benvenuto nella tua nuova posta in arrivo

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Vedete, il motivo per cui mi accanisco a scrivere tutte queste cose è che qui mi sento padrone a casa mia, come si dice sul pianeta dei calderoli. Non che la mia vera abitazione non sia confortevole, anzi. Ma qui so sempre dove trovare le cose. Non sparisce mai nulla. So che c’è un menu che a voi è trasparente ma che mi permette di scrivere un nuovo post come questo, mettere delle parole in grassetto o in italico,

  • utilizzare
  • i punti elenco
  • che è una cosa
  • che non faccio mai.

Se voglio abbellire il testo con foto o video so come fare. Insomma, conosco questo posto abbastanza bene, diciamo che le cose che mi serve che faccia le fa. Se poi proprio voglio rivoluzionare tutto – e già pensarlo mi mette i brividi – posso scegliere un tema diverso. I temi sono la grafica che compone le pagine, quindi i titoli scritti così, il menu scritto cosà, il carattere utilizzato eccetera. Ma so che molti di voi sono i fortunati possidenti di un luogo come questo quindi non mi dilungo oltre. Perché invece quando mi capita di andare altrove, in quelle accozzaglie di socialità frequentate da persone che ce la mettono tutta per superarsi (e superarmi) in acume e spirito, ogni due per tre cambia qualcosa. E il pulsante che prima era destra ora è a sinistra, e poi la colonna e i criteri di ricerca. Che poi tra di loro tutti questi grandi colossi della nuova bolla, che poi ora sono rimasti due e cioè Facebook e Google e gli altri si illudono di contare qualcosa, stanno all’erta e quando uno fa una modifica subito l’altro rilancia con qualche nuova funzionalità. Ed è tutto un “hey amico prova questo nuovo modo di visualizzare la posta”, e le etichette, gli speciali, le categorie e quelle in evidenza. Ma lo sapete, io sono uno di quelli che vorrebbe tutto sempre uguale. La Sip, l’Enel, tre canali Rai. Invece qui è tutto maledettamente veloce, non passa giorno in cui non ci sia qualcosa di nuovo da imparare per stare al passo con i tempi. Ma avete visto qual è poi la conseguenza? Siamo come i bambini a Natale, con mille pacchi da sfasciare, e il gioco vero è sfasciare i pacchi.

il mare sotto

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Al primo piano vive una delle famiglie più mondane che abbia mai conosciuto. La media è di una cena a settimana, d’estate di più perché sfruttano l’ampio balcone, numero variabile di partecipanti tra i dieci e i venti, adulti e bambini. Il profumo delle portate si percepisce anche di sopra, soprattutto quando entra in funzione il barbecue sul balcone, poi l’odore del caffè. Ma non ne faccio un problema di convivenza, non mi danno nessun fastidio, forse con la bella stagione e le finestre aperte si corre il rischio di volgere l’attenzione alle loro discussioni, ma nulla di più. Considerato il mio vicinato, di cui avevo già parlato, va bene così. Anzi. Mia moglie ed io ci meravigliamo ogni volta della costanza e dell’abnegazione che alcune persone, molto diverse da noi, hanno per la vita sociale. Quanto impegno occorre a mantenere rapporti, chi fa più fatica e chi meno. E ci confrontiamo sul fatto se, a noi, condurre una vita di relazioni estreme come la loro piacerebbe oppure meno. Ma è facile giungere alla conclusione. Intanto né io né lei siamo amanti della cucina e della convivialità come scenario aggregativo, mettere su una cena per 10 persone una volta a settimana sarebbe impossibile, anche perché a malapena riusciamo a garantire pasti decenti per nostra figlia, visto il rapporto che abbiamo con il cibo e la sua preparazione. Non solo. Mancherebbe anche un elemento fondamentale nell’allestimento di cene con tanti amici, ovvero i tanti amici. La cerchia, la stessa che si può graficamente rappresentare oggi su Google+, non supera le 10 persone, parenti stretti compresi. Così, a volte distratti dal vociare o dal rumore delle forchette nei piatti, in totale relax mentre nostra figlia se la spassa in montagna, siamo lì a leggere, a seguire Rai News o a guardare film esilaranti come “Il mare dentro”, mentre sotto il party è nel pieno, c’è anche un cabaret di pasticcini coloratissimi. E ci chiediamo sempre come mai i vicini mondani non ci abbiano mai invitato a una delle loro cene. Non capisco il perché; io farei carte false per essere mio amico.

you are what you write

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Immagino sia una funzionalità di ogni piattaforma di blogging: nel pannello di controllo di WordPress, oltre alla conta delle visite, c’è l’elenco delle parole che i miei utenti (scusate, ma stento ancora chiamarvi lettori, la responsabilità che ne deriva mi spaventa non poco) hanno inserito nei motori di ricerca per avere, come esito, il mio unico e inconfondibile url. Piccola deformazione professionale, dovendo cimentarmi quotidianamente anche con i princìpi di SEM e SEO per mettere insieme uno stipendio a fine mese. Una forma di voyeurismo anonimo ma comunque divertente, un modo di intercettare le ricerche in Internet altrui.

Nel report spicca la stragrande maggioranza di stringhe di testo contenenti “Sanremo”, quindi “onorevole Iva Zanicchi”, un buon numero di “The Sound” e “Jeopardy”, il che mi ha sorpreso, trattandosi di una delle band più sottovalutate della storia della musica.

Cose inquietanti, tipo “pupille da eroina” e “problemi di acidità”, l’immancabile e nazionalpopolare “figa”, allo stesso modo “Tini Cansino”. Una marea di frasi incomprensibili, sgrammaticate e zeppe di refusi (ecco perché portano qui, probabilmente) tipo “vignetta che studia” e “scrivere un racconto di come o pasato il natale”. Infine, avendo scelto un titolo come “alcuni aneddoti dal mio futuro”, ho riscontrato una strenua e continua ricerca di motti e facezie mista a richieste di divinazione, quasi che gli italiani si affidino a Google per fare rifornimento di battute o spunti di conversazione e per sapere cosa ne sarà della loro vita.

Il bilancio: per quanto da queste parti ci si atteggi a influencer di politica, cultura, sociologia della comunicazione e nuovi media, alla fine il mio blog altro non è che un sano ricettacolo di musica pop e cazzate.

direzione didattica

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Un pour parler sulla scuola, ispirato principalmente da 2 spunti. L’aver rintracciato con piacere su Facebook la figlia della mia maestra, una delle figure di riferimento più importanti della mia vita (e qui ahimé non possono mettere alcun link di approfondimento), e il post di Leonardo Tondelli presente qui, che ha come argomento Internet, cyborg e lavagne interattive. In più, una spruzzata di un articolo di Giuseppe Graneri su l’Espresso online, che ho già ripreso in un post precedente.

Noi, in classe, – sto parlando delle elementari – avevamo due cervelloni. Uno si chiamava Enciclopedia, che rispetto a Internet aveva il limite di diventare obsoleto rapidamente, anche se prima della scienza dell’informazione tutto era più lento. Ci si metteva più tempo a cercare le informazioni, a trovarle e a interpretarle per arrivare a identificare la vera risposta che si cercava. Si sapeva, o perlomeno si supponeva di sapere chi aveva scritto quella risposta: voglio dire, l’autorevolezza di una redazione preposta alla stesura di un’enciclopedia era fuori discussione. Questo non significa che l’intelligenza collettiva cui fa riferimento Leonardo sia meno autorevole. Diciamo che è meno controllabile, che se anche l’intelligenza collettiva di Internet è in grado di smentire se stessa, lo può fare smentendo la smentita all’infinito. La fonte Treccani, voglio dire, aveva in sé la purezza di essere una fonte vergine da commenti. Dice Graneri: “stiamo vivendo una transizione importante: non ci interessa più “possedere” un’informazione, ma piuttosto ci interessa sapere dove cercarla quando ci serve“. Internet è uno strumento che ci consente di accelerare questo processo di ricerca, e ha sostituito l’andare in biblioteca, sfruttarne il reference, definire il percorso per organizzare le informazioni. Ora basta una domanda, addirittura non esiste più nemmeno il linguaggio macchina per interloquire con il cervello artificiale. Non so quantificare la percentuale di intelligenza che Google sottrae all’essere umano, sostituendosi in questa fase, che nella scuola che ho frequentato io era comunque costitutiva dell’apprendimento e della valutazione cui eravamo sottoposti.

Il secondo cervellone che avevamo a disposizione era la maestra stessa. A volte sapeva rispondere subito alle nostre domande. A volte ci guidava nella risposta. Altre, in quanto essere umano, pur di intelligenza e cultura superiore, ci rispondeva il giorno successivo, dopo essersi documentata. Un processo più lento, certo, ma pensate a quanta umanità c’era in tutto questo. L’umanità di saper filtrare le informazioni e restituirle nel modo più adatto a bambini di meno di 10 anni. Di saperle raccontare. Perché la risposta al nozionismo è una funzione facilmente evasa da Google. Quanto è alto il Monte Bianco? Qual è la capitale dell’Islanda? La maestra, almeno la mia, era un mix tra una super-mamma e Google. Dove Google è lo strumento, l’Enciclopedia, e la super-mamma è quella che trova la sintesi più adatta a te. Scremare le risposte, ripulire la verità dalla pubblicità, smascherare il ranking a pagamento dall’algoritmo genuino che riporta l’informazione più utile. Oltre a dare i cioccolatini come premio per aver risolto il problema difficile.

Ora le complessità sono decuplicate. La scuola di 40 anni fa renderebbe inutile un qualsiasi quantum leap (nel senso del telefilm), il maestro unico di allora non sopravviverebbe alla babele psicopedagogica del presente. Quindi che questo post sia solo un piccolo romantico omaggio al mio motore di ricerca intelligente di allora, il cui nome è Iside (non sarebbe male però come nome di un motore di ricerca, vero? Chissà se è già occupato il dominio www.iside.it).

p.s. che differenza c’è tra una lavagna multimediale e un pc collegato ad uno schermo grande o a un proiettore?

diritto di Facebook

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Leggo su l’Espresso un intervento superlativo di Giulio Graneri, il punto della situazione su una serie di aspetti volti a far comprendere meglio “quando stiamo andando”. Il tema è ottimamente riassunto nel titolo dell’articolo, “Dopo l’iPad, l’umanità 2.0”. Un tema complesso, in cui si intersecano diversi aspetti quali l’annosa questione del digital divide, la democratizzazione dei mezzi di comunicazione, il fenomeno dell’informazione partecipata sul web, il marketing che viene dal basso, dematerializzazione e industria culturale nell’era dell’e-conomia, chi può e chi non può permettersi tutto ciò eccetera eccetera. Una perfetta sintesi di tomi, anzi, giga di documentazione e materiale e opinioni e punti di vista e contributi. Così, a proposito di democratizzazione, mi permetto un paio di commenti (sempre nell’ambito del mio spazio pour parler).

Se non vendiamo più il supporto (la carta o il disco) il prodotto culturale diventa più complicato da vendere. E comincia ad essere difficile garantire una retribuzione per il giornalista o per l’autore, per l’editore o per il discografico.

Giusto. Ma aggiungerei: il prodotto culturale diventa più complicato da vendere con gli stessi margini. Giornalisti, autori, editori, discografici e (aggiungo io) musicisti si sono resi conto, a loro spese, che introiti e stili di vita di un tempo non sono più gli stessi. D’altronde sono in buona compagnia. Altri settori, tutti, direi, per motivi diversi, a malapena consentono il sostentamento, aziende e fabbriche chiudono, tecnologie obsolete escono di produzione eccetera eccetera. La sfida è proprio quella di saper cambiare. Gli sforzi quindi non devono essere sprecati nella guerra a file sharing, copyright e diritti e via dicendo, che in uno scenario digitale e digitalizzato mettono a nudo l’incompetenza dei propugnatori. Occorre pensare a nuovi modi di fare e vendere cultura. Il problema è il supporto? La cultura può puntare sul live, sul rapporto diretto tra autore e pubblico. Reading, incontri, concerti, djset, nuove modalità di performance, attività non solo specifiche ma anche collaterali in cui sopravviveranno solo i meno rigidi o i più flessibili, i meno duri e puri. L’editoria poi dovrebbe riuscire a catalizzare tutte queste esperienze dirette con il pubblico sul web, facendo pagare contenuti extra, come in parte già avviene, consapevole che se una parola o una nota viene trasformata in bit sarà comunque duplicata e condivisa. Ma non si deve cercare al di là del monitor il profitto. Certo, si deve lavorare di più guadagnando magari la metà di prima. Ma questo è un problema comune a tutto l’attuale sistema economico.

Oggi ciascuno di noi costruisce, assembla la propria informazione attraverso il filtro degli altri, guardando il mondo attraverso gli occhi delle persone di cui si fida. È sempre più con questa logica che decidiamo cosa comprare, cosa leggere, dove andare in vacanza. Non è nulla di nuovo, lo abbiamo sempre fatto anche prima del digitale, usando i nostri amici e i nostri colleghi. Ma la scala con cui il digitale abilita questo processo è talmente importante che ridisegna buona parte della nostra vita.

Ed ecco il ruolo di player come Google e Facebook nel mercato globale. Sta già succedendo, ovvio. E mentre, almeno in teoria, dell’imparzialità verso il mercato di un sistema pubblico che eroga servizi dovremmo fidarci, come dobbiamo comportarci con le suddette corporation e il rapporto con i loro stakeholder? Se esistono discipline come SEO e SEM, ci sarà un perché.

Così come considereremo sempre più normale delegare alla tecnologia parte delle attività del nostro cervello, come la memoria. Anche qui, stiamo vivendo una transizione importante: non ci interessa più “possedere” un’informazione, ma piuttosto ci interessa “sapere dove cercarla” quando ci serve. Questo passaggio dal possesso all’accesso è dirompente e sostanziale.

Giustissimo. E se si va verso l’integrazione di tutti i dispositivi in uno, oltre a chiudersi (finalmente?) l’era dell’accumulo fisico e del consumo compulsivo in ambito culturale  si avrà un consumo tecnologico diverso. Se però tutto sarà in rete, si consolida l’era dello storage e del cloud. Ma attenzione: i data center v anno a corrente, occorre focalizzarsi quindi su una gestione intelligente dell’energia e sulla continuià dei loro servizi.

I nostri dati personali, la nostra posta elettronica, la nostra agenda, il valore che creiamo in Rete, i nostri e-book: tutto è sempre disponibile per noi, perché risiede nella nuvola del cloud computing. Ma non lo possediamo. Ci affidiamo e ci fidiamo di Facebook, di Google, di Amazon, di queste grandi corporation che hanno la forza per standardizzare i servizi di base del digitale, così come i governi ci garantiscono i servizi base del mondo fisico. La salute, l’elettricità, la viabilità, da un lato. La continuità della posta elettronica, della piattaforma su cui lavoriamo, dall’altro. Solo che queste sono, appunto, corporation: aziende private che gestiscono ambiti delicatissimi della nostra società contemporanea. È uno stato di fatto imposto dalle cose in modo molto rapido, una situazione cui ancora non abbiamo preso le misure.

La Pubblica Amministrazione non riuscirà mai, appunto, a fare le veci di una corporation, ma dovrà acquistarne i prodotti. Quale sarà quindi il prezzo da pagare, per i cittadini-utenti, di servizi che ci sono indispensabili (sono davvero indispensabili?), che consideriamo dovuti ma che non lo sono? Qual è il profitto di Google nel mettermi a disposizione gratuitamente tera di storage per conservare informazioni sulla mia vita e su quella dei miei amici? Lo farà sempre? Se Facebook fallisce, che ne sarà di anni della mia vita social-e? Il ruolo di questi player – e parlo di Google che mi fa trovare le informazioni e che mi mette a disposizione una versione senza licenza di Office online, Facebook che mi tiene in contatto senza spendere un centesimo di telefono, Worpdress che memorizza e mi consente di pubblicare tutte le cose che scrivo – diventa sempre più critico e imprevedibile. Perché un prodotto può essere superato con un analogo migliore. Un sistema diffuso capillarmente e radicato nel comportamento singolo e sociale no. Windows può essere soppiantato da Ubuntu. Ma Google o Facebook, così diffusi da costituire la memoria e lo spazio virtuale ormai per antonomasia, difficilmente cederanno il posto, o ci saranno analoghi servizi progettati dal Pubblico per essere pubblici che li soppianteranno.