fate le vostre preferenze, non c’è nulla di sbagliato

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Il mio vicino di banco aveva fatto lo sborone presentandosi nel primo tema con una cosa tipo “forse Freud potrà perdonarmi se”, per me era stato sufficiente il mio look da adolescente depresso, diciamo una sorta di precursore dell’emo, quell’altro semplicemente perché era uno scavezzacollo che magari, al liceo, era meglio non mandarcelo. Dalla parte dei preferiti invece quelli e quelle più a modo, chi arrivava con pagelle da record dalle medie e chi sprizzava addomesticabilità da tutti i pori. E anche voi, immagino, vi sarete lamentati a suo tempo – o lo fate adesso se siete ancora studenti – per gli insegnanti che troppo apertamente manifestano le loro preferenze. La prof a cui mi riferisco io era una fin troppo sopra le righe, e ti accorgevi di essere o no nelle sue grazie per il numero di interrogazioni consecutive con valutazioni con il meno davanti, per il sarcasmo poco velato sulle tue attitudini alla materia, persino con pesanti commenti personali anche sulle tua estrazione sociale, comportamenti che con l’età alla fine la facevano rientrare nella casistica dei fenomeni da baraccone tanto quanto quella di matematica che si scaccolava o quella di arte con la minigonna sotto la cattedra. Ma oggi, a così tanti anni di distanza, mi sento di dire che non solo faceva bene ma che svolgeva la propria missione educativa in un modo che approvo su tutta la linea.

Esercitare le proprie preferenze sulle persone attraverso una posizione di potere è un privilegio che invidio moltissimo a chi lo detiene, e se provate a riflettere oggettivamente sui singoli casi, soprattutto se siete voi in prima persona una vittima di questo abuso, vi accorgerete che quasi sempre hanno ragione loro, i potenti. Se fossi un insegnante a avessi in classe uno come me che cerca attenzione manifestando in ogni comportamento le sue velleità inutilmente artistiche o uno che a quindici anni riempie i componimenti con citazioni improprie, comportamenti come questi soffierebbero sulla fiamma latente del cinismo che mi arde dentro. Il meccanismo del tu si e tu no applicato alla vita degli adulti, poi, non ne parliamo. Saremmo tutti robusti e zelanti buttafuori di inutilità dalle nostre vite e faremmo desistere il più possibile il prossimo dall’avventurarsi in situazioni al di fuori delle proprie capacità. Quindi, se avete un po’ di autorità per la posizione che occupate o per il ruolo per cui siete pagati, fatela valere e fatelo un po’ anche per me, mi raccomando. A me che non conto un cazzo resta solo sfogarmi qui e raccontarvi di come sto rivalutando un’insegnante di lettere che, a suo tempo, ha contribuito a rovinarmi la vita.

firma qui per sostenere e difendere il tuo blogger preferito (non chiedo soldi)

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Pensavo a quelli che quando meno te lo aspetti ti fanno la posta fuori dal supermercato o davanti all’edificio di interesse culturale che ti appresti a visitare e ti chiedono di mettergli una firma contro la droga. Come tutti voi, che siete persone di un certo livello, la prima cosa che mi viene in mente da chieder loro è che cosa intendono. No perché da una parte mi devono spiegare in che modo, l’esser contro. Certo, un tempo era più facile perché c’erano quelli che ti tiravano via le catenine d’oro o scippavano le borse agli anziani e dei tossici non se ne poteva proprio più. Oggi che sono morti quasi tutti e i sopravvissuti boh, essere contro la droga è una posizione un po’ nebulosa, perché di che droga stiamo parlando, siamo ancora lì a condannare chi si pianta la maria sul balcone e via discorrendo. Poi di questi tempi in cui forse si inizia a biascicare di depenalizzazione anche dalle nostre parti.

Ma il bello è che a volte per convincerti a firmare e a comprargli la penna o la cartolina ti chiedono se hai qualcosa in contrario al reinserimento degli ex-tossicodipendenti nel mondo del lavoro, nella vita normale, nel genere umano cui appartengono. E se non fosse fuori luogo avrei chiesto proprio all’ex tossicodipendente che mi ha fatto – giuro – questa domanda, se aveva preso qualcosa di forte prima, perché vabbè che siamo abituati a non leggere i fogli che ci mettono sotto il naso da firmare, i bugiardini delle medicine, i contratti delle RC auto e le istruzioni degli smartcosi, ma c’è un limite a tutto.

Ed è un po’ come se vi chiedessero di firmare contro l’orgoglio. Volete sottoscrivere la mia petizione per bandire il senso dell’onore dai comportamenti umani? Potrebbe portare a risultati più concreti la raccolta delle firme per abolire la fame del mondo. E non sono uscito fuori tema, perché la persona a cui davo il braccio scendendo una decina di scalini dal cinema proprio fuori dal quale un manipolo di rappresentanti di una comunità di cura (nemmeno locale) che raccoglieva appunto fondi per non so quale campagna attendeva gli spettatori con la faccia da bravo ragazzo di sinistra come la mia per porre l’assurdo interrogativo di cui sopra, ecco, quella persona che poi è una ragazza con cui sono stato legato sentimentalmente e inutilmente ora fa capolino tra le persone che dovrei conoscere su Facebook. Capita a tutti, giusto?

E una prima occhiata esplorativa al suo profilo mi ha rivelato che, mentre io non sono tra i suoi contatti, in prima fila tra le presenze nel suo entourage di amici c’è il conoscente comune che da me l’ha allontanata, diciamo così. E questo futile episodio è la prova che, come dire, anche a distanza di boh?Venticinque anni? non  l’ho ancora mandata giù. Nel web 2.0 attestare la validità di un menage a tre virtuale dopo che si è fatto di tutto per sminuire uno reale, per non dire fisico e all’insaputa di uno dei tre, quello che in questo momento sta raccontando i cazzi propri, non è una soluzione. Né tanto meno mette a tacere appunto quell’impeto di amor proprio di cui nemmeno con l’avallo di milioni di firme a supporto mi libererò. E poi, davvero, non ho nulla contro l’orgoglio. Anzi.

posizioni aperte

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Mentre scorro la lista delle inserzioni di lavoro ho la terribile sensazione che, con le competenze linguistiche richieste dai più, uno dovrebbe svolgere la propria professione dall’alto, in quota, a bordo di un aeroplano per esempio. Attraverso la curvatura terrestre e della sua atmosfera è possibile infatti ottenere l’equidistanza tra più punti, sfruttando peraltro l’approssimativa considerazione in cui nell’economia globale viene tenuto il luogo dove un prodotto o una parte di esso viene realizzato. Il cosiddetto lavoro di concetto, per non usare l’odioso termine intellettuale o, peggio, creativo, rientra tutto sommato in questi stessi parametri. Ritrovarsi sospesi in cielo a cavallo tra spazi internazionali e nell’aria di nessuno, la cui pertinenza è aleatoria per antomasia, chi può dire o stabilire quale sia la lingua ufficiale e i comportamenti in uso? A svariati chilometri di altezza uno si immagina ricoprire posizioni nodali, giacché l’impiego del termine apicale sarebbe oltremodo didascalico in questo contesto, a fare capo a una invisibile quanto immaginaria rete abilitata alla trasmissione di informazioni in un idioma convenzionalmente neutrale. Un quadro in cui la popolare immagine del rimboccarsi le maniche ed esercitare la propria forza fisica mista a precisione qui non ha più nessuna importanza, nel nostro essere vettori di disposizioni impartite chissà dove. Non ci è nemmeno chiesto né di tradurle né di aggiungervi valore. In teoria, se abbiamo la fortuna di gravitare in una classe superiore a quella economica, possiamo anche permetterci un drink e confidare nel fatto che quassù andrà tutto bene anche se, probabilmente, non atterreremo mai più ed è una fortuna, non riconosceremmo infatti il posto da cui siamo partiti.

facciamo la gara a cosa sentiamo dentro di noi

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Finché scatta qualcosa nella testa, come se l’organismo attivasse degli anticorpi finalizzati a un impulso di conservazione, un istinto di sopravvivenza, un vero e proprio moto a difesa dall’estinzione della specie cui apparteniamo che assume le sembianze di una canzone che si diffonde dentro di noi a un volume esagerato.

Per nostra fortuna nessuno al di fuori percepisce di che brano si tratta a meno che, nell’impeto del momento, la sorta di trance cui siamo soggetti ci induce all’oblio e il nostro inconscio si appropria del nostro sistema fonatorio per cui la cantiamo pure, e in quel caso sono cazzi. Perché di solito si tratta di pezzi oltremodo inopportuni, che in condizioni normali nemmeno ci ricordiamo che esistono. Io così ho preso l’abitudine di razionalizzare a caldo ciò a cui vengo esposto e a segnarmi sul mio taccuino la colonna sonora che mi nasce in quei momenti. Non vi ho ancora specificato quali, però.

Per esempio, a me succede di provare forte imbarazzo o sensazioni di vergogna incontrollabile, uno stato d’animo talmente preponderante che qualcosa nel mio corpo mette la manopola dell’amplificatore che c’è in me a manetta, come se dovessi coprire con il suono qualcosa che non posso permettermi di ascoltare. E mi accade per cose che faccio o che dico, in momenti solitari o in compagnia, quando vengo redarguito di qualcosa o se prendo un abbaglio vistoso. Non so, chissà se capita anche a voi.

Mi sono accorto che quando vengo preso da questi attacchi mentre sto guidando e non c’è nessuno con me, ecco che mi viene d’istinto di cantare cose sciocche a squarciagola, per stordirmi e farmi passare il disagio che ho provato per una cosa che ho pensato o che mi sono ricordato. In genere, invece, se mi trovo con qualcuno, sui minuti successivi è bene stendere un velo pietoso proprio per la selezione musicale a cui un qualcosa di veramente profondo in me si dedica per stemperare a suo modo le conseguenze emotive, senza accorgersi che invece così peggiora la situazione.

Ecco le prime tre situazioni tipo che mi vengono in mente:
a) vistoso calo di autostima dovuto a svarione preso nella vita privata o professionale in presenza di testimoni oculari presso i quali la considerazione nei miei confronti, da quel momento in poi, non sarà più la stessa. Il mio dj subconscio propone immediatamente roba tipo “Voglia di morire” dei Panda, ovviamente nel punto del ritornello in falsetto. Agghiacciante, no?

b) improvvisa reminiscenza di episodio increscioso che mi ha visto protagonista, a scelta tra la volta in cui a dieci anni scontrandomi con un amico in bici lui si è rotto la gamba o quando, qualche tempo dopo, mi fingevo medium in sedute spiritiche per acquisire autorevolezza su ragazzi più grandi. In questo caso Radio Plus1gmt si sintonizza immediatamente sulla strofa di “Tu semplicità” dei Matia Bazar, che voglio dire sono un gruppo che stimo e rispetto ma quella canzone lì è davvero discutibile.

c) fatal error in relazione sentimentale, come una affermazione detta a sproposito o anche in buona fede ma di quelle che il partner ne assimila solo la componente deleteria e si scatena un diverbio a rischio rottura definitiva. Una scena postuma piuttosto tipica vede me che lavo mestamente i piatti tentando di cancellare dalla memoria “Uomini soli” dei Pooh che, anche qui, ci sarebbero canzoni più consone come “Big mouth strikes again” degli Smiths ma spesso questo juke box che risiede a nostra insaputa in qualche area nascosta del nostro ego sembra contenere solo roba trash italiana che in confronto Julie & Julie sono gli Interpol.

Be’, che dire? Spero che a voi sia andata meglio, e se avete queste stesse reazioni da sgradevolezza di voi stessi possiate contare su un repertorio più presentabile. A me è toccata una coscienza degna di un autoscontro in un piazzale sterrato di un paesucolo di provincia, in un giorno qualunque.

come diceva un mio amico, l’unico posto in cui una moglie non riesce a spostare l’arredamento è il bagno. Ma non è detto.

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Cara, e care mogli altrui di tutto il mondo, ovviamente questo post è un divertissement e spero siate autoironiche, dovevo pur fare un titolo simpatico. Ma la sostanza non cambia, visto che sta cambiando tutto il resto. Dunque la conoscete vero quell’usanza che hanno le nostre mogli di dare un tocco di novità all’ubicazione di contenitori e contenuti delle nostre case, vero? C’è la fase uno meglio definita come ottimizzazione logistica, che consiste nelle mutande in un posto e i calzini nell’altro che diventa asciugamani nel cassetto in cui mettevi le mutande che ora vanno nel ripiano in cui impilavi i maglioni che ora vanno nella scatola Ikea in cui c’era l’abbigliamento da montagna che ora è in cantina tanto si usa una volta l’anno. Così il tempo per trovare ciò che si cerca raddoppia perché prima si sbaglia cassetto come sempre ma poi si sbaglia anche il cassetto che ci ricordiamo come quello giusto, a cui venivamo indirizzati dopo aver sbagliato la prima ricerca e aver chiesto le inevitabili informazioni.

A questa fase segue la fase dell’ottimizzazione logistica dell’ottimizzazione logistica, ovvero spostare la cassettiera che comprende maglioni, asciugamani eccetera dalla parete nella stanza da letto a quella di fronte in cui prima c’era l’armadio che così deve essere posizionato sul muro di destra per far spazio alla lampada che segue lo stesso shift in senso orario. Il tutto con contenuti compresi, ovviamente. Questo significa che il tempo per trovare ciò che si cerca triplica, perché prima ci si dirige verso la parete in cui c’era il mobile e poi quando lo si ritrova nella nuova collocazione si sbaglia cassetto la prima e la seconda volta come nel caso precedente.

Inutile scendere nei dettagli della terza fase, quella dell’ottimizzazione logistica dell’ottimizzazione logistica dell’ottimizzazione logistica. Arriva infatti il momento in cui le mogli decidono di invertire le stanze, i bambini crescono e hanno bisogno di più spazio o, viceversa, i ragazzi trascorrono meno tempo in casa e quindi possono anche vivere in un ambiente con il minimo necessario. I mobili della camera dei genitori vanno di là, sostituiti da quelli dei figli. Il tempo medio dell’uomo nella ricerca di qualcosa è così di quattro volte maggiore: ci si reca nella camera sbagliata, poi in quella giusta, poi verso la parete dove prima si trovava la cassettiera, poi verso la parete giusta, quindi si apre il cassetto che una volta conteneva ciò che si cerca, poi quello giusto e a quel punto, comunque, chiedere indicazioni alla propria moglie può essere anche un’azione giustificata.

Ma ho capito che questa smania di rinnovamento è un po’ un segno dei tempi. Pensate solo alla geografia e a tutte le città del mondo che, negli ultimi tempi, hanno cambiato nome, si sono riappropriate del loro indicazione topografica originale, vengono chiamate così o cosà per vezzo dagli opinion leader. Qualche esempio? Yangon. Lo sapevate che Yangon è il nome locale di Rangoon, la più grande città della Birmania anzi, pardon, Myanmar? Io l’ho scoperto ora. Per non parlare delle metropoli indiane. Mumbay è quella che alle interrogazioni di geografia a scuola chiamavamo Bombay, Chennai che è la vecchia Madras. E non entriamo nel merito dell’ex Unione Sovietica e gli stati al di là del Friuli, che insomma prima di metterli a fuoco devo accendere un computer connesso a Internet. O contare su qualche gioco di indovinelli con mia figlia. Lei si mette sulla cartina cartacea, fa le domande, e io che interrogo l’oracolo di Google e pigio enter, anche solo per rendermi conto di quante nazioni ci sono al mondo e che, se non si sta attenti, la prima volta che uno fa un viaggio in Africa il rischio di una pessima figura o di un incidente diplomatico è assicurato. Anzi no. Meglio fare un’assicurazione contro l’ignoranza e informarsi prima.

fenomenologia degli avanzi

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I parametri di estetica e il design basato sul gusto imperante cambiano con il tempo senza che noi ce ne accorgiamo perché nelle linee che vanno per la maggiore ci siamo immersi fino al collo e oltre. L’occhio si abitua, un po’ come quando hai un figlio che ti gira per casa da sempre tutti i santi giorni e ti accorgi che è cresciuto solo quando è troppo tardi e ti sta per accoltellare perché ha vergogna di confessare che i voti sul libretto dell’Università sono tutti inventati. Incredibile, eh?

Ma quello che volevo dire è che ci sono oggetti che stanno bene sempre e comunque come la celeberrima Radio Cubo Brionvega, che si perpetua uguale nei secoli dei secoli. Già per la Cinquecento qualche aggiustamento è stato fatto, più o meno è stata pompata in modo direttamente proporzionale rispetto a come è cresciuto il fisico dei centometristi afroamericani che poi è una cosa che non mi spiego. Negli anni settanta tutti asciutti e snelli, oggi spessi come lottatori di wrestling ma corrono il doppio più veloce.

A volte sembra tutto più grosso, il che è bizzarro in una civiltà che tende a miniaturizzare per occupare il meno possibile lo spazio obbligatorio per lasciare il massimo della libertà a chi ne usufruisce. Forse è tutta una scusa per giustificare il maggior impiego di materiali e, di conseguenza, i prezzi sempre più alti? Non so. Ci sono tantissimi genitori che non buttano via nulla dei figli, per farvi un esempio. Io che ho lo stesso numero di scarpe dalla prima superiore ho provato tempo va a indossare un paio di creeper da punk conservate da mia mamma nella loro confezione originale, che già allora – nei primi ottanta – mi sembravano enormi. E invece no, sono solo più larghe di una manciata di millimetri della mia pianta e l’impressione è stata disarmante, abituato alle nuove linee a cui il mercato e i suoi complici ci hanno assuefatto e che, con le loro proporzioni, sembrano voler mettere uno spazio difensivo tra il piede e il mondo esterno che è sempre pronto a saltarci sopra e a pestarli, in senso proprio e in senso metaforico.

C’è chi se ne fotte e va in giro puzzando di negozio di abbigliamento vintage con i mocassini mod, quelli minuscoli con le nappe. Magari sono gli stessi che li vedi al ritorno dai raduni delle Lambrette, lenti e impacciati in autostrada in balia di maxiscooter e gigantoni di adesso su due ruote. Per questo è meglio far fuori tutto e subito e non lasciare che ci sia futura commistione tra l’oggi e il futuro. Aprite i vostri armadi e, di questi tempi festaioli, spalancate i vostri frigoriferi. Fate sparire tutto. Il cibo fresco, a differenza del tessuto, va a male ed è il primo in ordine di gravità a dover essere circoscritto al presente, questo è anche il modo per accorgersi più facilmente che le taglie non sono più le stesse di una volta, almeno di prima di Natale. Io che vesto quarantotto, se metto un quarantotto alla Alighiero Noschese, un modo come un altro per parlare degli anni settanta, non ho alcuna possibilità di entrarci. Se consumo tutti gli avanzi dei cenoni passati ancora peggio. Dateci dentro con i rimasugli di cibo, fiduciosi il meno possibile nel domani. Discorso diverso per il panettone: tutti sanno che c’è tempo fino a San Biagio.

viva verdi, abbasso strauss, ovvero la classica del campanilismo

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Se funzionassimo come gli animali che vanno in letargo, di sicuro per il prossimo mese potremmo tranquillamente smettere di mangiare e lasciare che tutte le provviste che abbiamo ingurgitato in questi giorni di baldoria si consumino da sé. Macché natività o re magi o anno nuovo. La vera festa è quella che abbiamo fatto al nostro stomaco buttando giù qualunque cosa ci sia capitata a tiro con la scusa che dal sette gennaio cambia tutto, si torna in ufficio, ci si rimette a dieta. Che magari poi uno ci sta attento, ma a furia di spiluccare antipasti che altrimenti non prepareremmo mai, il dolce a fine pasto che in periodi ordinari dell’anno riserviamo solo come eccezione, l’accompagnare ogni cosa con un vino appropriato – dall’aperitivo al pandoro con la cremina al mascarpone – anche il 2014 inizia con qualcosa in più di noi ma nei punti del nostro corpo in cui vorremmo farne a meno.

Considerando che l’Epifania è la solennità che tra tutte è quella a cui è meglio rinunciarvi in partenza, il fanalino di coda per di più troppo a ridosso della ripresa di tutto, il mio consiglio è quello di abituarsi prima all’ennesima fine di qualcosa di piacevole – quasi tutta la nostra vita è così, facciamocene una ragione – con una colonna sonora degna di uno scempio. Avete capito dove voglio arrivare, vero?

Prima del nostro risorgimento personale, quello che ci condurrà alla rinascita della nostra forma fisica più o meno verso Pasqua, diamoci dentro a combattere gli invasori calorici a partire da oggi, due gennaio. Ieri è passato sui nostri corpi fiaccati da zamponi e lenticchie uno dei nostri più acerrimi nemici in persona, Josef Radetzky. Mentre scartavamo uno dei tanti panettoni aziendali scoprendone nostro malgrado la sua natura contraffatta, ovvero palline di cioccolato al posto di uvetta e canditi, ripieno di una roba al cacao che in confronto la nutella è l’acqua della mozzarella, strato di glassa cioccolatosa solidificata a ricoprire e compattare il tutto, il feldmaresciallo nemico dell’unità italiana marciava tronfio sul nostro colesterolo a colpi di rullante e piatti, con tanto di pubblico austriaco plaudente e telespettatori commossi fuori luogo.

Già, perché anche se Strauss ci fa due maroni con la sua ampollosità e la sua retorica, ogni anno siamo lì in prima fila e con il cuore tra gli archi della filarmonica di Vienna. Anche se in differita. Perché non ditemi che siete di quelli che vedete il concerto dalla Fenice, vero? Quell’inutile rassegna di brani classici messi insieme solo per dimostrare ai mitteleuropei che non siamo meno di loro, che la culla della musica è a sud delle Alpi eccetera eccetera? Un’iniziativa tipica del nostro spirito di rivalsa di cui ci armiamo a sproposito e per le cose che, nel mondo, contano di meno, solo per negare a quelli come me che sono cresciuti con le schermaglie tra direttore d’orchestra e pubblico il piacere dei bei danubi blu ad accompagnare in diretta il pasto del primo dell’anno.

Be’, non so voi, ma a me non importa. Attendo la trasmissione registrata del Concerto di Capodanno da Vienna che va in onda con un’ora di differenza, facendo finta che al di là del Brennero ci sia un fuso orario diverso, e lascio che Radetzky e i suoi soldati calpestino la mia indipendenza dai trigliceridi e soggioghino me e la mia cultura – che è la stessa che lascia allo sfacelo posti unici al mondo come Pompei o consente i parcheggiatori abusivi fuori dalla Valle dei Templi di Agrigento – e almeno mettano definitivamente fine alle festività natalizie, visto che l’annessione alla monarchia asburgica purtroppo è fuori tempo massimo. Prosit.

i migliori passatempi per i giorni che ci separano dal ritorno in ufficio

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Ho controllato, e anche sulla versione più recente c’è ancora il gioco degli scacchi che già sarebbe sufficiente a sancire il primato di un sistema operativo rispetto a un altro, quello che al massimo ti fa cercare fiori sull’ex campo minato a cui è stato cambiato il nome visti i tempi e la globalizzazione. Non è colpa di nessuno se anche in quei paesi dove i bambini saltano in aria e restano senza gambe perché c’è la guerra si vendono computer. Ora io non so giocare a scacchi ma suppongo che l’insieme di regole e di strategie per qualificare un avversario elettronico comporti un livello di programmazione ben più complesso di un solitario con le carte, correggetemi se sbaglio. Ma il problema resta. Con un giocatore così è impossibile imparare. Ho provato a muovere i pezzi a cazzo ma poi subentra la frustrazione che il cavallo è obbligato a spostarsi così e l’alfiere deve seguire solo determinate direttrici che, peraltro, non conosco. E lui, il computer dico, è silenzioso, attende la mossa di un umano la cui personalità è totalmente indifferente ai fini della partita, per di più rassegnato al fatto che qualcuno potrebbe anche dimenticarselo acceso, già consapevole della mossa successiva in eterno. La tecnologia è schiava degli esseri viventi da cui è stata inventata e, fortunatamente, non c’è scampo. Ora non so, forse le cose sono cambiate ed esisteranno siti per sfidarsi online con qualche cervellone russo come un tempo lo si faceva per via epistolare in barba alla censura della guerra fredda. In fondo, tra giocare così e giocare da soli non c’è differenza. Tanto vale sedersi di fronte a una montagnetta di brandelli di puzzle da sistemare senza fretta, un’attività ludica palesemente meno impegnativa seconda solo, in quanto a difficoltà, a scoppiare le bolle di plastica dei fogli da imballaggio, sempre che siate disposti a lavarvi le mani dopo. Io no, ho avuto l’imprinting da infiniti tentativi di collegare insieme migliaia pezzi di cieli infiniti con impercettibili sfumature di azzurro pre-Photoshop sopra al villaggio olimpico di Monaco del 1972, ogni volta con qualche tessera in meno scomparsa nell’aspirapolvere di regine della casa acritiche e grossolane nel modo indistinto di fare pulizia. Frustrati dall’incostanza, dalla difficoltà di individuare nelle nostre case – e con i nostri gatti – uno spazio fisso per la costruzione del puzzle e dall’impossibilità di terminare il rompicapo in questione per poi incorniciarlo e appenderlo sulla parete della cantina, resta solo il gioco dei quindici, quello almeno si può smontare con qualche artificio per ingannare sé stessi che, tutto sommato, qualche abilità ci distingue ancora dagli altri.

non fiori ma opere di bene: una guida ragionata al vostro miglioramento per l’anno a venire, sempre che vogliate migliorare

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Vi appunto qui, per vostra comodità, un po’ di buoni propositi che dovreste porvi come obiettivo per il prossimo anno. Qualche suggerimento utile a trarre ispirazione per i vostri status su Facebook, ma anche per avere un archivio qualora, nel corso del 2014, vi dimentichiate ciò che avevate promesso di fare: una dieta, essere più pazienti con i vostri anziani genitori, iscrivervi a un corso di tedesco per consentire al vostro cervello una fuga dall’Italia più comoda e così via. Nel dubbio, memorizzatevi da qualche parte l’url di questo post. Non si sa mai.

Intanto mettiamocelo bene in testa. Se c’è qualcosa che ci mette i bastoni tra le ruote non c’entrano né i costi della politica tantomeno gli spioni dell’Nsa. Il pericolo è la gente, almeno nove su dieci delle persone che incontriamo ogni giorno dal vivo o sui socialcosi – e non escluderei nemmeno i nostri contatti più vicini – sono contro di noi e il nostro progresso, usano l’arma del grilleggio, dei forconi, del nazi-animalismo, del cuore fatto con le dita e del veganismo per convincerci che studiare non serve più, che siamo noi i colpevoli della fine dell’umanesimo e ci propongono un medioevo mascherato da rinascimento. Al punto uno delle cose da fare metterei proprio chiudere i rubinetti della disponibilità verso i nostri simili, cercare di indurre questo prossimo a sfogarsi con quello successivo, ne va del nostro benessere. Individuiamo quel profilo su dieci che ci somiglia, di uno con cui confrontarsi ce n’è d’avanzo. E, ricordatevi, se avete bisogno, sono qui.

E poi finiamola di fare tutti la stessa cosa e di ripeterla a oltranza. C’è davvero tutto questo bisogno di postare i fumetti con le nostre sembianze? Di fare il twerking con cani e porci? Di indossare scarpe da tennis alte e borchiate tutti quanti? Di sposare le cause tutti insieme anche quando nemmeno sappiamo chi diamine siano le Pussy Riot? Di riempirci di rate per poter ostentare selfies con gli amici? Diamo il nostro voto a chi proporrà un numero limitato per ogni cosa. Non più di un milione di smartphone sul mercato italiano, quelli che restano fuori utilizzeranno qualcos’altro. L’oroscopo di Brezny che si autodistrugge dopo diecimila letture. Un numero massimo di un centinaio di buongiorno di Gramellini, poi il suo spazio editoriale sull’Internet cambia la password che gli sarà fornita solo nel 2015.

Per il resto dovremmo incazzarci di più ma con chi, davvero, se lo merita e prendere posizioni ferme sulle cose che contano. Evitare i bar che hanno il videopoker, ostruire le corsie dell’autostrada alle mostruosità a quattro ruote che non portano pazienza, cancellare i canali Mediaset dalle nostre tv, deridere pubblicamente i lettori di romanzi fantasy e di Libero, non cliccare più sui video delle tragedie che i quotidiani online pubblicano impunemente, smettere di seguire il calcio, togliere il saluto a chi scrive qual è con l’apostrofo e a chi vota i cinque stelle, seguire The Newsroom con maggior assiduità che i talk show in cui è ospite Andrea Scanzi. Proviamoci, per una volta. L’appuntamento è qui, su queste pagine, tra un anno. Tutti a raccontarci come è andata. Magari, a nostra insaputa, avremo dato inizio alla New Age.

vendesi collezione completa di agende con contenuti personali dal 1977 al 1992

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Quindi l’effetto di  rileggere certi diari o agende che capitano sottomano inaspettatamente durante le visite ai genitori sotto le feste è lo stesso di visionare i nostri attuali blog quando avremo settant’anni. Che vergogna. Prepariamo quei marchingegni che usano gli anziani per distruggere documenti di vitale importanza come le bollette dell’Enel del 1994 prima di gettarle nella raccolta differenziata perché non si sa mai che a qualcuno, prima di farne carta riciclata, non venga voglia di leggere quanto ha consumato uno nel mese di marzo per poi risalire all’indirizzo e correre a svaligiare l’appartamento o, peggio, mettersi a rovistare nella rumenta per dire a tutti che l’utente xyz ha pagato una bolletta di quarantottomila lire. Che onta. Ma che vado dicendo? Quando cercheremo di occultare ai nostri nipotini questi sproloqui messi per iscritto per chissà quale gloria digitale ci toccherà gettare chissà quanti dischi fissi o non ben definiti spazi cloud nel cesso e tirare lo sciacquone sperando che sia sufficiente a cancellare tutte le corbellerie che ci sono passate per la mente intorno ai quaranta e rotti. Quasi peggio, quindi, delle rime messe nero su bianco per la darkettina delle superiori, dal momento che da individui grandi grossi maggiorenni e vaccinati e – nel mio caso – con famiglia e prole al seguito ci si aspetta un po’ di stabilità pratica e non certo spleen da tanto al mucchio e per giunta virtuali. Non si finisce mai di scoprire che è sempre bene tenere accesa quella telecamera di auto-videosorveglianza pronta a mandare messaggi minatori quanto si oltrepassa il confine della ridicolaggine che è poi quella che ci salva dalle figuracce con un bel reset completo di qualche contenuto – scritto, registrato, composto, dipinto, fotografato ma sempre spinti da velleità artistiche – che per fin troppo abbondanti porzioni della nostra vita abbiamo accumulato in maniera bulimica nella speranza che un talent scout passi per caso e ci copra d’oro tanto quanto è il nostro valore. Quindi ve lo do come consiglio: è meglio smettere qui. Iniziate voi, il tempo di sbrigare due faccende e poi vi seguo.