c’è una tipa nuova in città

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Se fantasticate ancora al ricordo alla storia della cameriera che a trent’anni suonati e con un figlio dodicenne fa armi e bagagli dal New Jersey e si trasferisce a Phoenix, Arizona, cambiando radicalmente vita, ma poi non comprendete la scelta della maestra di vostra figlia che dalla Basilicata si è spostata per lavoro nella peggiore delle periferie nord di Milano senza nemmeno il tempo di imparare la lingua, c’è qualcosa che non va. Il sogno americano in salsa di pomodoro e mozzarella non vi piace? Saranno forse le strade che non sono certo quelle del coast to coast ma si pagano a suon di soldoni in tangenziale per poi rimanere imbottigliati alla barriera, con la gente comune che non sa di essere ripresa per la sigla di un telefilm di successo e cerca di fottervi il posto in coda e si sa, di questi tempi è meglio lasciare correre i soprusi automobilistici, non si sa mai chi ci sia alla guida. Per dire, qualche settimana fa ho assistito a una rissa qui sotto tra due contendenti alla pole position del traffico locale e, avvertendo le sirene della Polizia in arrivo, uno dei più cattivi si è premurato di darsela a gambe portando con sé un cannone da non so quanti millimetri che gli teneva compagnia nel cruscotto. La gente non sta bene. Ma non saranno nemmeno i TIR da superare in colonna uno via l’altro, più concilianti rispetto ai truck americani per l’effigie di Padre Pio che ostentano sulle aperture posteriori del rimorchio ma, anche qui, è tutta una questione di punti di vista. Se siete rimasti impressionati dagli inseguimenti di Duel, una certa iconografia dell’aldilà montata su colossi stradali (potenziali armi di distruzione di massa) non è altrettanto rassicurante. O sarà lo specifico delle autostrade italiane che vietano l’autostop e che ci mettono al riparo dal Rutger Hauer di turno che rovina la giornata a noi o, al contrario, è la nostra pazienza che va in tilt e che rovina la giornata degli altri in una kermesse di ordinaria follia per gli ingorghi, il caldo, il divorzio, il lavoro che non c’è più, le cavallette. Ma, a parte gli inconvenienti del viaggio, a partire dalla Reggio Calabria – Salerno, cambiare vita così come si fa negli Stati Uniti è una pratica piuttosto diffusa dalle nostre parti da almeno 70 anni e si chiama emigrazione interna, forse il fatto di spostarsi orizzontalmente anziché da nord a sud ha tutto un altro fascino e impone ben altra tipologia di narrazione. Strapparsi dalle radici per un posto da insegnante, come il caso che vi ho sottoposto prima, dividere un appartamento in affitto con qualche collega e trascorrere il tempo a cercare occasioni di viaggio per pagare il meno possibile il rientro al paesello di origine nei giorni di festa ha una prospettiva piuttosto differente, e raccontare una storia così al cinema probabilmente non interessa a nessuno.

la prima di tutta una serie di vite di corsa

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Finita l’era del collezionismo dei biglietti da visita, d’altronde sono i filtrini per gli spinelli a essere superati, chi ha a che fare con tanti clienti e fornitori o, comunque, quelli come me per cui gli incontri e le riunioni di lavoro sono all’ordine del giorno, insomma quasi tutti stiamo passando alla raccolta dei santini elettronici, meglio noti come foto-tessere da profilo LinkedIn. Ho guglato così anche Lara proprio oggi, ho stampato la sua foto 60 pixel per 60 pixel che è uscita come primo risultato e l’ho incollata nell’album che sono riuscito a mettere insieme da quando mi è venuta questa passione, andando anche a ritroso nella mia carriera professionale.

Ma dare volti ai nomi e viceversa con il caso di Lara non c’entra. L’ho vista la prima volta uscire di casa e finalmente ho capito che abita in quel palazzo tutto a spigoli bianco e azzurro, che fino ad oggi mi ha incuriosito per il tipo di arredamento che uno deve scegliere per vivere in un posto così, ma ora ha assunto tutto un altro significato. Lara è una specie di modella ed è per questo che ho accelerato il passo per capire se fosse la stessa persona con cui avevo avuto a che fare proprio qualche giorno prima. È letteralmente volata con le sue gambe lunghissime – Lara è altissima – dall’ingresso giù nella nella stazione della metro per poi lasciarsi inghiottire da un tornello prima e da un convoglio pochi secondi dopo. Lara poi un giorno mi ha detto che odia farsi vedere in pubblico perché non sopporta attirare gli sguardi delle persone, ed è per questo che quasi corre quando deve andare da un posto all’altro, così ho fatto finta di niente. Ancora meno sopporta di farsi fotografare e mettere la sua faccia su Internet, considerando che lo deve fare per lavoro. Vorrebbe essere una modella e basta ma, per permettersi di diventarlo, per ora fa quel lavoro che la porta a incontrare gente come me in anonime sale riunioni. La foto-tessera di LinkedIn è rara, per quello vale la pena di conservarla in un raccoglitore.

Lara ha una sorta di agente che l’accompagna lungo i canali più facili per avere successo nell’ambiente della moda, uno che ha persino le chiavi dell’appartamento di quel palazzo tutto a spigoli bianco e azzurro in cui vive, ma solo perché ne è l’effettivo affittuario. Mi ha raccontato anche che l’ultima volta è entrato senza nemmeno suonare il campanello, lei si stava tagliando le unghie dei piedi in mutande, con una gamba appoggiata sul lavandino del bagno che è la prima stanza che si vede entrando – e se poi uno tiene la porta aperta – e lui si è persino imbarazzato per la pratica naturale che non si addice a una professione artificiale come quel tipo di bellezza. Lara mi ha quindi chiesto qual è il modo corretto di cambiare le pile al telecomando della sua tv, se il più va con il più o, invece, occorre metterlo a contatto con il suo opposto. Che in effetti ha una sua logica, e mi è venuto persino il dubbio e così ho risposto che se fossi un artificiere con i fili rosso e nero e con la storia della polarità salterei in aria. Ho omesso però la storia dell’archivio fotografico delle persone che incontro per lavoro, non volevo sembrasse una scusa come a chiedere ti va di salire per vedere la mia collezione di foto di account manager.

Milano, Nebraska

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Le cose stanno così: vedi una ragazza carina che legge Internazionale e vorresti dirle che è bello vedere persone che leggono Internazionale, vedi una ragazza carina che rompe gli indugi su quale opuscolo scegliere in un chiosco improvvisato da una setta religiosa, prendendo quello intitolato “Sopravvivere al dolore”, e non ti viene nemmeno da commentare. Sembra pure intelligente ed è vestita con un tailleur manageriale così le creduloneria scaramantica con l’occidente industrializzato cozzano oltremodo. Il pregiudizio si completa con l’associazione automatica tra i settimanali di informazione di sinistra e l’intelligenza, l’impegno e la serietà, anche se poco dopo vedi la rivista riposta in borsa che ha lasciato spazio a una mano a 2048.

Ognuno dedica attenzione a quello che crede, noi osservatori dovremmo invece smetterla con l’affibbiare etichette a cose e persone, c’è da dire però che il tempo per attraversare da una parte all’altra quell’enorme spazio in cui convogliano tutti gli ingressi alla stazione della metro di Porta Venezia non è poco, e qualche riflessione antropologica ci sta tutta. Gli uomini vestiti business con i sandali, per esempio, quelli di mezza età con le bermuda in jeans ricavate da un pantalone passato di moda con il taglio sfilacciato o, peggio, con il risvoltino sopra il ginocchio, le fantasie hawaiane sui quadretti multicolore, madri con i nomi dei figli tatuati sulle braccia, i soliti corpi di ballo improvvisati che si esercitano nelle coreografie di gruppo seguendo le istruzioni di quello che sembra il più coordinato di tutti e io che non capisco mai se sono ragazzi sudamericani o asiatici, il che è problematico.

Poi mi ferma un vecchio che sembra uscito da Nebraska – il film – con lo stesso stato confusionale che mi ricorda quello di mio papà prima che il male gli facesse dimenticare tutto, e mi chiede come si esce da lì sotto con la stessa espressione delle persone anziane quando fuori ci sono quaranta gradi anche se oggi ce ne sono a malapena venti. Gli faccio notare infatti che fuori piove a metà, c’è proprio il confine lì sopra, in linea con le geometrie del quadrilatero della moda che ha un lato in Corso Buenos Aires. Prima che scendessi lì di qua c’era il sole e qualche nuvola, di là, proprio da dove l’uomo vuole tornare in superficie, c’è l’apocalisse. Io ho un ombrello Ikea di quelli che non gli daresti due lire ma alla fine sono gli unici che non si rompono mai, e penso che potrei anche lasciarglielo tanto sto per infilarmi su un treno per tornare a casa, ma non è mio, l’ho preso in ufficio e ho promesso di restituirlo il giorno dopo. L’uomo mi dice che pioveva anche prima (ma prima quando?) e si allontana lasciandomi un po’ in ambasce.

Mi arrendo così all’idea che non è che tutti siamo sprovveduti, è che tutti ci inventiamo preoccupazioni che non servono. Pensate solo alle ragazzine che girano tenendo in mano smartcosi da centinaia di euro, magari passa uno di corsa e se li porta via. Ma nessuno sembra farci caso, né a loro, né ai ballerini che si muovono su una musica che non c’entra nulla con l’hip hop, né al chiosco dei testimoni di chissà chi e nemmeno a me. Il vecchio di prima, nel frattempo, chiede la stessa informazione che gli ho appena dato io a qualcuno di più rassicurante. Forse quello spazio è troppo grande anche per me.