eravamo già declassati prima

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mi fa male qui

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Capita che ogni tanto qualcuno mi chiami dottore. Al telefono, quelle (rare) telefonate di sconosciuti, telefonate di lavoro, che iniziano con “è il dottor 1gmt”? (con il mio vero cognome, naturalmente, che ometto per motivi di privacy anche se so che i miei venticinque lettori conoscono benissimo le mie generalità, ma meglio non correre rischi). Oppure quando cercano del “dottor Plus” (idem come sopra, con il mio nome). O ancora quando arrivano le e-mail, il cui incipit “Gentilissimo” seguito dalla carica mi scatena una bontà infinita, voglia di cordialità in corsia e di favori gratuiti al prossimo degente, mi vedo elargire pacchi dono a una fila di bambini in ospedale, la vigilia di Natale. E resto attonito, immagino me in camice bianco, lo stetoscopio che penzola dal collo. La colpa è che nell’ambiente business un po’ attempato si tiene molto al titolo professionale. Il novantanove per cento è Ingegnere, per il resto meglio non rischiare: signori, con la esse minuscola, lo siamo un po’ tutti. E con i clienti se chiami “Dottore!” non significa che ci sia un’emergenza, tutt’al più hai mirato troppo in alto, ma il destinatario, ringalluzzito, non ti correggerà al ribasso, col rischio di essere confuso per un ausiliario. Un dottore è sempre un dottore, “Megu megun” diceva il poeta. Mentre il mio titolo, inqualificabile quanto squalificante, non è così autorevole. Nessuna cura, nessuna visita, nessuna ricetta: scrivere non è prescrivere.

non chattate al conducente

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Proliferano su Repubblica.it le segnalazioni di autisti del trasporto pubblico che, in servizio, si dilettano in attività collaterali (e pericolose) alla guida. Le prove sono clip in cui i protagonisti sono ripresi durante conversazioni telefoniche, mentre scrivono sms, addirittura intenti in attività ludiche con l’ipad. L’autista duepuntozero dovrebbe rendersi conto che anche i passeggeri sono quasi sempre on line, oltre a essere quasi sempre senza biglietto.

non piacciono nemmeno a me

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Sul lunedì se ne sono scritte e dette di ogni. Ci guardiamo tutti in faccia, appena svegli, come a dire “ma siamo di nuovo qui”? Poi pensi all’ufficio, dove tutti puzzeranno di fine settimana, chi ha cucinato la sera prima e ha l’odore dello scalogno sulle mani, chi è stato al ristorante cinese con il partner e sa un po’ di fritto, chi ha trascorso due giorni fantastici al lago e sprigiona la sua essenza di felicità ovunque. Il segreto è partire alla grande, c’è scritto nell’intervista all’esperto di giornate faticose (come il lunedì) di turno sul grande sito di informazione, riportata in un articolo che si intitola come una delle più celebri canzoni pop sul lunedì. Il segreto è viziarsi con una colazione soddisfacente, coccolarsi indossando gli abiti che ti fanno stare meglio, e anticipare alla domenica precedente (ma occorre organizzarsi prima, ovvio) quello che si è deciso di iniziare la mattina dopo: una dieta, un fioretto (sic), una promessa alla persona amata. L’importante è non aumentare i disagi, la pioggia quando sei senza ombrello, i gradi in meno che non hai calcolato, le scadenze. E  tu che riempi la tazza del latte di cereali al miele e mi dici che non vuoi andare a scuola, dimmi come faccio a convincerti quando è così anche per me, è ancora buio e i gatti non sono soddisfatti della loro colazione, e penso che potremmo scappare tutti e tre insieme e marinare ciascuno le proprie responsabilità. Ecco, il segreto è partire alla grande.

odio dirti che te l’avevo detto

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Conoscete questa canzone?

Si tratta di “I hate to say i told you so”, uno dei brani più riusciti del gruppo svedese The Hives, il cui titolo sembra una tipica esclamazione di un personaggio immaginario noto al grande pubblico come Puffo Brontolone. Non a caso, un frammento della canzone si coglie nel trailer del film dedicato agli onnipresenti folletti blu, in visione nelle sale cinematografiche in questi giorni.

Non è la prima volta che sento uno dei miei brani rock preferiti nei film per bambini, e la cosa, seppur banale, mi ha già divertito in passato. E oggi ho avuto l’occasione di accompagnare tre minorenni a vedere i Puffi, non in 3D perché una delle suddette tre minorenni soffre di male al setto nasale (così mi ha confessato) quando indossa gli occhiali per gli spettacoli tridimensionali, che su di lei sembrano giganteschi perché, malgrado abbia otto anni e mezzo, raggiunge a malapena i ventun chili. Le ho accompagnate perché era il turno mio e di mia moglie. Si tratta di tre compagne di classe, una delle quali ha il mio stesso cognome, e, per dire, poche sere fa erano a cena da noi. Oggi al cinema.

Ma lo spettacolo non in 3D delle quindici e venti al multisala era sold out. Potete immaginare la ressa per i Puffi in 3D, sta di fatto che affrontare la coda immersi nella puzza dei popcorn e poi, sempre nella suddetta puzza, ammazzare il tempo fino allo spettacolo successivo non era un’impresa percorribile. Non li biasimo, tutti questi fanatici dei Puffi, oggi è domenica e piove a dirotto, sono sfumate tutte le attività organizzate per prolungare al meglio l’estate che da oggi non c’è più. Insomma, il tempo di controllare con la mia app preferita in quale altro cinema della zona proiettassero lo stesso film (la mia app preferita è un’amica che è a casa la domenica pomeriggio, ha un numero di telefono a cui contattarla e ha un collegamento domestico a Internet) e via verso il paesello vicino, dove il film è programmato per le diciassette.

Anche lì coda inumana, ma l’arrivo con oltre trenta minuti di anticipo ci ha messo al riparo da ogni rischio e ci ha consentito di scegliere, per le bambine, i posti migliori. Io e mia moglie ci siamo piazzati nella hall di quel piccolo cinema parrocchiale, libro alla mano, Pringles e Moretti a disposizione. Il film infatti dura quasi due ore, e dalle diciassette in poi ogni momento è buono per l’aperitivo.

Ma il mio libro in realtà era una copertura, lì nella hall di quel piccolo cinema parrocchiale; ho trascorso tutto il tempo con le orecchie ben tese a cogliere il momento del film con il sottofondo degli Hives. D’altronde si sentiva tutto, la sala non è perfettamente insonorizzata. Va da sé che di “I hate to say i told you so” nemmeno l’ombra, non ne ho percepito nemmeno una battuta, una nota, il prodigioso riff di chitarra, niente di niente. A meno che non mi sia davvero lasciato distrarre dalla lettura. La cosa peggiore è che mia figlia non è stata in grado di confermarmelo, le ho canticchiato il ritornello ma mi ha detto di no, quel pezzo lì non lo ha sentito, ha riconosciuto solo, verso la fine del film, “Back in black” degli Ac/Dc.

berghem

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Quello dal palco arringa alla folla, urla “Padaniaaaaaaaa!”. E la folla risponde “Liberaaaaaa!”. E lui ancora “Padaniaaaaaaaa!”, e la folla di nuovo “Liberaaaaaa!”. La politica riassunta negli slogan fa accapponare la pelle dall’imbarazzo, anche a noi riesce difficile nei cortei cantare a una voce lo spirito comune, perché la sintesi della sintesi della sintesi, alla fine una parola o due, lascia perplessi perché è sempre più distante dalla realtà. Le valli del dio Po, per esempio, sentono la stessa solfa da decenni. “Secessioneeee!” esclamano casalinghe e montanari avvinazzati, giovani idealisti e bikers borchiati e ingilettati, sempre più neri e sempre meno verdi. E a parte gli spokesperson che credono ancora in quello che rimane del Bossi e sono dati in pasto agli inviati dei tiggì, la base è tutta schierata con quelli che sì, va bene la libertà da Roma, ma leviamoci dalle scatole quel puttaniere. Ma la festa dei popoli padani è telegenica ugualmente e il rito dell’ampolla è ancora più retorico dello slogan. Ci vogliono decenni perché una tradizione diventi tale, ci vogliono nonni che raccontino ai nipoti della prima volta in cui venne celebrato il dio Po. Ma nessuno ammette la verità: il cammino intrapreso verso l’autodeterminazione del popolo del Nord ad oggi ha raggiunto solo un importante risultato, il nome in dialetto sui cartelli stradali. Il primo passo è compiuto.

weekend con il morto

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Mi piacerebbe sperare che questa fosse la volta buona. Quante volte oramai l’ho detto, anzi, l’abbiamo scritto? E poi c’è stato sempre qualcosa che ha fatto sfumare l’affare. L’incomprensione tra le fila dei nostri, il salvataggio dell’ultimo minuto, abbiamo scherzato e votiamo lo stesso la fiducia. Un paio di volte è successo, abbiamo anche vinto le elezioni successive, ma malgrado la leadership, le canzoni di Fossati e di Jovanotti, è stata sufficiente la coscienza integerrima del Turigliatto di turno per mandare all’aria tutto. Ora qualcosa di diverso c’è, a parte il naufragio economico che ci sta travolgendo. C’è che lui, a settantaquattro e ormai completamente sputtanato, mi si passi il termine, su tutti i fronti difficilmente potrà essere riciclato in qualche modo. E anche i suoi fedelissimi e l’elettorato che rappresentano, forse è giunto il momento in cui torneranno sommersi nell’ameno luogo sotterraneo da cui provengono, spinti se non dall’opposizione almeno dai loro ex alleati. Che, di questi tempi, sarebbe comunque un passo in avanti, vero? E io voglio sperare che questa sia la volta buona, perché è da tanto che anelo al suo tracollo politico. Ricordo ancora, era la fine del mese di marzo del 1994, ero barricato nell’allora mia casa di campagna con l’allora mia fidanzata ad attendere, con birra e patatine, fiduciosi i risultati delle elezioni politiche. E quella vittoria inaspettata mi rimase di traverso; stappammo un’altra birra, ricordo, e poi un’altra ancora seguendo alla tv il nostro Paese che aveva scelto di rovinarsi con le proprie mani. Meglio ubriacarsi che arrendersi all’evidenza dei fatti: lui li aveva convinti tutti, il volto nuovo, la discesa in campo, gli slogan calcistici. Il resto è storia ed è lungo e oltremodo complesso da riportare passo per passo. Dicevo che è da tanto che anelo al suo tracollo politico, perché al suo tracollo da essere umano auspico dalla prima volta in cui sentii i Rondò Veneziano su sfondo rosa shocking suggellare l’inizio dei programmi della sua visione di Italia.

la dura legge del salotto

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Carnage, il nuovo film di Roman Polanski presentato all’ultima edizione del Festival di Venezia, è un delizioso quanto spietato gioco delle parti tra due coppie chiamate a sottoscrivere un accordo per risolvere le conseguenze di una scaramuccia che ha coivolto i rispettivi figli undicenni: una lite al parco, una parola di troppo, un bastone usato come arma, due denti che saltano e un labbro rotto. I genitori della vittima, una coppia della classe media newyorkese, organizzano l’incontro riparatore presso il loro salotto con gli altri genitori, un avvocato al servizio delle multinazionali e una consulente finanziaria. La storia si svolge tutta lì in un’unica scena teatrale, ottanta minuti per un’escalation comportamentale interpretata magistralmente da quattro fuoriclasse. I padroni di casa, Jodie Foster e John C. Reilly, progressisti e idealisti, da una parte. Gli upper class, Kate Winslet e Christoph Waltz, snervati dalle continue telefonate di lavoro ricevute da lui, dall’altra. E se ai nastri di partenza ci sono i genitori di un ragazzino apparentemente problematico, figlio di un padre poco presente e già al secondo matrimonio, contro una famiglia solo apparentemente unita intorno ai valori dell’america democratica,  presto si scopre che la distinzione tra buoni e cattivi non è così definita. Man mano che la storia si dipana, le dinamiche tra i quattro, le parole di troppo, la finta cortesia, le accuse e i tentativi di conciliazione corrono per la stanza a formare nuove e impensate alleanze, mariti contro mogli o tre contro uno o battibecchi tra singoli e crisi interne alle coppie stesse. L’alcol e gli stereotipi culturali spuntano in alternanza a sottolineare i piccoli colpi di scena e le innaturali confidenze di sconosciuti che fanno e disfano allo stesso tempo il percorso narrativo, spostando continuamente il punto che potrebbe sancire o l’accordo o la definitiva rottura, in un continuo gioco al rilancio. L’impressione è di mettere il naso in una finestra altrui spalancata, la lite del vicino di casa che ti infastidisce e che ti spinge a impicciarti delle cose degli altri, diretta da una regia che fa correre gli occhi dello spettatore sul protagonista del momento, chi volta per volta tiene stretto il centro dell’attenzione e si attira le ire dell’avversario di turno. Il tutto per nulla penalizzato dal doppiaggio.

una leggerezza insostenibile

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La più eclatante contraddizione della nostra civiltà è la apparente incongruenza tra l’ipersalutismo sbandierato a destra e a manca (e le diete di qui e l’educazione alimentare di là e le palestre e il fitness esasperato e la lotta al cancro che passa anche dal controllo di quello che mangi) e la mostruosa disponibilità (nell’occidente del mondo) di prodotti alimentari, sconcertante quanto la pervasività del marketing e della pubblicità ad essi correlate. D’altronde con automobili di lusso e telefonia temo sia l’unica industria che non conoscerà mai flessione. Che poi si tratta di una contraddizione apparente perché l’obiettivo non è poi così nascosto: è il mercato, baby, che ti vuole spremere il più possibile. Prima, consigliandoti di ingollarne di ogni, e dopo, a pancia piena e borsellino vuoto, convincendoti che così in sovrappeso non puoi vivere, non puoi lavorare, non puoi avere amici, scordati il successo, e ti impone di sudare tutti i chili di troppo pagando profumatamente quel percorso a ritroso, che raramente riporta a destinazione e al punto di partenza, la tua forma fisica che in condizioni normali avresti.

Guardatevi attorno per capire perché il mercato (anzi il supermercato) ha fatto del peso in eccesso la peste del duemila. E poi c’è il fronte della patologia, che dilaga; un tempo era sufficiente non cadere in eccessi, probabilmente gli alimenti erano più genuini, bastava un minimo di movimento per i bambini affinché non iniziassero troppo presto con la tortura della dieta. Oggi occorre stare molto all’erta, perché la vita che conduciamo è quella che è, e in più c’è lo stress del modello vincente imperante: o così (magro/a) o sei tagliato fuori.

La differenza, tra allora e oggi, probabilmente la fa anche l’esistenza di Mtv. Perché questo fenomeno è diventato materia prima per l’ennesimo docu-reality “dedicato a ragazzi un po’ in carne che vogliono perdere peso prima di iniziare il college”. E capisco che il problema dell’obesità negli adolescenti (americani) sia di estrema attualità. Però messo lì, nel paradiso dell’immaginario commerciale adolescenziale, dove tutto è sexy e cool, fa l’effetto opposto. Così fuori luogo, magari dopo uno spot di McDonald o della bevanda gassata o dell’ennesimo prodotto di food entertainment seguito dalla pubblicità di abbigliamento trendy interpretato dalla modella taglia 38. Ecco, di incongruenze è pieno il mondo, le persone obese talvolta ne sono le vittime. E nulla riuscirà a convincermi che c’è qualcuno che si sta davvero prendendo cura di loro.

la provvidenza

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Sì, proprio lei, la Provvidenza con la p maiuscola che ricopre uno degli aspetti chiave dei Promessi Sposi. Ho riletto con piacere l’opera grazie alla riduzione di Umberto Eco per bambini che mia figlia ha preso in prestito in biblioteca e che ci ha tenuto compagnia durante le ultime serate. Nell’epilogo, Eco rilascia una spiegazione generale del romanzo e dell’intento manzoniano, toccando anche il ruolo della Divina Provvidenza introdotto per riaffermare la giustizia divina al momento giusto della trama. Quando per i buoni sembra non sussistere più una speranza di salvezza, ecco che arriva una terribile peste a far piazza pulita, punire i cattivi e promuovere i giusti, una visione in linea con i tempi ma, a posteriori, un po’ grossolana. Non per me. Ho pensato, infatti: daje, una bella Provvidenza anche ora, una manona che spazza via tutto. Voglio dire, anche la storia del crocifisso e della Minetti dovrebbe convincerli lassù di quanto sono zozzoni questi qui. Ma no, non ci siamo, così è un mix tra una piaga biblica e il video di “Black hole sun”, e poi è un tema inflazionato, c’è già il ventidodiciventidodici. Anche perché da lassù fare le debite distinzioni mica è semplice. Voglio dire, Don Rodrigo era un cattivo tutto d’un pezzo, facilmente identificabile, qui si rischia di andare per le lunghe a causa della quantità di comparse coinvolte. Già, un bel casino. Sono quasi più realistiche le elezioni anticipate.