andare di corsa

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Posso capire che la tua prestanza atletica tutta maschile ti sia di ostacolo nel rivolgere la parola o fare anche un piccolo cenno a individui del tuo stesso sesso, nell’episodio in questione me medesimo, e riservare le cortesie e la confidenza solo alle femmine avvenenti tutte strette e provocanti nelle loro tutine aderenti da corsa. Non sia mai che tu, velocista muscoloso e luccicante nella tua pelle priva di alcun poro pilifero non occluso, possa essere equivocato come persona di malcelata tendenza omosessuale, che magari sotto sotto ce l’hai, e dal tuo groviglio di fili musicali e dalle molteplici connessioni agli apparati di controllo delle tue funzioni cardiocircolatorie che ti fanno sembrare una matassa ambulante ti scappi un qualsiasi fremito di fratellanza verso il corridore dilettante in tenuta Decathlon che incontri al sesto giro del parco, sempre nello stesso identico punto. Forse stai dubitando che lo smilzo e barbuto corridore compie lo stesso giro con le tue stesse prestazioni e quindi tutto il tuo vigore atletico, avulso dalle apparenze, è tale quale quello di un principiante qualunque? E scusa se mi è scappato un ghigno di cameratismo, siamo entrambi sulla stessa barca, anzi, sullo stesso percorso ma in direzione opposta a tenerci in forma e a tenere bassa la pressione sanguigna per gli anni a venire. Quindi, diamine, rilassati un po’, e cerca di prenderti meno sul serio, come cercano di fare i tuoi avversari ignari di esserlo.

al posto tuo

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L’ultimo giorno di lavoro di un collega lo si riconosce subito, alle nove del mattino appena si arriva in ufficio, perché non è un giorno come tutti gli altri.

Se è il collega ad aver dato le dimissioni perché cambia lavoro, quindi si presume vada a stare meglio, leggi la speranza nei suoi occhi, lo vedi pronto al passo successivo, quello che nessuno conosce. Cambiare società, si sa, è comunque una sfida da cui si può tornare vincitori ma anche no, e lo sguardo di chi ci lascia volente, e ha dato il preavviso trenta giorni prima, è un misto di paura, gioia e nostalgia. Ma tutto sommato è uno sguardo giovane, non saprei come definirlo meglio, un po’ perché sono giovani quelli che riescono a cambiare in meglio, un po’ perché forse il panico ti fa gonfiare il petto per istinto di sopravvivenza, come gli animali che si preparano al combattimento, e la forza negli occhi ti conferisce quell’aspetto che si ha da ragazzi boriosi. E anche perché tutti ti invidiano. Per chi è felice di varcare l’ultima volta da collaboratore fisso (stavo per dire dipendente ma poi mi sono accorto dell’anacronismo) l’uscita giù al piano terra per addentrarsi da solo – o almeno non con noi – nel suo futuro, l’ultimo giorno d lavoro è già un giorno di festa, lo coccoliamo, qualche battuta, si va a pranzo insieme l’ultima volta da colleghi. Poi nel pomeriggio ci riuniamo tutti qui nel mio ufficio, che si chiama lo stanzone perché è la stanza più grande, e con un scusa lo facciamo venire qui e gli consegniamo un regalo, comprato grazie a una colletta. Il biglietto è quello dei commiati, felicitazioni per la tua nuova carriera. Poi, un paio di ore prima dell’orario normale di uscita, preceduto da una sua email più o meno di circostanze, il collega fa il giro, mi raccomando sentiamoci, vi ho lasciato l’indirizzo privato di posta, sì ma sarò qui vicino quindi possiamo pranzare insieme di tanto in tanto, e cordiali saluti. Chi era più legato continua l’amicizia parallela fuori di qui, e avanti il prossimo. Il nostro capo non si fa mai vedere in queste occasioni, forse stizzito del fatto che non è riuscito a trattenere la risorsa, e con una scusa o un’altra si astiene dai saluti finali.

La variante, come potete immaginare, è il collega a cui non è stato rinnovato il contratto ed è stato licenziato. E anche in questo caso, lo riconosci subito che non è un giorno come gli altri. Siamo tutti un po’ in colpa, noi abbiamo ancora un lavoro e tu no ma se fossi nei nostri panni saresti imbarazzato anche tu ma per fortuna che non ci sei perché in tal caso saremmo noi quelli ad aver perso il posto di lavoro, dicono i nostri occhi. Rispetto al dimissionario, il licenziato è ovviamente meno speranzoso e più preoccupato, da domani avrà giornate intere per sfogliare annunci di lavoro, i link sui quali ti posizioni con la freccetta del mouse e ti compare già in anteprima il range di salario: rimborso spese, meno di quattrocento euro, da quattro a ottocento euro. E le dinamiche con gli altri sono diverse. Il rancore lo spinge a consumare l’ultimo pasto con i colleghi più stretti, ma non per questo non ci preoccupiamo di salutarlo con una colletta per un pensiero. Nel biglietto non si sa cosa scrivere, il lupo è tirato in ballo dai meno originali, poi qualcuno sdrammatizza e fa il simpatico. Segue mail a tutti, è stato bello lavorare con voi, poi il giro di saluti di rito e il collega si invola appeso a un enorme punto interrogativo aerostatico, lo salutiamo dalla finestra mentre prende quota, aggrappato a quello che per il momento è il suo futuro, la sua unica certezza. Nessuno sa dove sia diretto. Quando sparisce dietro al palazzo di fronte, si torna tutti alla scrivania. Ah, il nostro capo non si fa mai vedere in queste occasioni, forse imbarazzato del fatto che ha dovuto lasciare a casa la risorsa, e con una scusa o un’altra si astiene dai saluti finali.

a chi voglio darla a bere

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Non saprei dirvi quanta birra ho tracannato fino ad oggi, dalla prima lattina di Peroni acquistata a tredici anni con gli amici e bevuta di nascosto in vacanza che mi fece volare, con la testa che girava, giù dalle strade sterrate con la bici da cross, fino alla Ceres Top Pilsner che ha accompagnato una sedicente pizza preconfezionata Buitoni, offerta in omaggio al supermercato e, quindi, da buon ligure, testata gratis sulla mia pelle ieri sera a cena. In circa trent’anni una quantità pari a un lago intero, probabilmente. Mangiando o come aperitivo, con gli amici o in casa davanti a un film, con il caldo o sulla neve, pura e semplice o con additivi finalizzati a conquistare più velocemente l’oblio dei sensi. Adoro la birra, è l’unica bevanda che mi disseta, l’unico alcolico che reggo, l’unico liquido sufficientemente amaragnolo da non nausearmi con il retrogusto dolciastro. La mia devozione però ora si trova di fronte a un grande impasse. Il piacere giù per la gola e l’orgasmo fluido delle bollicine lungo l’esofago sono sempre gli stessi, incomparabili. Ma l’effetto di ebbrezza inizia a darmi fastidio, e spero non sia una cosa troppo grave da costringermi a rinunciare a uno dei miei passatempi preferiti. L’impressione di avere il corpo in balia di una sensazione di distacco che prima era così seducente, la testa lievemente asincrona rispetto al resto, ora mi sembra una violazione del corso naturale del comportamento, mi sento qualcosa scorrere al contrario, bloccato su una giostra dalla quale voglio scendere. Forse è un caso, la pizza Buitoni non c’entra perché mi era già capitato prima, spero passi. Ma la ripercussione esistenziale, con riflessione annessa, è stata inevitabile. Ho pensato che magari invecchiare è proprio così, un mettere in crisi tutte le certezze che si sono acquisite lungo una vita, fino all’ultima grande abitudine, quella di essere. Ci berrò un latte e menta su, e poi vi dico.

esternauta

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Ci sono giorni in cui Internet mi è fondamentale, per il lavoro, per la vita privata, per passare il tempo e per trovare informazioni. Altri in cui ne potrei fare a meno, quando non sono bravo a filtrare i risultati delle ricerche, quando mi è difficile capire l’autorevolezza di un’opinione perché sono ignorante e non conosco quel giovane esperto lì e così via. Ci sono stati e ci sono tuttora momenti epici della mia vita che si svolgono qui sopra, ma anche emicranie perforanti da caos totale, situazioni da cinque minuti prima della campanella in cui sembra che tutti si scavalchino anziché trovare il tempo giusto e il loro turno per intervenire, e la lettura è un susseguirsi di hei guarda come sono bravo, guarda come sono intelligente, guarda come sono creativo, guarda come la butto in caciara. Il problema, per chi ci lavora come me, è mantenere la calma, tenere comunque i piedi da questa parte, e affacciarsi alla finestra sul mercato, proprio nel senso del mercato rionale in cui articola il web, solo per scrutare ma senza buttarsi di sotto, sforzandosi di astenersi dallo sputare sui passanti come si faceva da piccoli. Se non altro guardare in giro ti aiuta a nutrire l’autostima, leggi e apri file e dentro c’è poco o nulla, o per lo meno niente che tu non sappia già, proprio come a pc spento. L’ennesima versione personalizzata con powerpoint in allegato di un chiedersi come, perché, dove, quando e chi senza dare una risposta.

un classico

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Da Repubblica.it:

Sfilano con l’accompagnamento live della band della scuola, scendendo dalla scalinata del Parini come professioniste, le 20 studentesse scelte all’interno del prestigioso liceo classico come modelle per la passerella della linea ‘La petite robe’ di Chiara Boni. In prima fila genitori e amici della stilista, da Daniela Santanchè a Caterina Caselli, da Salvatore Ligresti a Malika Ayane. E’ la prima volta che la moda entra in un liceo, “ma questo è il Parini” spiega orgoglioso il preside, Carlo Arrigo Pedretti, raccontando di aver accettato la proposta perché “mi interessava svecchiare l’immagine del liceo classico e del Parini e questa iniziativa è un esempio della vita che va avanti, una proposta di riflessione sulla moda e sull’estetica”

Ecco, vedete? Basta poco per creare link tra la scuola e la società, la vita di tutti i giorni, il mondo del lavoro. È giusto mettere in contatto i nostri ragazzi con le persone comuni, quelle che vivono di quello che fanno e che guadagnano, quelle che malgrado il momento economico e i sacrifici imposti dalla flessione mondiale del mercato fanno di tutto per sopravvivere dignitosamente. Un’idea efficace affinché i giovani possano acquisire tutti gli strumenti per scegliere i loro modelli e i valori più consoni a condurre un’esistenza concreta, nel segno del rispetto di se stessi, del prossimo e della cosa pubblica.

il top

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Prima che le gite scolastiche diventino l’obiettivo stagionale di una pletora di preadolescenti in piena ubriacatura ormonale, in cui concentrare un intero anno di brame latenti grazie a una uscita collettiva dalle maglie e dal controllo famigliare mascherata da iniziativa culturale, alle elementari hanno ancora, per lo meno in terza e almeno da come me ne parla mia figlia, una parvenza di evento collettivo di sovraeccitazione da vivere ciascuno nella propria individuale emotività. L’agitazione si manifesta tutta la sera prima, anche se la gita altro non è che una semplice, e mi si lasci aggiungere discutibile, scampagnata sulla spiaggia con destinazione Mar Ligure e nemmeno quello più bello, ammesso che ne esista una porzione gradevole indipendentemente dall’idea di unico sfogo padano ove pucciare i piedi nell’acqua salata.

Ma per i bambini ogni mondo è piscina, beata gioventù. Sta di fatto che per la prima volta per mia moglie e me si è posto il problema del costume. Quale problema, direte voi? La questione è che le bambine, pur tali in quanto di otto anni, da qualche tempo usano già il costume da grandi con tanto di reggiseno. Già, piatte come una tavola da surf, il mercato le vuole già signorine e con il seno coperto. Inutile sottilineare, e non prendetemi per il solito baluardo no global che sfida i diktat estetici ed etici delle multinazionali, che mia moglie ed io non ci saremmo mai posti il dubbio se molte delle coetanee con cui mia figlia tra qualche ora partirà per la Riviera dei Fiori (?) mettono già il bikini. Da una parte il modello imperante, come sappiamo, vuole la donna modello Minetti-striscia la notizia, con le sue poppe coperte ma bene in vista e pronte all’uso, e figuriamoci, dall’altra il mercato non ha certo esitato a lanciare l’ennesimo prodotto per risollevare le sorti dell’economia mondiale. Fatto sta che la maggior parte delle famiglie sembra non prendere in considerazione il problema, sono quelli che “eh vabbè, se stai a vedere tutto”.

Un cazzo, scusatemi il termine. Piuttosto allora il costume intero, quello blu scuro Arena da piscina, no? No, perché i bambini a quell’età, maschi e femmine, fanno già i maliziosi, è un continuo “tizio vorrebbe fare sesso con tizia”, sì, lo so cosa state pensando e non ditelo a me. Chiaro che per noi la questione non sussiste, abbiamo solo mutande, per di più anche sufficientemente femminili, e oggi indosserà quelle. Mia moglie, che ha una visione meno limitata per non dire che è più intelligente, la mette sul piano dell’ostentazione della diversità difficile poi da gestire per una bambina di quell’età di questi tempi, e sull’esporre nostra figlia ad essere presa in giro, una tesi che con me è già più convincente. Ha ragione, però, diamine, possibile che ci si debba sempre tutti uniformare a quello che si trova sugli scaffali del supermercato? Mah. Probabilmente è che a me, di tutta questa storia, ne manca un pezzo. Che non è solo quello di sopra.

papale papale

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Le opinioni degli impiegati della sede centrale e delle filiali di quella organizzazione che per semplificare chiamerò Chiesa mi interessano poco o niente. Non sono rappresentanti dello stato in cui sono nato, non fanno parte di un partito a cui sono iscritto, non sono una mia azienda cliente. So che fanno di tutto per influenzare l’opinione pubblica e la struttura stessa della società cercando di distribuire gratuitamente i loro prodotti soprannaturali, i loro preservativi per coscienze e a volte ci riescono perché hanno una forza vendita agguerritissima, ma, ripeto, non mi scalfiscono nemmeno un po’. Trovo sacrosanto (mi si perdoni il gioco di parole) che, dato il loro statuto, parlino secondo i loro princìpi, e parlano ai loro – come chiamarli? Adepti? Fedeli? Stakeholder? Elettori? Non parlano a me, e non nego che il fatto che i media, anche quelli di mio riferimento, dedichino titoloni e spazio alle esternazioni di condanna su pratiche sessuali, etica, comportamento, modelli di vita, mi urti e non poco. Vendola pecca più di Berlusconi perché è omosessuale? Sì, può essere, anzi, è il punto di vista di una corrente di questa organizzazione, giusto che la pensino così se è in linea con i loro valori. Ma non considero l’organizzazione di cui sopra un referente autorevole addirittura degno di confronto con una qualsiasi autorità laica e civile. Una comunità come tante altre, ecco, con una serie di portavoce come tanti altri. E a me – ripeto – non interessano le loro opinioni, non è il caso quindi di indignarsi per ogni idiozia che si legge in giro.

il coccodrillo come fa

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Me ne sono accorto da un po’ di tempo, ma probabilmente è un fenomeno che va avanti da sempre, almeno lungo tutta la storia dei quotidiani e dei mezzi di comunicazione di massa. Oppure davvero è solo un trend che ha preso ultimamente, perché siamo tutti ammalati di nostalgia, e così le generazioni di italiani che ora occupano la componente economica, il mondo del lavoro, la fascia di persone che fanno e divulgano opinioni, che stanno su Internet e nelle redazioni dei giornali sono legate a filo doppio con il nostro comune passato. Magari perché il presente fa schifo e il futuro potrà essere anche peggio. Però, ripeto, potrei sbagliarmi: la notizia non è il cane che morde l’uomo, ma viceversa, così ci hanno insegnato. Sta di fatto che non passa giorno in cui non ci sia un morto celebre da compiangere, un gruppo che si è sciolto, una rockstar che decide di ritirarsi, il ventennale di questo o quello. Ora, forse non vi facevo caso io prima, o forse stiamo attraversando un periodo di particolare concentrazione di eventi di questo genere. Tra me, penso anche che attorno ci sia il nulla, che la Retromania di cui ho già parlato permetta a molti di noi di vivere in un costante delay, l’età dell’oro e della tranquillità in cui siamo cresciuti e a cui siamo stati educati che, per i motivi che sappiamo tutti, si è sgretolata. E non dico che non si debba parlare di Sergio Bonelli, anzi, o dei REM o di Sandra e Raimondo, per citare anche un caso piuttosto limite. Però mi chiedo (formulandomi una domanda retorica) perché risultino così di spicco rispetto ai temi quotidiani e alle persone in carne ed ossa che sono protagoniste attive del presente, che fanno, agiscono, lavorano e registrano dischi, e come mai occupino i primi posti dell’agenda degli argomenti tra chi ne discute sui socialcosi, e so già che al telegiornale ci sarà anche stasera un lungo e sentito servizio sui nostri fumetti preferiti che farà sembrare tutto il resto l’ennesima poltiglia rimescolata e servita. O forse invece è un problema solo mio, sono io che mi concentro lì e il resto inizia a sembrare sempre meno interessante.

la città

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Posso immaginare, come si sta vantando un visitatore in coda alle mie spalle, che Roma, vista da quell’altezza, sia un’altra cosa. Credo che, in generale, vedere dal quarantesimo piano di un grattacielo qualunque città abbia un suo perché. Ricordo Parigi dalla Torre Eiffel, anche se dall’ultimo piano, quello in cima in cima, i metri sono così tanti da rendere superflue persino le vertigini. Sembra di osservare la terra da un volo aereo, non trovate? Per non parlare di New York vista dall’Empire State Building, ecco, già l’esperienza si avvicina di più, anche se New York non ha paragoni, su questo sono certo che nessuno può dimostrare il contrario. La vista dall’alto trasmette il controllo sul territorio, non a caso la storia delle fortezze e dei presidi di osservazione è vecchia quanto l’uomo. Anche il fascino della vetta per gli alpinisti è voltarsi, a fine impresa, e guardare sotto.

Certo, se questo palazzo fosse stato costruito a Roma, l’effetto sarebbe un altro. Beh, grazie, anziché il quartiere dell’Isola vedremmo i Fori Imperiali, al posto delle gru nel cantiere della nuova fiera ci sarebbe, non so, Piazza San Pietro. E sono certo che al posto di questo smog che facciamo finta di chiamare foschia di autunno, ci sarebbe un bel cielo terso e azzurro. Ma qui, al quarantesimo piano del nuovo palazzo della Regione Lombardia, che oggi era possibile visitare, si gode una vista mozzafiato di una città che comunque mi incanta per la sua estensione, per l’eterogeneità e l’irregolarità dei quartieri, a partire da quello qui sotto. Un città sicuramente piena di difetti, e chi non li ha, difficile, stramba e contraddittoria, che vista da giù malediresti, anzi, la maledici ad ogni automobilista che rallenta e ti fa perdere il giallo al semaforo. Ma a piedi già è diverso, camminando con il naso all’insù ad ammirare gli ultimi piani dei palazzi nei quartieri più carini, ricolmi di piante e alberelli, alcuni dalla strada sembrano vere e proprie foreste.

E da quassù è bello leggerla come su una pianta stradale, un googlemaps vivente, cercare casa tua anche se mancano i punti di riferimento. Poi i siti di interesse, quelli più celebri, i monumenti, il Castello, il (poco) verde, le vecchie case, alcune messe maluccio, che contrastano con le nuove linee pensate dall’archistar di turno, le curve che salgono verso il cielo. E sì, viene da pensare che probabilmente non era il caso di costruire un nuovo palazzo della Regione, tanto più che la precedente sede è quella delizia architettonica di Gio Ponti, e che chissà che movimenti sotterranei di appalti e subappalti, mazzette e gare truccate, magari qualche infiltrazione di quelle che certi campanilisti negano fino alla morte. Vabbè, non rovinatemi questo momento, ho un debole per Milano, e me la godo da qui.

dietro l’angolo

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Seduto in macchina, nel parcheggio dell’Esselunga, in attesa di mia moglie che è entrata per una veloce spesa di generi di primissima necessità, mentre mia figlia dietro gioca con il suo nuovo bracciale magnetico che le ha regalato una compagna di classe. È più o meno l’ora di punta del sabato mattina, quando molti sono lì per il mio stesso motivo, c’è quindi un viavai di famigliole con i carrelli pieni di ogni ben di dio. Mia moglie mi dirà allibita che la coppia in cassa davanti a lei ha pagato quasi trecento euro di roba che noi non abbiamo mai assaggiato in tutta la nostra vita. Trecento euro di spesa noi li facciamo in un mese, e dubito fortemente che si riesca a concentrare in un’unica visita al supermercato l’intero fabbisogno di trenta giorni di vitto. Ma non è questa la notizia.

Mentre ero lì che aspettavo, intento in una serie di gare di sguardo fisso con mia figlia, in cui vinco sempre io perché basta che apra le narici come un toro e scoppia a ridere, avevo come al solito lo stereo acceso con l’unico cd che potevo ascoltare perché haimè si era incastrato dentro. Una compilation delle vacanze, pezzi vari di tutto e di più. Ecco “Just like heaven” dei Cure. Alzo il volume a palla, guardo nello specchietto retrovisore per capire se nella mia tamarraggine sto dando troppo nell’occhio, ma con mia immensa meraviglia vedo passare due anziani vestiti di nero con camicie di raso, pantaloni di pelle e creeper nere scamosciate ai piedi, quelle con le fibbione in argento. Entrambi hanno i capelli cotonati e stanno ballando mentre spingono il carrello.

A quel punto sposto lo sguardo davanti e mi rendo conto che sono tutti vestiti così, come Robert Smith, alcuni hanno persino il rossetto sbavato e fanno le mossette che faceva lui nei video, le mani giunte, gli occhi verso l’alto. Tutti con chiome assurde a fontanella, e camminando a tempo con la musica si dirigono alle loro auto, aprono il portellone, caricano il portabagagli di articoli in promozioni, offerte treperdue, borse traboccanti di frutta, verdura, scatolame, merendine ipercaloriche per i loro piccoli già sovrappeso, bambini che vestono magliette dei Cure tese sulla pancia tanto che il povero Robert ha un faccione largo così, mai visto.

Devono essere tutti d’accordo, perché i singoli gruppi stanno seguendo figure coordinate, si incrociano e si girano intorno, e le auto che arrivano, prima di parcheggiare, si godono spettacolo, alcuni escono dall’abitacolo e si uniscono a questo tripudio dark collettivo di periferia. Poi, sempre seguendo il ritmo, ripongono i carrelli, ritirano l’euro usato per sbloccarli, e si avviano verso le loro storie famigliari. Ma il pezzo dura poco più di tre minuti, e al momento di “you soft and only, you lost and lonely, you just like heaven”, questo flash mob che qualcuno ha organizzato in mio onore termina. Gli anziani tornano a indossare felpe colorate, quelle che le loro mogli li costringono ad acquistare così non sono costrette a stirare le camicie, i genitori a sgridare i piccoli perché non vogliono scendere dal carrello, le giovani coppie a programmare il loro giorno di festa. Tutto sembra tornare normale, ma no, anzi. Inizia “Bohemian like you” dei Dandy Warhols (la compilation, come vedete, era tutt’altro che tematica) proprio mentre mia moglie esce dal supermercato. Apro la portiera per aiutarla, lei capisce al volo e si avvicina sincronizzando i suoi passi con la batteria del pezzo e insieme, ballando, carichiamo quel poco che ha comprato. Ci sorridiamo, metto in moto e torniamo a casa.