quelli che nel secolo scorso si immaginavano il duemila con le macchine volanti chissà cosa direbbero oggi vedendo gli adulti girare in monopattino

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Quelli che nel secolo scorso si immaginavano il duemila con le macchine volanti chissà cosa direbbero oggi vedendo gli adulti girare in monopattino. Io quando vi vedo tutti impettiti sfrecciare con quel coso da bambini per le piste ciclabili addirittura con il caschetto in testa, in completo giacca e cravatta e lo zaino del pc sulla schiena mi verrebbe voglia di tagliarvi la strada e chiedervi se siete scemi. Senza offesa eh. Sappiate che non ci fate una bella figura e che dal punto di vista della reputazione siete appena una tacca sopra di quelli che hanno quella specie di biga a motore a due ruote che non so come si chiama e che vi rende simili agli struzzi. Quelli sono proprio di un’altra categoria e magari se avete qualche foto scattata in giro fatemela avere così possiamo fare un post monografico dedicato a loro. Appena sopra agli adulti in monopattino invece ci sono gli adulti con lo skate, a cui riconosco un pochino di dignità in più ma solo perché gli skaters hanno tutta una loro cultura a cui, finché non mi investono davanti alla Stazione Centrale, mi sforzo di dare autorevolezza. Poi legati agli skaters ci sono fior fior di cose belle scritte e viste al cinema a partire da “Paranoid Park” di Gus Van Sant, anche se a onor del vero si tratta di storie su skaters ragazzini mentre invece film su adulti sullo skate non ne ho mai visti, l’unica scena che ho in mente è il finale di “No – I giorni dell’arcobaleno” in cui René Saavedra si allontana usando la tavoletta a quattro ruote. Ho un amico adulto invece che si muove abitualmente nel tempo libero con lo skate ma di un modello particolare, praticamente molto più lungo del normale con la peculiarità che quando ti dai la spinta con il piede devi iniziare a ondeggiare con il corpo che se uno ti vede e non ti conosce pensa che non hai le rotelle tutte a posto, e non mi riferisco a quelle dello skate. Almeno questa è la spiegazione che mi ha dato precisando pure di averlo pagato una botta, perché la prima volta che l’ho visto su questo maxi-skate mi sono preoccupato per lui e anche un po’ vergognato della gente che mi vedeva in compagnia di un adulto che si muoveva come un deficiente piuttosto che usare una bici con i freni a bacchetta o andare a piedi come tutti i cristiani. Per i mono-pattinatori che non vogliono veder calare il loro indice di gradimento non ho quindi altro suggerimento se non virare su qualche altro mezzo ecologico normale e regalare il monopattino ai figli che sono sicuro si divertiranno di più (e potranno così vergognarsi di meno dei loro genitori).

agli appuntamenti della vita che contano in maglietta

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Non so dove abitiate e ognuno di voi dovrà ben fare il conto con vari fattori che riguardano latitudine, altezza sul mare, corrente del golfo e tutti quei fenomeni che si studiano in geografia sin dalle elementari. A tutto ciò ci tocca aggiungere uno degli hot topic del momento e, mai come qui a proposito di questo argomento, è proprio il caso di dirlo. Ma io vorrei porre la questione da un altro punto di vista che sta nei pressi di come, più che il clima, stanno cambiando i costumi. E il fatto che comunque faccia sempre caldo potrebbe proprio far chiudere la questione qui, sui costumi ma quelli da bagno. Sta di fatto che anche quest’anno quei bei maglioni che si vedevano in certi videoclip di matrice anglosassone, penso ad esempio ai Wang Chung di “Dance Hall Days” che immagino ricorderete tutti

Cattura

oramai non sono altro che cibo per le tarme e nutrimento per i nostri ricordi di un bel mondo antico che non esiste più in cui si doveva combattere con mani e piedi freddi, raffreddori e funzionali look a cipolla con mille strati da sfogliare a seconda dei gradi percepiti.

E vi dico questo perché sto scrivendo in mutande e maglietta, scalzo a piedi nudi su un pavimento dozzinale e scusate la visione trash della cosa, il punto è che ci restano cassettiere colme di abbigliamento invernale che oramai non possiamo più indossare e che anno dopo anno non buttiamo mai perché viviamo nell’illusione che tutto torni come prima. La nostalgia del secolo scorso non si manifesta solo per la società, la politica, cultura e musica a parte i Wang Chung di “Dance Hall Days”, ma riguarda anche quella separazione alla Kierkegaard tra le stagioni che era la principale certezza che avevamo. Non a caso, da quando è venuta meno ci troviamo molto più destabilizzati di quanto non ci rendano tali l’assenza di un partito di sinistra o di uno stato sociale o di David Bowie.

Così fa sempre troppo caldo e le caldane dell’andropausa non c’entrano. Fa sempre troppo caldo in casa, per strada, al lavoro e nei locali pubblici tanto che anche concetti come il cambio degli armadi risultano obsoleti. Io le t-shirt non le metto nemmeno più via d’inverno, per dire, perché in tutto questo fenomeno di trasformazione globale che chissà dove ci porterà, l’unica cosa che è rimasta tale e quale ai valori del novecento sono gli impianti di riscaldamento e alcuni inquilini dei cosiddetti piani esterni dei condomini – generalmente i primi e gli ultimi – che vivono ancora in piena guerra fredda e impongono temperature centralizzate infernali. Una situazione che io purtroppo non vivo solo in casa e che mi costringe a rinunciare ad alcune abitudini a cui sono affezionato a partire da film visti sul divano sotto al plaid, piumoni siberiani a letto e calzettoni da montanaro. In ufficio la cosa non cambia di molto e già in camicia a metà pomeriggio inizio a sudare come un maiale.

Fate tutti ciao quindi al global warming di cui è vent’anni che parliamo senza sapere bene di cosa si tratti. Tra le conseguenze del riscaldamento globale c’è l’aver trasformato un posto tutto sommato settentrionale come Milano in una spiaggi caraibica (e la presenza massiccia di sudamericani in giro giuro che non c’entra nulla) in cui uomini, donne, vecchi e bambini vivono gli ambienti interni in maglietta dodici mesi l’anno, un fenomeno che ha i suoi pro e i suoi contro. E quando vi vedo in giro ancora intabarrati nei vostri berrettoni di lana calcati sul naso quando ci sono dieci gradi mi chiedo davvero dove andremo a finire. Corriamo ai ripari, rimbocchiamoci le maniche anzi no, in t-shirt mica si può a meno che non abbiate quella discutibile abitudine di girarvi le maniche della maglietta sopra le spalle che davvero, non si può guardare.

nelle città si trova spesso gente interessante ma scendono* alla fermata prima o a quella dopo

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Nelle città si trova spesso gente interessante ma scendono* alla fermata prima o a quella dopo. Nelle città si notano donne eleganti ma che stanno aspettando qualcuno che è dietro di te. Nelle città accadono le coincidenze e i casi fortuiti ma spesso quando comunque sei già in ritardo e non ti puoi fermare. Nelle città ci sono occasioni per dimostrare le proprie qualità sempre che non passi un tram a ostruire la visuale a chi potrebbe farci caso. Nelle città ti ritrovi in coda in auto con a fianco la Mercedes del tuo cantante preferito ma ti suonano subito appena viene il verde. Nelle città le spedizioni degli acquisti on line possono arrivare anche quando gli uffici sono chiusi e poi si vive nel terrore che non ci sia data una seconda chance. Le città sono anche piene di opportunità che non si realizzano per vizi di forma. Nelle città poi nel caso si avveri un sogno all’ultimo si scopre che avevano sbagliato persona. Nelle città si ottimizzano tempi e spazi che poi restano vuoti e desueti e li occupano gli sbandati, i senza fissa dimora e a volte anche gli immigrati. Nelle città esistono ancora i portinai che lavano il marciapiede di tutti. Nelle città si fa la spesa con borse in materiale bio-qualchecosa che si rompe mentre attraversi la strada. Nelle città si corre in mezzo al traffico respirando oltre allo smog che si respirerebbe camminando normalmente anche quello che spetterebbe alle persone che ci precedono. Nelle città capita di trovare cose smarrite da altri e, a restituirle, chi le ha perse ha paura di stabilire empatia con chi si è preoccupato di rintracciare il proprietario. Nelle città se vedi tante ragazze insieme tutte vestite uguali è perché sono lì per un casting. Nelle città se stai alla finestra chi passa sotto e ti vede si spaventa. Nelle città ci sono i codici al posto dei cognomi scritti sui citofoni. Nelle città non ci sono più i negozi come ce li insegnano a scuola e se ti occorre qualcosa comunque devi avere almeno un euro per munirti di un carrello. Nelle città comunque non ci si veste in tuta se non fai dello sport e se hai il cappuccio della felpa tirato su sei uno che pratica la boxe. Nelle città ci sono persone che non sono mai state in certi quartieri, e gli abitanti di quei quartieri non conoscono gli altri e così via finché si chiude il cerchio. Nelle città l’equivoco di fondo è che non sai mai a chi chiedere le informazioni. Nonostante le città, ci sono i bambini e i vecchi e sono inconsapevoli che gli spazi non siano misurati sulle loro capacità. Nelle città si parlano lingue incomprensibili e quando riesci a impararle tutte dicono che impazzisci. Nelle città ci sono anche quelli che vengono da fuori e cercano di non dare nell’occhio. E sui confini delle città ci sono cartelli che ti indicano dove la città inizia e finisce, ci sono quelli che si fanno le foto come se avere l’esatta percezione di quella linea desse l’illusione di avere le città sotto controllo ma tutti sanno che è il contrario. Nelle città siete comunque i benvenuti.

* si, lo so, è un errore

ecco cosa accadrebbe se Google Streetview fosse fatto di parole e non di foto panoramiche

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Proprio davanti a Urban Fitness c’è un chiosco che vende frittelle calde. La palestra apre all’alba quando il chiosco è ancora chiuso, gli orari che rispetta sono infatti quelli milanesi. Alle sette c’è già gente che vuole mantenersi in forma per andare in ufficio con quella sensazione della fatica la mattina presto e poi la doccia rovente. Una sequenza che piace anche me ma che metto in pratica solo nei giorni festivi quando vado a correre, solo che poi dopo pranzo mi metto sul divano con un documentario di sottofondo e mi sparo almeno una pennichella di un’ora. Ecco perché in ufficio non credo che ce la farei a tirare fino a sera senza recuperare la fatica fatta prima di mettermi al lavoro. C’è un altro fattore. Dopo la palestra (o la piscina) alle sette del mattino e la doccia come minimo vi meritate una colazione all’inglese o comunque roba più soddisfacente di cornetto e cappuccio. E infatti è un vero peccato che il chiosco che a quanto dice l’insegna scritta a mano vende frittelle calde proprio davanti a Urban Fitness sia chiuso, a quell’ora dell’alba, perché passandoci davanti intravedo un po’ di clienti all’opera. Per me sarebbe un problema uscire da una palestra e trovarmi in prossimità di frittelle all’ora della colazione. Meno male che poco più avanti ci sono i portici che ospitano decine di homeless che trascorrono la notte lì, e non sembrano attratti né dal chiosco delle frittelle né dalla palestra che, vista da fuori, sembra un posto molto esclusivo. Ce ne sono alcuni messi davvero male. Altri invece sembrano sistemati dignitosamente, con delle coperte pulite rimboccate addirittura sotto il fatiscente materassino che li separa dal fondo. Li accomunano le vetrine delle filiali di multinazionali o banche sotto le quali si sono messi ordinatamente in fila per dormire. Uno che sa l’inglese ha lasciato un bicchiere con un biglietto con su scritto, in inglese appunto, aiutatemi a tornare a casa. Il bicchiere manco a dirlo è vuoto, resta un mistero se prima era pieno e qualcuno, approfittando della notte, ha fatto sparire l’elemosina. Via Pisani a Milano raccoglie come vedete più dimensioni, anche da un punto di vista architettonico, tutto ciò ne fa la mia via preferita e non sono il solo: lo spartitraffico tra le due corsie è un set perfetto per le foto di moda perché lo scenario riassume in sé tutte le contraddizioni di questa città.

quando trovi nebbia già a Novi Ligure fino a Milano

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Nessuno ha ancora capito che il vero problema dell’aria di Milano non è tanto l’inquinamento quanto il fatto che quando porti la focaccia su da Genova diventa subito spugnosa. Se avete mai mangiato la specialità ligure al di qua dell’appennino sapete a cosa mi riferisco, perché già a partire dall’entroterra se vogliamo fare un viaggio eno-gastronomico verso nord non è che i panettieri non la facciano, è che assume quella consistenza che noi gente di mare chiamiamo “mandrogna” un po’ con il disprezzo con cui ci si riferisce alle popolazioni a metà percorso tra Genova e Milano. Probabilmente l’equivoco di fondo è che esistono posti come Novi Ligure che della Liguria non hanno proprio nulla a partire dal fatto che sono in provincia di Alessandria, o almeno lo sono stati finché l’istituzione delle provincia è esistita. E sempre probabilmente – queste sono tutte mie congetture, non provate queste considerazioni a casa – Novi Ligure si chiama così perché un tempo era il massimo di Pianura Padana che certi liguri riuscivano a concedersi e, quindi, in cui riuscivano a spingersi ma solo perché ci abitavano vecchi zii di parte paterna emigrati lì solo perché c’era l’Ilva. Così si andavano a trovare ancora prima che costruissero la Voltri – Gravellona Toce, quindi svalicando arrampicandosi lungo la Serravalle che già, dopo la prima galleria, generava mal di schiena ai nostri genitori al volante per l’umidità. Premesso che ho molti amici di Novi Ligure, le domeniche invernali a Novi Ligure dopo il pranzo a base di cappelletti in brodo e arrosto dalla zia comprendevano lo smaltimento della pesantezza con quattro passi nel clima inospitale, in quel centro così intriso di provincia e in quel territorio così poco accogliente, che visto da qui altro non era che un assaggio della Pianura Padana come l’avrei conosciuta anni dopo, con la sua operosità, la sua efficienza, i suoi accenti da comanda al ristorante e la sua nebbia che, come in questo momento, fa sembrare Milano come una di quelle città cinesi viste dall’alto, con l’aria intrisa di roba irrespirabile che ti chiedi, davvero, come è possibile che nella notte dei tempi qualcuno abbia deciso di stabilire un nucleo abitativo qui. Forse era gente emigrata da Novi Ligure.

il commessaccio: breve guida ai rapporti interpersonali tra gli addetti alla vendita dei negozi di libri usati e i clienti motivati a metter mano al portafoglio

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Siamo talmente provati dal fatto che il mondo si regga solo su rapporti economici e non su altri ideali più romantici come l’amore, la pace, l’etica ma anche il sesso o la cultura, che quando nascono iniziative private che scelgono un marketing basato sul’umanizzazione dei propri prodotti o del modo in cui fanno affari non capiamo più niente. Non dico che chi sostiene di stare sul mercato con modalità più rispettose per il cliente o anche l’ambiente, per esempio, racconti delle balle. Aggettivi come equo e solidale oppure i concetti stessi di impatto zero e chilometro zero catturano la nostra attenzione sulle etichette oggi come mai accaduto nella storia dell’economia.

Ci sono realtà che poi fanno le stesse cose che fanno tutte le imprese, ovvero vendere per guadagnare, ma in modalità diverse, più sostenibili (altro termine chiave per interpretare la contemporaneità) o anche apparentemente di rottura con quelle tradizionali. Un filo conduttore che unisce multinazionali e bancarelle che partecipano alle feste fricchettone e che fa breccia nell’opinione pubblica di un certo tipo stufa dell’approccio intriso di sfruttamento delle risorse naturali e del lavoro dell’uomo. Basta solo ricalibrare qualche ingranaggio di questi sistemi produttivi, non è molto difficile.

Noi popolo di consumatori consapevoli ci aspettiamo però che in queste organizzazioni dalla faccia pulita che salveranno il mondo dall’implosione ci lavorino persone come noi: informate, di una certa cultura, con lo stesso orientamento elettorale, e anche con quella facilità all’empatia con il prossimo bisognoso che contraddistingue la nostra statura morale. In poche parole gente simpatica, alla mano, pronta ad aiutare il prossimo – che nel commercio è sempre quello con la tessera bancomat in mano pronto a digitare il PIN – e attenta alle parole, ai gesti, alla cura nelle relazioni con le persone. Che poi è un po’ quello che crediamo ci sia dovuto dalle istituzioni pubbliche, per esempio. Dalle organizzazioni di beneficenza, al limite. E se già queste dinamiche è difficile trovarle in questi contesti, figuriamoci nell’impresa privata anche se mascherata da tutti quei bei valori che abbiamo ricordato sopra.

Arrivo alla conclusione. C’è una catena di negozi il cui core business consiste nella vendita di libri usati. Ce n’è almeno uno in franchising in ogni città, qui a Milano se ne trovano diversi. Un’idea imprenditoriale intelligente perché acquistano i libri di cui ti vuoi sbarazzare per una sciocchezza e poi li rivendono alla metà o giù di lì del loro prezzo di copertina. Tu te ne liberi, ci raggranelli pure qualcosa, loro ci fanno la grana, mi sembra una maniera intelligente per evitare sprechi della carta, favorire il riuso dei beni, l’Amazzonia e cose così. Se io avessi un’azienda di questo tipo, un baluardo dell’economia del riciclo e della salvaguardia degli stipendi degli italiani con i figli che ogni anno cambiano testi scolastici o che comunque come tutti devono fare i regali di natale, se fossi a capo di un’azienda di questo tipo farei però molta attenzione nella selezione del personale. O magari loro la fanno, e per tenere a bada un popolo che crede che le imprese private debbano fare il bene comune e che quindi al popolo che vende e compra libri e fumetti usati sia tutto dovuto, scelgono accuratamente e appositamente delle teste di cazzo.

da sei piani in su chiamateli grattacieli

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Dietro casa mia stanno tirando su un palazzone, uno dei tanti. Ma questo si nota di più degli altri perché dà su una strada ed è strano che un terreno così strategico non fosse stato ancora reso edificabile fino ad ora. Cioè strano per modo di dire perché prima faceva parte di un parco agricolo ma alcuni lotti sono stati venduti e quello, adiacente la strada, deve aver fruttato – almeno spero – un bell’affare al comune da restituire in servizi a noi cittadini.

Ma il palazzone che stanno tirando su dietro casa mia si nota anche perché è di sei piani, mentre a quanto vedo qui intorno raramente si superano i quattro o i cinque. Un palazzone di sei piani implica strutture di supporto più alte del normale, a partire dalle gru imponenti che spostano blocchi da millemila tonnellate sopra gli altri caseggiati. La gru e il tetto ancora in costruzione si vedono anche da distante, il che non fa certo onore al paesello in cui ho la residenza. Non ne faccio una questione etica, se l’edilizia tira l’economia rinunciare a un paio di campi ci può stare, a patto che intorno alle nuove case l’impresa si impegni ad allestire opere di uso comune. Un parchetto. Una rotonda per snellire la viabilità. E infatti nel caso del palazzone è successo così. Ora abbiamo un po’ meno di parco agricolo e una rotonda in più.

Come a rimarcarne la mole, nelle prime fasi dei lavori su ognuno dei piani compariva il numero relativo, e non essendo del mestiere mi sono dato due spiegazioni. Intanto per chi ci lavora, e ci lavora gente di ogni dove, avere un riferimento semiotico per evitare errori in corso d’opera ci sta. Magari non tutti conoscono la numerazione in albanese, in rumeno, in napoletano, in serbo, in bosniaco, in arabo. Così avere un’indicazione comune da fornire alla manodopera può essere a tutto vantaggio dei capi cantiere.

Ma scommetto che c’è anche lo zampino del marketing. Passi lì sotto, conti da uno a sei, e pensi che si tratta di una grande opera come il MOSE o il Ponte sullo Stretto, altro che le palazzine bifamigliari che sono capaci tutti, qui siamo già nel terreno (ex parco agricolo) di competenza dell’ingegneria che progetta i grattacieli. Così ti viene da andare a leggere di che impresa si tratti, chi è il geometra-star che ha ideato il tutto, vai a casa e pensi che il giorno in cui dovrai affidare una lavorazione simile a qualcuno sai già a chi ti rivolgerai.

E sono certo che il marketing di quell’impresa edile è davvero una forza perché, ora che siamo sotto natale, si sono sbattuti come pochi a rivestire la parte ancora da finire del palazzone di sei piani di lucine e led che di notte le noti da chilometri. Sei piani di cemento armato addobbati come un gigantesco albero residenziale di città. Anche in questo caso i pareri sono discordanti. I più critici, che sono quelli che continuano a lamentarsi per il pezzo di parco agricolo in meno, dicono che è un’oscenità, un mostro con un impatto di inquinamento luminoso senza confronti, superiore anche a quello del mio vicino del quarto piano che già lo riconosci negli altri periodi dell’anno perché ha un sistema di luci colorate in salotto verdi gialle rosse e blu che davvero non capisco se non si vergogni. Non vi dico sotto le feste come concia il balcone, mettendo fuori un trionfo deplorevole di luminarie che ha un impatto pessimo sul decoro della facciata comune.

Io invece, mentre al mio vicino del quarto piano gli farei levare tutto, penso che l’impresa edile abbia rivestito il palazzone di sei piani di luci in segno di riconciliazione con il quartiere, con gli abitanti delle case adiacenti, con il comitato per il parco agricolo, con gli ecologisti tout court. L’impresa poteva lasciare tutto il palazzone che è ancora in fase di finitura al buio, quando viene sera, sotto le feste. Invece così sono certo che abbia voluto dirci qualcosa. Il messaggio, secondo me, è che anche loro sono dalla nostra parte, che lì dentro ci abiteranno degli esseri umani come il mio vicino del quarto piano, e che se si sta a vedere tutto purtroppo non si va da nessuna parte.

cronache dal collo di bottiglia

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In Italia non è difficile ravvisare i rimandi al calcio presenti nelle grandi come nelle piccole cose. Pensate alle numerose metafore nel linguaggio, nella nostra narrazione del quotidiano, in cose più istituzionali come la politica o la cultura aziendale. L’iconografia, poi, non ne parliamo. Ma quando a indossare tute e accessori della squadra del cuore sono i bambini qualche domanda dovremmo porcela. Che male c’è, direte voi. Nessuno, vi risponderei, ma vi giuro che la sensazione che provo è la stessa sia quando vedo un bimbetto con la maglietta dei Ramones che una bimba con il berretto del Genoa. Se poi siamo a Milano, il copricapo rossoblu dà più nell’occhio, e può venire il dubbio che non sia del Bologna o di qualche altra squadra dagli stessi colori sociali. Il che è un controsenso: i veri campanilisti non dovrebbero accettare di usare vessilli cromaticamente analoghi ad altre compagini sportive, e nemmeno lasciare che i residenti sul territorio ostentino bandiere o indumenti riferiti ad altre squadre. Comunque, ci crediate o no, la bimba con il berretto del Genoa l’ho vista con questi miei occhi, stretta come me in mezzo a una folla concentrata in un collo di bottiglia urbano causato da uno degli svariati scioperi del trasporto pubblico come quello di ieri l’altro. L’ho vista vulnerabile malgrado il padre la tenesse per mano, d’altronde di questi tempi la preoccupazione che proviamo nelle situazioni di calca ha raggiunto il massimo dai tempi dei rifugi dai bombardamenti. Ecco, a proposito, in quel collo di bottiglia io avevo un ragazzo barbuto dai lineamenti arabi al mio fianco che spippolava con un’app di scommesse sportive con il suo smartcoso, e me lo figuravo urlare all’improvviso il suo grido di vendetta e pigiare il tasto fatale sull’iPhone per fare un macello tra quelle centinaia di persone dirette alle loro attività quotidiane. Ce n’erano due poco avanti travestiti da Mario Bros, si provavano e riprovavano occhiali baffi finti e cappellino rosso, e capisco che sia un lavoro anche quello ma non so, se dovessi farlo io non mi sentirei molto disinvolto tra la gente, sarà perché mi piacerebbe ricoprire ruoli di maggior responsabilità. Non che Mario e Luigi non ne abbiano, sia chiaro, sebbene la mansione dietro a quei due ragazzi travestiti non ho dubbi a scommettere che potesse essere solo di una tacca o due sopra la consegna dei volantini dei supermercati nelle cassette della posta, premesso che ho qualche amico che consegna dei volantini dei supermercati nelle cassette della posta. Invece l’arabo scommettitore ha guardato malissimo me anziché i due Mario Bros ma poi ho scoperto perché, aveva la mia borsa dello sport piantata nel fianco, ma invece di arrabbiarsi con me si è messo a imitare la voce stridula di una signora alle soglie della pensione che voleva accelerare l’uscita collettiva da quel posto. Ecco, io non farei mai colazione in uno di quei bar sotto le stazioni della metro, transitavo di lì per caso, e sappiate che non mi sentirei mai a mio agio a bere un caffè nemmeno indossando un cappello della Sampdoria.

diamo una seconda opportunità a Rozzano

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Io a Rozzano non ci sono mai stato. Se, come me, vivete nella periferia milanese, non è che si ha tutta questa voglia di fare gite turistiche negli altri paeselli dormitorio della periferia milanese. Un po’ perché c’è ben poco da vedere. Spesso gli antichi borghi con le tipiche case e cascine a cortile sono stati soppiantati dall’edilizia popolare, agevolata e privata, in molti casi gli antichi borghi non c’erano nemmeno prima perché tutto è stato costruito dagli anni 60 in poi. Per scherzare quando passo con la mia famiglia davanti a una delle numerose chiese in cemento armato, io che ho vissuto in uno dei centri storici italiani più antichi e significativi, commento l’opera (ma solo per fare quelle battute stupide che fanno i papà, mica per sembrare presuntuoso) inventandomi lo stile architettonico: il gotico pop, oppure il barock-and-roll, per dire che se anche uno volesse cercare un po’ di pace in un luogo sacro non deve contare sull’aiuto della componente artistica dei luoghi di culto, insomma ci siamo capiti.

Il fatto che molti di questi paesi, come il mio ma anche come Rozzano, anche se a Rozzano non ci sono mai stato, siano caratterizzati da questa estetica approssimativa io me lo spiego perché la funzionalità di certi paesi della periferia milanese è solo quella di raccogliere abitanti di ritorno dal lavoro. La gente rientra a Rozzano o nel paese in cui vivo io dopo una giornata trascorsa al lavoro e va a prendere i figli che sono dai nonni o al tempo pieno o all’allenamento, prepara cena che è già buio, accende Sky e poi crolla sul divano prima di trascinarsi a letto. Che ci importa, a noi di periferia, di avere cose da guardare se tanto guardiamo solo la tv o stiamo a conoscere il mondo sui socialcosi.

Già al fatto di abitare a Rozzano o nel paese in cui vivo io dovrebbe corrispondere un’indennità. Attenzione: non cambierei mai residenza e domicilio, sto benissimo dove sono e mi ci trovo completamente a mio agio, molto più di quel centro storico antico e significativo – per giunta in riva al mare – in cui ho abitato prima di trasferirmi qua. Questo per fermare in tempo i commenti tipo “e allora perché non te ne ritorni a casa tua”. L’indennità non è tanto per sopportare il luogo, ma per sopportare gli abitanti. Gli abitanti del paese in cui vivo io, che potrebbe essere Rozzano, me compreso o almeno quelli che si sono visti in tv nei talk show a dire la loro sulla vitale querelle “astro del ciel in classe si/astro del ciel in classe no”, ecco: siamo noi che rendiamo i luoghi invivibili. Siamo noi la complessità del presente, gli ostacoli allo sviluppo, il motivo e non la conseguenza della crisi economica, la classe dirigente che va a cantare “astro del ciel” in segno di solidarietà. Siamo noi la riproduzione in gesso del bambinello in scala 1:1 da venerare, siamo noi i viva il duce, gli spintoni ai giornalisti, la semplificazione radicale della realtà e della sua interpretazione, l’incuria e il pressapochismo, il linciaggio su Facebook, Facebook stessa. Siamo noi i cristiani, i musulmani, i vegani, gli animalisti, gli interisti e i milanisti e persino gli juventini e il dialogo che ci manca. Siamo noi a creare la periferia di Milano, dell’Italia e del mondo intero, e non viceversa. Siamo noi a sud di tutto, perché siamo noi i primi a dare un’accezione negativa al concetto di meridione che, peraltro, in molti casi è ben radicato nella nostra stessa storia. Nel nostro DNA. E già Rozzano, se non lo sapete, è a sud di Milano.

avevo scritto birra alla spia, ma non è valido come gioco di parole quando si tratta di un lapsus

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Non ho mai detto a Enzo, il proprietario del bar qui sotto, che appendere un cartello fuori con scritto “birra alla spina” quando poi dentro hai uno di quegli scatolotti di plastica della Beck’s non è proprio trasparente come messaggio. Voglio dire, il risultato credo che alla fine sia lo stesso; non sono del mestiere ma immagino che collegati da qualche parte ci siano i fusti con il liquido. Di certo quei bei macchinari con le leve che sembra di essere alla guida di una locomotiva sono tutta un’altra cosa, almeno da un punto di vista scenografico. Io vado da Enzo a bere il caffè proprio perché mi aveva attirato l’insegna della birra alla spina, poi a dire la verità non l’ho mai presa perché bere a pranzo e rientrare in ufficio è sconveniente. Molto spesso, mentre mi trattengo lì qualche minuto prima di mettermi al lavoro, incrocio quei due sui quali a Enzo piace spettegolare nemmeno fosse un portinaio, premesso che ho molti amici portinai. Hanno lo stesso nome e sembra siano amanti, non si sa bene se siano colleghi ma comunque sono impiegati in società con sede dalle nostre parti. Hanno fatto per anni, infatti, la stessa strada per raggiungere l’ufficio. Lei sempre con passo un po’ più spedito e lui nelle retrovie sempre con i suoi borsoni da piscina. Poi lui deve essersi affezionato a quella dinamica tanto che, giorno dopo giorno, ha iniziato ad accelerare per portarsi sempre più a ridosso fino a quando un mattino Enzo li ha visti svoltare l’angolo affiancati, alla faccia del paradosso di Achille e della tartaruga – Enzo ha detto proprio così, si vede che oltre ai panini che prepara mastica anche un po’ di storia della filosofia antica. Mentre procedevano allineati lui le parlava, sembrava proprio la prima volta perché lei, che aveva già capito tutto, continuava a sistemarsi la sciarpa. Nemmeno una settimana ed erano già alle otto in punto a fare colazione insieme da Enzo, e da allora sembrano inseparabili almeno in quell’anticamera della vita costituita dai rimasugli di tempo tra gli impegni e le cose davvero importanti. Enzo ha anche un po’ di foto sulle pareti di quando era giovane e addetto alla ristorazione alle prime armi e le immancabili testimonianze delle celebrità che sono passate di lì per un po’ di ristoro urbano. Qualche calciatore delle squadre milanesi, Enrico Ruggeri vestito anni 80 e persino due campioni di basket, che a malapena stanno nella cornice appesa sopra al frigo dei gelati, tanto sono alti.