una comunitĆ , o meglio un centro di riabilitazione

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L’ultima bussola di Ilvo Diamanti fa il punto su quella che potremmo definire in termini molto generali la galassia Zuckerberg, l’insieme dei mezzi di comunicazione personali che ha dato una seconda possibilitĆ  a timidi e sociopatici nell’ampia gamma di disturbi da contatto interpersonale diretto. Dialogare punto-punto o punto-multipunto per interposto dispositivo ha parcellizzato quel tessuto di rapporti che giĆ  la televisione aveva disgregato dando il colpo di grazia su quel luogo comune dell’uomo come animale sociale, tantomeno socialista. E mentre mia moglie mi legge l’articolo durante la consueta rassegna stampa da colazione nel dƬ di festa, con il piglio di chi appartiene al partito degli apocalittici pensando di fare breccia su un tesserato del movimento degli integrati, e penso che dovrei riportarlo in qualche modo qui, rifletto sul fatto che Ilvo Diamanti tutti i torti non li ha, lo condivido in pieno a parte alcuni passaggi intrisi di un trombonismo un po’ matusa. Ma non sarei cosƬ manicheo. Tra chi intravede la catastrofe e il bimbominkia affetto da dipendenza questa comunitĆ  comprende anche individui intelligenti che usano il mezzo anzichĆ© esserne in balia, ora sui due piedi non mi viene nemmeno un esempio da farvi però sono sicuro che lĆ  fuori qualcuno c’ĆØ.

nella splendida cornice

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Da quando l’iPad, tablet e e-reader sono stati immessi sul mercato, il mondo della pubblicitĆ  si sta saturando di immagini inscritte nel celeberrimo rettangolo touch screen. L’immaginario si fa realtĆ  se comprende un richiamo al contemporaneo in voga. E tutti i trend sono passati da lƬ: da l’iPhone a Second Life, gli schermi ultrapiatti e Facebook, il gioco della comunicazione cheap ĆØ facilitare la compatibilitĆ  e l’immedesimarsi del target con elementi familiari ma allo stesso tempo di grido, per fare sentire tutti aggiornati, parte della stessa era, l’ultima, insostituibili nel proprio ruolo psicosociale e, soprattutto, potenziali consumatori del prodotto pubblicizzato. La foto o il video sono più credibili se incollati con il software più appropriato nella cornice più famosa, previa rimozione in fotoritocco del brand per ovvi motivi di copyright. E giĆ  noi addetti ai lavori non ne possiamo più. Per fortuna la prossima tappa dell’hi-tech sarĆ  sulle nuvole, con il cloud, finalmente si potrĆ  puntare su una comunicazione aziendale più rasserenante.

non chattate al conducente

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Proliferano su Repubblica.it le segnalazioni di autisti del trasporto pubblico che, in servizio, si dilettano in attivitĆ  collaterali (e pericolose) alla guida. Le prove sono clip in cui i protagonisti sono ripresi durante conversazioni telefoniche, mentre scrivono sms, addirittura intenti in attivitĆ  ludiche con l’ipad. L’autista duepuntozero dovrebbe rendersi conto che anche i passeggeri sono quasi sempre on line, oltre a essere quasi sempre senza biglietto.

diritto di Facebook

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Leggo su l’Espresso un intervento superlativo di Giulio Graneri, il punto della situazione su una serie di aspetti volti a far comprendere meglio “quando stiamo andando”. Il tema ĆØ ottimamente riassunto nel titolo dell’articolo, “Dopo l’iPad, l’umanitĆ  2.0”. Un tema complesso, in cui si intersecano diversi aspetti quali l’annosa questione del digital divide, la democratizzazione dei mezzi di comunicazione, il fenomeno dell’informazione partecipata sul web, il marketing che viene dal basso, dematerializzazione e industria culturale nell’era dell’e-conomia, chi può e chi non può permettersi tutto ciò eccetera eccetera. Una perfetta sintesi di tomi, anzi, giga di documentazione e materiale e opinioni e punti di vista e contributi. CosƬ, a proposito di democratizzazione, mi permetto un paio di commenti (sempre nell’ambito del mio spazio pour parler).

Se non vendiamo più il supporto (la carta o il disco) il prodotto culturale diventa più complicato da vendere. E comincia ad essere difficile garantire una retribuzione per il giornalista o per l’autore, per l’editore o per il discografico.

Giusto. Ma aggiungerei: il prodotto culturale diventa più complicato da vendere con gli stessi margini. Giornalisti, autori, editori, discografici e (aggiungo io) musicisti si sono resi conto, a loro spese, che introiti e stili di vita di un tempo non sono più gli stessi. D’altronde sono in buona compagnia. Altri settori, tutti, direi, per motivi diversi, a malapena consentono il sostentamento, aziende e fabbriche chiudono, tecnologie obsolete escono di produzione eccetera eccetera. La sfida ĆØ proprio quella di saper cambiare. Gli sforzi quindi non devono essere sprecati nella guerra a file sharing, copyright e diritti e via dicendo, che in uno scenario digitale e digitalizzato mettono a nudo l’incompetenza dei propugnatori. Occorre pensare a nuovi modi di fare e vendere cultura. Il problema ĆØ il supporto? La cultura può puntare sul live, sul rapporto diretto tra autore e pubblico. Reading, incontri, concerti, djset, nuove modalitĆ  di performance, attivitĆ  non solo specifiche ma anche collaterali in cui sopravviveranno solo i meno rigidi o i più flessibili, i meno duri e puri. L’editoria poi dovrebbe riuscire a catalizzare tutte queste esperienze dirette con il pubblico sul web, facendo pagare contenuti extra, come in parte giĆ  avviene, consapevole che se una parola o una nota viene trasformata in bit sarĆ  comunque duplicata e condivisa. Ma non si deve cercare al di lĆ  del monitor il profitto. Certo, si deve lavorare di più guadagnando magari la metĆ  di prima. Ma questo ĆØ un problema comune a tutto l’attuale sistema economico.

Oggi ciascuno di noi costruisce, assembla la propria informazione attraverso il filtro degli altri, guardando il mondo attraverso gli occhi delle persone di cui si fida. È sempre più con questa logica che decidiamo cosa comprare, cosa leggere, dove andare in vacanza. Non è nulla di nuovo, lo abbiamo sempre fatto anche prima del digitale, usando i nostri amici e i nostri colleghi. Ma la scala con cui il digitale abilita questo processo è talmente importante che ridisegna buona parte della nostra vita.

Ed ecco il ruolo di player come Google e Facebook nel mercato globale. Sta giĆ  succedendo, ovvio. E mentre, almeno in teoria, dell’imparzialitĆ  verso il mercato di un sistema pubblico che eroga servizi dovremmo fidarci, come dobbiamo comportarci con le suddette corporation e il rapporto con i loro stakeholder? Se esistono discipline come SEO e SEM, ci sarĆ  un perchĆ©.

CosƬ come considereremo sempre più normale delegare alla tecnologia parte delle attivitĆ  del nostro cervello, come la memoria. Anche qui, stiamo vivendo una transizione importante: non ci interessa più “possedere” un’informazione, ma piuttosto ci interessa “sapere dove cercarla” quando ci serve. Questo passaggio dal possesso all’accesso ĆØ dirompente e sostanziale.

Giustissimo. E se si va verso l’integrazione di tutti i dispositivi in uno, oltre a chiudersi (finalmente?) l’era dell’accumulo fisico e del consumo compulsivo in ambito culturaleĀ  si avrĆ  un consumo tecnologico diverso. Se però tutto sarĆ  in rete, si consolida l’era dello storage e del cloud. Ma attenzione: i data center v anno a corrente, occorre focalizzarsi quindi su una gestione intelligente dell’energia e sulla continuiĆ  dei loro servizi.

I nostri dati personali, la nostra posta elettronica, la nostra agenda, il valore che creiamo in Rete, i nostri e-book: tutto ĆØ sempre disponibile per noi, perchĆ© risiede nella nuvola del cloud computing. Ma non lo possediamo. Ci affidiamo e ci fidiamo di Facebook, di Google, di Amazon, di queste grandi corporation che hanno la forza per standardizzare i servizi di base del digitale, cosƬ come i governi ci garantiscono i servizi base del mondo fisico. La salute, l’elettricitĆ , la viabilitĆ , da un lato. La continuitĆ  della posta elettronica, della piattaforma su cui lavoriamo, dall’altro. Solo che queste sono, appunto, corporation: aziende private che gestiscono ambiti delicatissimi della nostra societĆ  contemporanea. ƈ uno stato di fatto imposto dalle cose in modo molto rapido, una situazione cui ancora non abbiamo preso le misure.

La Pubblica Amministrazione non riuscirĆ  mai, appunto, a fare le veci di una corporation, ma dovrĆ  acquistarne i prodotti. Quale sarĆ  quindi il prezzo da pagare, per i cittadini-utenti, di servizi che ci sono indispensabili (sono davvero indispensabili?), che consideriamo dovuti ma che non lo sono? Qual ĆØ il profitto di Google nel mettermi a disposizione gratuitamente tera di storage per conservare informazioni sulla mia vita e su quella dei miei amici? Lo farĆ  sempre? Se Facebook fallisce, che ne sarĆ  di anni della mia vita social-e? Il ruolo di questi player – e parlo di Google che mi fa trovare le informazioni e che mi mette a disposizione una versione senza licenza di Office online, Facebook che mi tiene in contatto senza spendere un centesimo di telefono, Worpdress che memorizza e mi consente di pubblicare tutte le cose che scrivo – diventa sempre più critico e imprevedibile. PerchĆ© un prodotto può essere superato con un analogo migliore. Un sistema diffuso capillarmente e radicato nel comportamento singolo e sociale no. Windows può essere soppiantato da Ubuntu. Ma Google o Facebook, cosƬ diffusi da costituire la memoria e lo spazio virtuale ormai per antonomasia, difficilmente cederanno il posto, o ci saranno analoghi servizi progettati dal Pubblico per essere pubblici che li soppianteranno.

apple, pericolo di crollo?

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