suonano mia figlia e suoi coetanei è a grandi linee la stessa, pensare di suonare intonati monodie all’unisono come quelle senza irritare gli ascoltatori è pura fantasia. È il 2016 e non è ancora stato sconfitto il flauto dolce, è il 2016 e quella che vedo sul palco con la sua classe è sempre mia figlia ma dalle sembianze da donna che sta assumendo capisco che c’è qualcosa che emotivamente in me non quadra.

da quattro zampe a due

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Qualche sera fa a cena osservavo mia figlia mangiare, seduta a tavola di fronte a me. Ho attivato, non so per quale combinazione di comandi del mio sistema operativo, l’occhio cinematografico da dilettante e ho subito notato lo sfondo di quella scena, lo stesso di una foto di una decina di anni fa, eccezion fatta per qualche piccola miglioria nell’arredamento. La foto in questione la ritrae mentre gattona sorridente verso la macchina fotografica, e ricordo anche di aver prodotto un elementare fotomontaggio inserendo un fumetto con una frase pensata per stampare poi una specie di biglietto di auguri a un’amica di famiglia. La versione dodicenne di mia figlia invece, in quel momento, stava facendo chissà che cosa con il suo smartphone e lo so che non dovremmo permettere l’uso del telefono a tavola, ma che ci volete fare. Va benissimo a scuola, al momento non ci dà nessunissimo problema, quindi certi divieti con lei li consideriamo inappropriati soprattutto se costituiscono eccezioni alla regola. Se proprio vogliamo, ci sono ben altre cose che ci preoccupano, come il fatto che ha imparato a fare piazza pulita nella cache di Chrome del suo uso di Internet sul pc di casa. Noi la riempiamo di raccomandazioni, lei ci assicura del suo comportamento, e così si naviga a vista. Ma non era qui che volevo andare a parare. Dicevo che osservavo mia figlia che sembra una sedicenne a tavola dando la schiena alla sfondo di una foto in cui c’è sempre lei ma piccolissima, questo almeno nella mia immaginazione. E niente, pensavo solo che sarebbe stato bello sovrapporre davvero le due scene, vero?