la tecnologia che si misura in ditate

Standard

E comunque quando ci renderemo conto che nemmeno il tablet è La Soluzione con la esse maiuscola sarà troppo tardi e avremo già accettato il fatto che portarsi appresso questa nuova tavoletta di plastica fa parte della nostra gestualità ordinaria, alla pari di girare con quei pistolotti nelle orecchie per ascoltare l’audio delle telefonate o correre con lo smartcoso in mano. Far passare come necessario un accessorio che non lo è non è cosa immediata, poi inizi a dire che tanto ce l’hanno tutti e alla fine ti ritrovi in giro con l’iPad sotto l’ascella come le baguette da consultare se ti perdi per strada perché hai caricato lì il navigatore o per confrontare quello che vedi con l’app di realtà aumentata che ti mette le didascalie dove non capisci. Che detta così uno pensa che un’app con queste funzionalità a molti dovrebbe essere installata obbligatoriamente ma direttamente nel cervello, sai quanti problemi in meno avremmo in questa zozza società. Sempre nell’ottica di farci ricordare meno cose tanto ce le abbiamo lì e basta sapere dove cercarle, ma vaglielo dire agli abitanti di quei paesini, a volte nemmeno tanto -ini, che la connessione continua, pubblica e gratuita non ce l’hanno e poi voglio vederti ad ascoltare musica, reperire informazioni, trovare risposte nel cloud quando non c’è nemmeno l’Internet che pare sia patrimonio dell’umanità. Avrei aggiunto l’aggettivo ricca ma non voglio fare il disfattista come al solito. Poi ogni tanto vedi un tablet per aria come gli ombrellini dei capo-comitiva in piazza San Marco, la giapponese con cloche di tela e occhiali da sole che guida una moltitudine di orientali di mezza età. Invece il tablet tenuto in alto significa che sotto sotto qualcuno vuole fare una foto, e anche qui ne avrei di cose da dire perché non venite a raccontarmi che con un tablet fate foto più belle di una compatta da cinquanta euro. Tra i prossimi usi, la racchetta da tennis, il vassoio da caffè per il campeggio – e non voglio parlare troppo forte che poi mia moglie mi potrebbe anche prendere sul serio, il sottovaso digitale o il tagliere da frutta che già c’è un gioco per affettare angurie e altri vegetali grazie al quale mia figlia ha scoperto i vantaggi del touch screen. Poi non so. Ci hanno venduto i portatili per consentirci di avere sempre con noi il nostro lavoro, poi li hanno alleggeriti con i netbook, un prodotto che è stato un fiasco perché si avevano prestazioni pessime in un contesto di informatica giocattolo, ma anche quello ci è stato presentato come il prodotto del futuro. Poi fermi tutti perché si può miniaturizzare il silicio nei telefoni portatili e nei palmari fino a quando a un certo punto la tecnologia si è giocata la carta dello spin off ed ecco il padellone a metà tra lo smartcoso e il laptop. E secondo me si può ancora osare di più. Tutto negli occhiali, tutto negli orologi, tutto negli anelli, nei piercing, nelle unghie, che quella del pollice – almeno del mio – sembra proprio a forma di schermo e non c’entra niente l’unità di misura dei televisori.

alone again

Standard

È facile che chi da qualche anno spinge l’acceleratore del mercato sulla tecnologia touch screen, personale, professionale e multiutente, non abbia tenuto conto di fattori poco edificanti dal punto di vista del marketing di prodotto come l’untuosità della pelle, che è un sottoinsieme della discutibile igiene personale in quanto sapete quanto me che i pori sono i veri cani sciolti del nostro organismo. Cosa non esce e cosa non si raccoglie in quei punti di interscambio tra interno ed esterno è meglio non pensarci nemmeno, e puoi anche star lì a lavare e asciugare le mani nemmeno fossi uno dello staff di Grey’s Anatomy che alla prima ditata sul tuo tablet ecco l’impronta sebacea che è il vero elemento di identificazione in caso di dubbi sulla proprietà di un dispositivo. Peccato che nessuno abbia mai pensato a utilizzare non tanto l’epitelio del polpastrello, come fattore di riconoscimento nei sistemi di accesso fisico e regolamentato, quanto l’alone di schifezze che le nostre dita rilasciano a contatto con le superfici pulite. L’estate non a caso è una sorta di cartina di tornasole delle nostre secrezioni. Ti prepari per una lettura outdoor con il tuo iPad ma ecco che il riflesso non lascia scampo e se sei lì con qualcuno ti vergogni come quando prepari la tavola, hai ospiti, e le brutture opacizzanti lungo il vetro dei bicchieri tradiscono il peccato originale di essersi accontentati di una lavastoviglie entry-level di una marca nazionale destinata a sparire schiacciata dalla concorrenza orientale, acquistata nell’ennesimo megastore su suggerimento di un commesso precario passato dai contratti telefonici agli elettrodomestici senza passare dal via, anziché aver scelto una rigorosa tecnologia tedesca dando retta ai genitori anziani. Un acquisto da saldare a rate salate effettuato però con l’obiettivo di assicurarsi un investimento duraturo. Ci sono persone e sedicenti amici che te lo fanno notare se si vede che è tanto che non pulisci lo schermo, rende la lettura difficoltosa ma non ci sono scuse, perché qualcuno può avere ribrezzo a mettere le mani su quelle chiazze di non so che cosa. E tu vai a spiegargli che non è come sembra, hai una figlia piccola che mangia pane e marmellata e poi si mette a giocare con le app craccate, che hai due gatti che passano sopra a tutto senza distinguere a priori il valore di quello che calpestano, magari subito dopo aver espletato funzioni fisiologiche che, nel mondo dei felini domestici, si concludono con la copertura del prodotto raspando la sabbia della lettiera. Quindi vale il modo dire che la colpa non è proprio la tua e che quindi la gravità del danno è stemperata, che in questo momento mi sfugge, non è proprio mal comune mezzo gaudio ma qualcosa che ha a che fare con altro. E il tuo tablet che volevi sfoggiare come prodigio di innovazione touch screen viene messo all’indice (bella questa, eh? l’avete capita?). Alla fine preferisco usare il mio caro vecchio, anzi nuovo, laptop. Le dita le metti sulla tastiera, anche se non chiedetemi il perché ma il display si macchia lo stesso. Forse ci sono dei pori anche lì sopra. Vi lascio con il brano usato per il gioco di parole del titolo, sapete che ci tengo a fare il brillante (bella anche questa, dài).

secondo round

Standard

Spero sarete d’accordo con me quando dico che la modernità ci ispira molte volte condotte disdicevoli e ci induce a posture che sì, trasmettono il nostro tentativo di adattare il nostro corpo alle nuove invenzioni pensate per migliorare il modo in cui viviamo, ma introducono consuetudini che talvolta fanno fatica a passare inosservate. E sono certo che un briciolo di auto-ironia nell’ammettere questa sorta di deriva comportamentale ci consentirebbe di moderare almeno le gestualità più evidenti. Si tratta di una tesi che sostengo – e ne ho già discusso altrove – sin da quando gli individui non si vergognano più di parlare da soli al telefono in pubblico con elementi protesici bluetooth conficcati nelle orecchie, piccoli spettacoli estemporanei che tuttavia toccano spesso vette di alta drammaturgia di strada. Poi è subentrata la variante da smartcoso, che consiste nell’aggiungere all’uso dell’auricolare il dispositivo tenuto perpendicolarmente alla bocca, vista l’ubicazione del microfono, come una tartina pronta all’assaggio. Anche quello ormai è un classico della clownerie involontaria. Per non parlare dell’avvento dei tablet – della cui utilità sono sempre meno convinto, ma questa è una opinione personale, e lo sapete quanto io sia schiavo della tecnologia – che ha generato un ulteriore passo evolutivo che consiste nel tenere sollevata la piastrellona touch-screen dinanzi a noi per scattare le foto o riprendere una scena in video. L’effetto è quello del cartellone mostrato in manifestazione, che uno si aspetta di leggere slogan tipo “senza se e senza ma” ma digitalizzati per qualche forma di protesta o, come suggerisce il titolo di questo post, le signorine che durante gli incontri di pugilato informano il pubblico sulla durata del match e invece no, si tratta della nuova fase del genere umano che si ferma a immortalare paesaggi e persone con la prima cosa che ha a disposizione. Perché oggi il tablet ce l’hanno tutti in mano con un livello di diffusione che non si vedeva dai tempi dell’autoradio con maniglia che si lasciava al guardaroba in discoteca, o lo si poggiava sul tavolo del ristorante cinese la domenica sera, quando si portava fuori a cena la fidanzata. Sorridi cara, che ti faccio una foto col vestito elegante mentre impari a mangiare le nuvole di drago intrise di salsa di soia con le bacchette. Clic.

una comunità, o meglio un centro di riabilitazione

Standard

L’ultima bussola di Ilvo Diamanti fa il punto su quella che potremmo definire in termini molto generali la galassia Zuckerberg, l’insieme dei mezzi di comunicazione personali che ha dato una seconda possibilità a timidi e sociopatici nell’ampia gamma di disturbi da contatto interpersonale diretto. Dialogare punto-punto o punto-multipunto per interposto dispositivo ha parcellizzato quel tessuto di rapporti che già la televisione aveva disgregato dando il colpo di grazia su quel luogo comune dell’uomo come animale sociale, tantomeno socialista. E mentre mia moglie mi legge l’articolo durante la consueta rassegna stampa da colazione nel dì di festa, con il piglio di chi appartiene al partito degli apocalittici pensando di fare breccia su un tesserato del movimento degli integrati, e penso che dovrei riportarlo in qualche modo qui, rifletto sul fatto che Ilvo Diamanti tutti i torti non li ha, lo condivido in pieno a parte alcuni passaggi intrisi di un trombonismo un po’ matusa. Ma non sarei così manicheo. Tra chi intravede la catastrofe e il bimbominkia affetto da dipendenza questa comunità comprende anche individui intelligenti che usano il mezzo anziché esserne in balia, ora sui due piedi non mi viene nemmeno un esempio da farvi però sono sicuro che là fuori qualcuno c’è.

nella splendida cornice

Standard

Da quando l’iPad, tablet e e-reader sono stati immessi sul mercato, il mondo della pubblicità si sta saturando di immagini inscritte nel celeberrimo rettangolo touch screen. L’immaginario si fa realtà se comprende un richiamo al contemporaneo in voga. E tutti i trend sono passati da lì: da l’iPhone a Second Life, gli schermi ultrapiatti e Facebook, il gioco della comunicazione cheap è facilitare la compatibilità e l’immedesimarsi del target con elementi familiari ma allo stesso tempo di grido, per fare sentire tutti aggiornati, parte della stessa era, l’ultima, insostituibili nel proprio ruolo psicosociale e, soprattutto, potenziali consumatori del prodotto pubblicizzato. La foto o il video sono più credibili se incollati con il software più appropriato nella cornice più famosa, previa rimozione in fotoritocco del brand per ovvi motivi di copyright. E già noi addetti ai lavori non ne possiamo più. Per fortuna la prossima tappa dell’hi-tech sarà sulle nuvole, con il cloud, finalmente si potrà puntare su una comunicazione aziendale più rasserenante.