viva verdi, abbasso strauss, ovvero la classica del campanilismo

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Se funzionassimo come gli animali che vanno in letargo, di sicuro per il prossimo mese potremmo tranquillamente smettere di mangiare e lasciare che tutte le provviste che abbiamo ingurgitato in questi giorni di baldoria si consumino da sé. Macché natività o re magi o anno nuovo. La vera festa è quella che abbiamo fatto al nostro stomaco buttando giù qualunque cosa ci sia capitata a tiro con la scusa che dal sette gennaio cambia tutto, si torna in ufficio, ci si rimette a dieta. Che magari poi uno ci sta attento, ma a furia di spiluccare antipasti che altrimenti non prepareremmo mai, il dolce a fine pasto che in periodi ordinari dell’anno riserviamo solo come eccezione, l’accompagnare ogni cosa con un vino appropriato – dall’aperitivo al pandoro con la cremina al mascarpone – anche il 2014 inizia con qualcosa in più di noi ma nei punti del nostro corpo in cui vorremmo farne a meno.

Considerando che l’Epifania è la solennità che tra tutte è quella a cui è meglio rinunciarvi in partenza, il fanalino di coda per di più troppo a ridosso della ripresa di tutto, il mio consiglio è quello di abituarsi prima all’ennesima fine di qualcosa di piacevole – quasi tutta la nostra vita è così, facciamocene una ragione – con una colonna sonora degna di uno scempio. Avete capito dove voglio arrivare, vero?

Prima del nostro risorgimento personale, quello che ci condurrà alla rinascita della nostra forma fisica più o meno verso Pasqua, diamoci dentro a combattere gli invasori calorici a partire da oggi, due gennaio. Ieri è passato sui nostri corpi fiaccati da zamponi e lenticchie uno dei nostri più acerrimi nemici in persona, Josef Radetzky. Mentre scartavamo uno dei tanti panettoni aziendali scoprendone nostro malgrado la sua natura contraffatta, ovvero palline di cioccolato al posto di uvetta e canditi, ripieno di una roba al cacao che in confronto la nutella è l’acqua della mozzarella, strato di glassa cioccolatosa solidificata a ricoprire e compattare il tutto, il feldmaresciallo nemico dell’unità italiana marciava tronfio sul nostro colesterolo a colpi di rullante e piatti, con tanto di pubblico austriaco plaudente e telespettatori commossi fuori luogo.

Già, perché anche se Strauss ci fa due maroni con la sua ampollosità e la sua retorica, ogni anno siamo lì in prima fila e con il cuore tra gli archi della filarmonica di Vienna. Anche se in differita. Perché non ditemi che siete di quelli che vedete il concerto dalla Fenice, vero? Quell’inutile rassegna di brani classici messi insieme solo per dimostrare ai mitteleuropei che non siamo meno di loro, che la culla della musica è a sud delle Alpi eccetera eccetera? Un’iniziativa tipica del nostro spirito di rivalsa di cui ci armiamo a sproposito e per le cose che, nel mondo, contano di meno, solo per negare a quelli come me che sono cresciuti con le schermaglie tra direttore d’orchestra e pubblico il piacere dei bei danubi blu ad accompagnare in diretta il pasto del primo dell’anno.

Be’, non so voi, ma a me non importa. Attendo la trasmissione registrata del Concerto di Capodanno da Vienna che va in onda con un’ora di differenza, facendo finta che al di là del Brennero ci sia un fuso orario diverso, e lascio che Radetzky e i suoi soldati calpestino la mia indipendenza dai trigliceridi e soggioghino me e la mia cultura – che è la stessa che lascia allo sfacelo posti unici al mondo come Pompei o consente i parcheggiatori abusivi fuori dalla Valle dei Templi di Agrigento – e almeno mettano definitivamente fine alle festività natalizie, visto che l’annessione alla monarchia asburgica purtroppo è fuori tempo massimo. Prosit.

i migliori passatempi per i giorni che ci separano dal ritorno in ufficio

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Ho controllato, e anche sulla versione più recente c’è ancora il gioco degli scacchi che già sarebbe sufficiente a sancire il primato di un sistema operativo rispetto a un altro, quello che al massimo ti fa cercare fiori sull’ex campo minato a cui è stato cambiato il nome visti i tempi e la globalizzazione. Non è colpa di nessuno se anche in quei paesi dove i bambini saltano in aria e restano senza gambe perché c’è la guerra si vendono computer. Ora io non so giocare a scacchi ma suppongo che l’insieme di regole e di strategie per qualificare un avversario elettronico comporti un livello di programmazione ben più complesso di un solitario con le carte, correggetemi se sbaglio. Ma il problema resta. Con un giocatore così è impossibile imparare. Ho provato a muovere i pezzi a cazzo ma poi subentra la frustrazione che il cavallo è obbligato a spostarsi così e l’alfiere deve seguire solo determinate direttrici che, peraltro, non conosco. E lui, il computer dico, è silenzioso, attende la mossa di un umano la cui personalità è totalmente indifferente ai fini della partita, per di più rassegnato al fatto che qualcuno potrebbe anche dimenticarselo acceso, già consapevole della mossa successiva in eterno. La tecnologia è schiava degli esseri viventi da cui è stata inventata e, fortunatamente, non c’è scampo. Ora non so, forse le cose sono cambiate ed esisteranno siti per sfidarsi online con qualche cervellone russo come un tempo lo si faceva per via epistolare in barba alla censura della guerra fredda. In fondo, tra giocare così e giocare da soli non c’è differenza. Tanto vale sedersi di fronte a una montagnetta di brandelli di puzzle da sistemare senza fretta, un’attività ludica palesemente meno impegnativa seconda solo, in quanto a difficoltà, a scoppiare le bolle di plastica dei fogli da imballaggio, sempre che siate disposti a lavarvi le mani dopo. Io no, ho avuto l’imprinting da infiniti tentativi di collegare insieme migliaia pezzi di cieli infiniti con impercettibili sfumature di azzurro pre-Photoshop sopra al villaggio olimpico di Monaco del 1972, ogni volta con qualche tessera in meno scomparsa nell’aspirapolvere di regine della casa acritiche e grossolane nel modo indistinto di fare pulizia. Frustrati dall’incostanza, dalla difficoltà di individuare nelle nostre case – e con i nostri gatti – uno spazio fisso per la costruzione del puzzle e dall’impossibilità di terminare il rompicapo in questione per poi incorniciarlo e appenderlo sulla parete della cantina, resta solo il gioco dei quindici, quello almeno si può smontare con qualche artificio per ingannare sé stessi che, tutto sommato, qualche abilità ci distingue ancora dagli altri.

non fiori ma opere di bene: una guida ragionata al vostro miglioramento per l’anno a venire, sempre che vogliate migliorare

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Vi appunto qui, per vostra comodità, un po’ di buoni propositi che dovreste porvi come obiettivo per il prossimo anno. Qualche suggerimento utile a trarre ispirazione per i vostri status su Facebook, ma anche per avere un archivio qualora, nel corso del 2014, vi dimentichiate ciò che avevate promesso di fare: una dieta, essere più pazienti con i vostri anziani genitori, iscrivervi a un corso di tedesco per consentire al vostro cervello una fuga dall’Italia più comoda e così via. Nel dubbio, memorizzatevi da qualche parte l’url di questo post. Non si sa mai.

Intanto mettiamocelo bene in testa. Se c’è qualcosa che ci mette i bastoni tra le ruote non c’entrano né i costi della politica tantomeno gli spioni dell’Nsa. Il pericolo è la gente, almeno nove su dieci delle persone che incontriamo ogni giorno dal vivo o sui socialcosi – e non escluderei nemmeno i nostri contatti più vicini – sono contro di noi e il nostro progresso, usano l’arma del grilleggio, dei forconi, del nazi-animalismo, del cuore fatto con le dita e del veganismo per convincerci che studiare non serve più, che siamo noi i colpevoli della fine dell’umanesimo e ci propongono un medioevo mascherato da rinascimento. Al punto uno delle cose da fare metterei proprio chiudere i rubinetti della disponibilità verso i nostri simili, cercare di indurre questo prossimo a sfogarsi con quello successivo, ne va del nostro benessere. Individuiamo quel profilo su dieci che ci somiglia, di uno con cui confrontarsi ce n’è d’avanzo. E, ricordatevi, se avete bisogno, sono qui.

E poi finiamola di fare tutti la stessa cosa e di ripeterla a oltranza. C’è davvero tutto questo bisogno di postare i fumetti con le nostre sembianze? Di fare il twerking con cani e porci? Di indossare scarpe da tennis alte e borchiate tutti quanti? Di sposare le cause tutti insieme anche quando nemmeno sappiamo chi diamine siano le Pussy Riot? Di riempirci di rate per poter ostentare selfies con gli amici? Diamo il nostro voto a chi proporrà un numero limitato per ogni cosa. Non più di un milione di smartphone sul mercato italiano, quelli che restano fuori utilizzeranno qualcos’altro. L’oroscopo di Brezny che si autodistrugge dopo diecimila letture. Un numero massimo di un centinaio di buongiorno di Gramellini, poi il suo spazio editoriale sull’Internet cambia la password che gli sarà fornita solo nel 2015.

Per il resto dovremmo incazzarci di più ma con chi, davvero, se lo merita e prendere posizioni ferme sulle cose che contano. Evitare i bar che hanno il videopoker, ostruire le corsie dell’autostrada alle mostruosità a quattro ruote che non portano pazienza, cancellare i canali Mediaset dalle nostre tv, deridere pubblicamente i lettori di romanzi fantasy e di Libero, non cliccare più sui video delle tragedie che i quotidiani online pubblicano impunemente, smettere di seguire il calcio, togliere il saluto a chi scrive qual è con l’apostrofo e a chi vota i cinque stelle, seguire The Newsroom con maggior assiduità che i talk show in cui è ospite Andrea Scanzi. Proviamoci, per una volta. L’appuntamento è qui, su queste pagine, tra un anno. Tutti a raccontarci come è andata. Magari, a nostra insaputa, avremo dato inizio alla New Age.

vendesi collezione completa di agende con contenuti personali dal 1977 al 1992

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Quindi l’effetto di  rileggere certi diari o agende che capitano sottomano inaspettatamente durante le visite ai genitori sotto le feste è lo stesso di visionare i nostri attuali blog quando avremo settant’anni. Che vergogna. Prepariamo quei marchingegni che usano gli anziani per distruggere documenti di vitale importanza come le bollette dell’Enel del 1994 prima di gettarle nella raccolta differenziata perché non si sa mai che a qualcuno, prima di farne carta riciclata, non venga voglia di leggere quanto ha consumato uno nel mese di marzo per poi risalire all’indirizzo e correre a svaligiare l’appartamento o, peggio, mettersi a rovistare nella rumenta per dire a tutti che l’utente xyz ha pagato una bolletta di quarantottomila lire. Che onta. Ma che vado dicendo? Quando cercheremo di occultare ai nostri nipotini questi sproloqui messi per iscritto per chissà quale gloria digitale ci toccherà gettare chissà quanti dischi fissi o non ben definiti spazi cloud nel cesso e tirare lo sciacquone sperando che sia sufficiente a cancellare tutte le corbellerie che ci sono passate per la mente intorno ai quaranta e rotti. Quasi peggio, quindi, delle rime messe nero su bianco per la darkettina delle superiori, dal momento che da individui grandi grossi maggiorenni e vaccinati e – nel mio caso – con famiglia e prole al seguito ci si aspetta un po’ di stabilità pratica e non certo spleen da tanto al mucchio e per giunta virtuali. Non si finisce mai di scoprire che è sempre bene tenere accesa quella telecamera di auto-videosorveglianza pronta a mandare messaggi minatori quanto si oltrepassa il confine della ridicolaggine che è poi quella che ci salva dalle figuracce con un bel reset completo di qualche contenuto – scritto, registrato, composto, dipinto, fotografato ma sempre spinti da velleità artistiche – che per fin troppo abbondanti porzioni della nostra vita abbiamo accumulato in maniera bulimica nella speranza che un talent scout passi per caso e ci copra d’oro tanto quanto è il nostro valore. Quindi ve lo do come consiglio: è meglio smettere qui. Iniziate voi, il tempo di sbrigare due faccende e poi vi seguo.

il regalo più prezioso è proprio questo

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Quelli che come me si vantano di essere in grado di considerarli giorni come tutti gli altri mentono sapendo di mentire. E così, come una pietanza particolarmente più gustosa nel normale, ci si ritrova ad osservare il piatto con qualche rimasuglio del condimento con quella nostalgia che ha eguali solo quando una canzone preferita finisce e di improvviso il finto silenzio ci impone di rintracciare le briciole di piacere acustico nelle ultime vibrazioni dei corpi attraversati dalle onde del suono. La metafora del cibo calza a pennello con le sensazioni postume, quel senso anomalo di gonfiore nelle membra e sulle dita compresse – almeno una – dalla fede nuziale, o sotto l’ombelico dove una cintura stringe un po’ di più. La metafora della canzone pure, sono feste piene di ritornelli di gioia che sono quelli che conosciamo di più e che ogni anno canticchiamo come se fosse la prima volta, cercando di non far accorgere nessuno che siamo felici, sempre che lo si possa dire. Fino a quando qualcuno molto più giovane di noi ma molto legato a noi, un figlio o un nipote a seconda di quanti anni abbiamo per esempio, fino a quando qualcuno di una generazione in meno ci pone la domanda che temiamo di più, alla quale non c’è una risposta standard. Che cosa gli possiamo dire? Tutto finisce perché tutto ha un inizio, tutto si consuma perché si esaurisce, non se ne esce e non conosciamo nessuna realtà delle cose diversa da questa.

ricorda di santificare le feste

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Ho passato l’intera vigilia a montare un armadio a tre ante Ikea. Il tempo in eccesso non è certo dovuto alla complessità del lavoro, gli omini delle istruzioni degni della linea di Cavandoli ne sanno una più del diavolo per farti arrivare sano e salvo all’ultima pagina del manuale operatore, e con il nuovo pezzo di arredo pronto all’uso. Ci ho messo tanto perché non me la cavo molto bene, ho attrezzi di qualità scadente, e preferirei fare qualunque altra cosa. Anche santificare una festa, per esempio. Comunque l’armadio a tre ante che ho montato in questa nuova vigilia di Natale si chiama Pax. Un po’ in tema, con le feste, lo è.
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ecco perché i colori è meglio sceglierli alla luce del sole

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Una relazione complicata con il disordine nasce probabilmente da un disordine interiore, e se qualcuno per fare colpo in un senso o in un altro prima o poi vi posta una foto della sua scrivania in ufficio per darvi un’idea di come è messo dentro ditegli che non vale. La prova del nove è la casa messa a soqquadro per cambiamenti inderogabili come la classica rinfrescata alle pareti, operazione che per le temporanee conseguenze che porta dovrebbe essere annoverata tra i crimini contro l’umanità.

Prova ne è che ci si ritrova a scrivere i propri pensieri a riguardo a ore poco abituali per questo genere di attività riflessive, in postazioni di risulta, con gli animali domestici che patiscono a loro modo l’esposizione di mobili ed effetti personali in aree che loro erano abituati a vedere in un certo modo e per ben altri usi. Una volta, quando giravano di più i soldi, c’era questa abitudine di tinteggiare le stanze ogni due o tre anni. C’era anche molta gente in grado di fare da sé. Io vi giuro che ci ho provato un paio di volte, e vuoi la fatica, vuoi i risultati, oggi preferisco fare qualunque cosa di altro piuttosto che mettermi con rulli e pennelli e fissativo e latte che poi non sai mai come smaltire del tutto. Subisco ancora oggi i postumi di un tinteggiatura con rimozione di carta da parati preliminare, un supplizio che non auguro nemmeno al mio peggior nemico.

Ma nei giorni degli imbianchini, o meglio decoratori di interni, è bene quindi sfollare altrove come si faceva in tempo di guerra. Ritirarsi in un rifugio in campagna ospiti di qualche famiglia borghese caritatevole per non subire i bombardamenti di stress da violazione della privacy e da subbuglio incondizionato. Vietato svegliarsi di notte e camminare al buio, poi, ché abituati dopo anni a muoversi alla cieca in ambienti familiari si rischia di mettere i piedi in un catino, di sbattere contro mobili spostati al centro delle stanze, di inciampare sul telo che impedisce al parquet da capitolato base di sporcarsi.

Subentrano sonni agitati, comunque, visioni oniriche rivelatrici di quanto a malapena si sopporta il trambusto nei propri spazi privati. La partenza in perfetto orario della nave per la Sardegna, anziché un comune incubo in cui ci sono millemila ostacoli che te la fanno perdere. O cose come una vecchia fiamma vestita in abiti anni 60 e con un’acconciatura alla Mina (o alla Nina Zilli, a seconda di quali siano i vostri riferimenti culturali) che canta in un gruppetto beat una versione in italiano di un pezzo dei Blonde Redhead invitando il pubblico ad eseguire coralmente i movimenti di un ballo di gruppo da seduti, chinando il busto verso le ginocchia. Ecco, da tutto questo traspare voglia di evasione, o forse sono solo gli effluvi della pittura alle pareti. Gli anziani sostengono infatti che sia meglio tinteggiare in estate, quando si può dormire con le finestre aperte.

la società, che spettacolo

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Nel mio piccolo, qualche contributo al situazionismo nella mia vita fin qui l’ho dato, e su questo credo di avere la coscienza a posto. Anche se in realtà il non riconoscere l’esistenza del situazionismo è stato un mero vezzo semantico dei situazionisti, quindi a qualcuno di questi so-tutto-io che vanno per il sottile potrebbe venire in mente di togliermi ogni merito. Se parliamo di creare situazioni va meglio? Allora posso dire di averci provato, anche se ho cominciato quando ormai non c’era più nessuno in grado di esercitare un giudizio in merito e  l’identificazione anche solo della componente psico-geografica risultava un processo ampiamente aleatorio.

Le tracce stesse della filosofia, tutto sommato, sono invisibili ancora ai nostri tempi. Quante volte vi è capitato di fermarvi a riflettere durante una conversazione tra nonne in stretto dialetto siciliano e chiedervi il perché, in quel borgo dell’entroterra del ragusano, l’urbanismo unitario – per fare un esempio – non abbia lasciato traccia. Domande analoghe che implicano la stessa risposta possono sorgere in noi fermi al semaforo concentrati sui denti placcati in oro della lavavetri nomade che non si è accontentata del nostro rifiuto a sottoporci a una seduta di pulizia del parabrezza, se dovessimo analizzare il luogo e il territorio attraverso le sue derive, e in quel tentativo di diminuzione di momenti nulli c’è l’imbarazzo della scelta.

Quanto c’è di Debord in una passerella pedonale che collega un Ritmo Shoes con un Leroy Merlin utilizzata solo dalle fasce più povere della società alle quali è negato il diritto di fare la spesa natalizia in automobile? Un inizio di rissa per una Punto vecchio modello che sfoggia un tagliando portatore di handicap attribuito abbastanza arbitrariamente da qualche autorità di manica larga, lasciata con finestrini, porte chiuse e marcia ingranata in seconda fila davanti all’ufficio postale a bloccare una signora in pelliccia che non smette di suonare il clacson e una famiglia in tuta da ginnastica di sottomarca che si appresta a vivere comodamente il sabato mattina di offerte da volantino, possono essere considerati momenti concreti di vita deliberatamente costruiti mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di eventi?

E se tutti insieme stabilissimo che un Grancasa qualunque a fianco di un Carrefour Planet, entrambi sullo stesso lato di uno svincolo autostradale a tre corsie, possono risultare davvero l’ambiente spaziale fatto di allestimenti di interni in impiallacciato laccato, in linea con la nostra condotta morale come teatro per il corso di attività dove l’arte integrale ed una nuova architettura possano finalmente realizzarsi? La presenza di megastore risponderebbe alla necessità di inventare rappresentazioni di una nuova essenza, ampliando la parte non-mediocre della vita, diminuendone, per quanto possibile, i momenti nulli grazie anche alla presenza di Paolino, il Mago dello Spiedo, a riempire l’esperienza sotto il profilo olfattivo. Ma ridurre tutto questo a semplice espressione artistica sarebbe una semplificazione per eccesso. Guardatevi intorno, c’è poco da re-inventarsi: il potere rivoluzionario è dentro ciascuno di noi, basta non lasciarsi confondere dal suo tasso variabile.

no pentole, no party

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Ci sarebbe questa bellissima foto da fare con il pezzo finale di Corso Garibaldi – siamo a Milano, nota del blogger – con tutte le sue illuminazioni natalizie a forma di arco, a partire dal sagrato della chiesa di Santa Maria Incoronata. I caratteristici lampioni, l’ottocentesca Porta omonima e, dietro, i nuovi grattacieli di César Pelli e la guglia, uno scorcio tutto acceso all’imbrunire. Ecco che cosa mi aspetto dai Google Glass o da qualche altra diavoleria simile da indossare. Vedi una cosa che ti piace o che ti ispira, strizzi l’occhio – attenzione a non far equivocare le tue intenzioni a qualche avvenente passante – e la foto si salva in una micro-memoria flash che porti con te senza accorgertene. Non vedo perché non impiantata direttamente in un organo senza rischio di rigetto.

Vedo però qualcuno di quelli che sono con me utilizzare persino cellulari di vecchia generazione per fermare quel momento. In effetti non sono il solo a cogliere l’attimo, vista la profusione di intenzioni rivolte proprio da quella parte. Mentre sono persino sorpreso di riconoscere l’essenza familiare di un tabacco da pipa, mi chiedo con il naso all’insù chi siano i fortunati ad abitare gli appartamenti di queste zone un tempo operaie, ora tutt’altro. Che è un po’ lo stesso destino dei pescatori proprietari delle case in riva al mare di Camogli, per intenderci, la cui rivalutazione possiamo considerare un segno del cambiamento di fortuna a premio della tenacia di sopportazione del quartiere popolare nel primo caso, l’accanimento del tempo e la salsedine nel secondo. Se quelli che ci abitavano sessant’anni fa sono ancora vivi, sanno di cosa sto parlando.

Quanto a me, ho appena cambiato il canale di ricezione di uno di quegli apparecchietti che servono ai gruppi in visita turistica per seguire le spiegazioni della guida. Mi sembrava difettosa ma poi non era settata sulla frequenza giusta, comunque la spiegazione deve ancora incominciare e non mi sono perso nulla. La visita a questo suggestivo contrasto tra la vecchia e la nuova Milano, che non è ancora ultimata ma sembra che, a parte il parco che sorgerà, ci siamo quasi, non è ancora iniziata.

Fa freddo ma ci sono lo stesso ragazze in tuta da running che passano di corsa e si gettano dentro alla chiesa per un’Ave Maria ristoratrice. Il quadro è completato dai soliti venditori abusivi di tutto resi più agguerriti dall’atmosfera natalizia e dalla prossimità con la carità cristiana. Una donna del mio stesso gruppo acquista un fiore, mentre con me il ragazzo africano e i suoi libri non hanno nessuna possibilità.

La signora è la stessa che più tardi sarà l’unica a uscire con una busta di carta dal punto vendita Feltrinelli, aperto proprio nella nuovissima piazza Gae Aulenti, segno che ha interpretato perfettamente il senso dell’iniziativa. La gita, anche se gita non è perché viviamo tutti a una manciata di chilometri da qui, si deve concludere con un ricordo o più di uno. Gli altri, come me, si guardano reciprocamente a sincerarsi che il momento storico con crisi annessa e rivoluzione di contorno non ammette spese superflue, che già la visita guidata con tanto di pullman ha avuto il suo costo.

Ma non è questo il punto. Lungo la breve strada del ritorno, proprio mentre passiamo attraverso i nuovi snodi costruiti nell’area che davvero fa sembrare Milano una città europea – per qualche istante ho avuto l’impressione di trovarmi al Sony Center di Berlino – e la nostra guida preparatissima conclude il percorso con tutti i dettagli sul progetto dal punto di vista urbanistico, dal mio posto in fondo al pullman vedo le doppie file di teste canute che si sono iscritte, insieme a me, all’iniziativa. Era naturale, l’associazione che ha organizzato la proposta si rivolge a quel target di pensionati o giù di lì. Non è un problema, probabilmente la coppia di trentenni dietro di me sta pensando la stessa cosa ma, nell’insieme di capelli bianchi, ci ha messo anche i miei.

E non è nemmeno la prima volta in cui mi trovo ad abbassare l’età media di un gruppo. È la formula in sé che, riflettendoci, ha una serie di caratteristiche che, prima o poi, dovrò sempre meno considerare aliene. In quell’istante però provo il caratteristico sollievo alle membra, il contrasto tra il calduccio del riscaldamento contro l’intirizzimento e la spossatezza dopo appena tre ore di camminata, una cosa che sicuramente mi accomuna al resto delle persone che iniziano a sentire, come me, i morsi della fame. Finalmente siamo sulla via di casa.

trema destra

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Ma probabilmente gli storici scriveranno che negli anni dieci del ventunesimo secolo guerre e rivoluzioni erano così. In qualche punto della città c’era qualcuno che combatteva contro qualcun altro e la media di sirene dei mezzi soccorso che passavano al giorno nelle strade era solo un po’ più elevata rispetto alla normalità. Gli uffici erano al completo con gli impiegati seduti ai computer a usare i programmi della suite di Office come gli era stato insegnato ai corsi di specializzazione. Un occhio sempre pronto a sbirciare sui siti di informazione lo stato delle cose, i tweet in tempo reale per avere in anteprima, rispetto alla stampa, qualche aggiornamento fondamentale. Un sistema che era già stato sperimentato ai tempi del bombardamento di Belgrado, quando grazie a ICQ i ragazzi in pace inviavano solidarietà ai loro coetanei in pericolo di vita o sotto il tiro delle missioni umanitarie. Una cosa simile era accaduta anche durante i fatti di Genova, quando la popolazione che protestava era stata brutalmente contrastata dalle forze dell’ordine a dimostrazione che cortei espressamente di sinistra erano soggetti a trattamenti ben diversi, da polizia e carabinieri, rispetto ai movimenti di ben altra matrice, come quelli del dicembre 2013. Non c’erano contatti tra la gente comune e i rivoltosi, non si assisteva a isterie di piazza come quelle esplose nei paesi arabi qualche mese prima, ognuno portava avanti la sua vita senza nessun ostacolo particolare. C’erano stati lo stipendio e la tredicesima, le partite di coppa si svolgevano regolarmente e se venivano interrotte accadeva per motivi ordinari come un’abbondante nevicata. Le famiglie di immigrati, anche di culture e religioni così distanti dalla nostra, continuavano ostinatamente nel tentativo di integrarsi trascorrendo pomeriggi in posti come l’Ikea per salutare una maggiore stabilità economica, ottenuta grazie a qualche datore di lavoro ben disposto e straniero come loro, attraverso uno sforzo di adattamento alle linee e a un’estetica così ancora lontana dai colori e dai tagli dei loro abiti tradizionali. La sera alla tv era tutto un gridare di anchor man d’assalto, corrispondenti da presidi e blocchi ai caselli autostradali, punti ristoro con salsicce alto-atesine e vin brulè, su riprese con smartphone delle poche vittime sacrificali a giustificazione che dall’una e dall’altra parte tutto quel rumore non era affatto per nulla. I disoccupati aggiornavano i loro profili Facebook con le foto dei loro cartelli sgrammaticati e gli adolescenti più temerari applicavano strategie apprese su videogame sparatutto in soggettiva. C’era stato qualcuno, pochi giorni prima, che avrebbe voluto dare un nuovo nome al futuro ma nessuno si ricordava più, alla fine, come si era deciso di chiamarlo.