Credo di aver sgamato una tecnica di marketing non del tutto trasparente adottata dalla filiale locale di un’agenzia immobiliare tra le più conosciute sul mercato. Hanno fissato con i laccetti di plastica alla ringhiera che delimita l’esterno del condominio in cui abito uno dei loro cartelli plastificati in cui pubblicizzano la presenza di un appartamento in vendita, nella versione in cui comunicano che l’immobile non è più disponibile. Una vistosa scritta trasversale “venduto” copre infatti i dettagli dell’annuncio. Il fatto è che non c’è nessuna casa in vendita e so per certo che non c’è stata alcuna transazione, di recente. Questo significa che sotto l’annuncio “venduto” non c’è scritto nulla – tanto comunque non si vede – e il cartello è stato messo lì solo per essere notato dai passanti che, in un momento in cui il mercato del mattone a Milano è letteralmente impazzito, si continua a costruire edifici nuovi con i boschi verticali e piazzare una modesta unità abitativa di periferia non nuova senza rimetterci è pressoché impossibile, dicevo che i passanti possono leggerlo e pensare “và che bravi, questi di XXXcasa, che riescono a vendere a qualcuno un appartamento di un posto come questo in cui non ci verrebbe a vivere nessuno. Che ne dici cara se contattiamo loro per mettere in vendita anche il nostro?”. Almeno, io l’ho interpretato così, un vero e proprio colpo basso dei misteriosi “men in blue”. Avrete credo fatto caso al fatto che, malgrado i colori aziendali delle più blasonate agenzie tendano al verde, l’outfit da battaglia tra gli operatori del settore, specie quelli che lavorano sul campo, impone un all blue. I men in blue hanno a malapena vent’anni ma si atteggiano ad adulti vissuti e girano rigorosamente con il tablet in mano. Mi sono chiesto come facciano quando piove e se non sia più conveniente ricorrere a uno zaino o una ventiquattr’ore anche se sono consapevole che, così, il tablet non si vedrebbe e la gente non coglierebbe la modernità del loro modello di business. In una borsa potrebbe esserci un’agenda cartacea o, peggio, il Tutto Città.
luoghi e non luoghi
stato di pulizia
StandardNel mio condominio abbiamo cambiato, da qualche settimana, l’impresa che si occupa delle pulizie. Una novità che mi ha portato a qualche riflessione. La prima è che è difficile valutare se chi pulisce le parti comuni di un edificio sia in grado di svolgere correttamente il proprio compito. Io passo per i ballatoi, scendo le scale e imbocco l’ingresso solo per uscire di casa o quando rientro e, in genere, non bado molto a quello che vedo. Nel primo scenario sono sempre di fretta, ho mille cose per la testa, spesso ho la differenziata da buttare che mi ingombra le mani, penso a dove ho parcheggiato il giorno prima e così via. Mentre rientro, invece, nella maggior parte dei casi sto tornando da scuola e ho la testa sottosopra, e l’ultima delle mie preoccupazioni va a ciò che mi circonda e ai relativi dettagli.
Ma, anche se mi impegnassi in una valutazione del livello di igiene, non saprei proprio da dove cominciare. Negli spazi di transito, dove camminano gli inquilini, i pavimenti tirati a lucido durano poco. Non capita mai di percepire cattivo odore, soprattutto da quando indossiamo la mascherina. Nemmeno quando la famiglia del primo piano trasferisce dai propri contenitori domestici i sacchetti della spazzatura sullo zerbino e li lascia lì, in attesa di gettarli nell’apposito vano condominiale dedicato al generico – una consuetudine a dir poco deplorevole – si sente puzza di qualcosa.
Non so nemmeno perché, giunti a un certo momento, un consesso condominiale deliberi un cambiamento di questo tipo, quali i presupposti, chi proponga un nuovo fornitore e con quali requisiti. In più, con il turn over che caratterizza le organizzazioni di questo settore, non mi sono mai preoccupato dell’avvicendamento tra gli operatori. Così, rendersi conto se l’appalto se l’è aggiudicato qualcun altro rispetto a prima, è pressoché impossibile. Questa volta, però, ci sono stati segnali espliciti.
La nuova impresa ha disposto, nel locale di accesso alla scale, un kit completo di prodotti igienizzanti, comprensivo di salviette monouso e di dispenser per il gel. Ieri, addirittura, è comparso uno di quegli erogatori automatici a pile con il sensore che attiva la discesa del prodotto quando rileva la presenza delle mani sotto. Spesso si vede a dar man forte al personale un signore avanti con l’età che dev’essere il proprietario dell’impresa o comunque un pezzo grosso a livello societario. Già due volte mi ha fermato nel portone per farmi notare le salviette e il gel messi in condivisione gratuitamente. Poi mi chiede se siamo contenti del servizio, che è una domanda a cui sinceramente non so rispondere. Voi che parole usereste se vi trovaste nella mia condizione? Io, lo sapete, punto tutto sulla gentilezza e sul dire agli altri quello che si vogliono sentir dire pur di non far soffrire il prossimo. Così gli rispondo che siamo davvero soddisfatti del modo in cui puliscono.
Addirittura qualche giorno fa mi ha chiesto se noto delle differenze rispetto a prima, e a quel punto sono andato in crisi perché, come ho detto prima, sono dettagli a cui non presto assolutamente attenzione. Ho cercato però di essere lo stesso convincente puntando su una cosa che, effettivamente, avevo riscontrato. Da quando fanno le pulizie loro è impossibile non fare caso a un profumo fortissimo, appena si apre il portone. Un odore di deodorante per ambienti che, probabilmente, è gradevole se profuso in quantità appropriata. Ma, in quel modo acriticamente massivo, risulta persino stucchevole. Il fatto è che non so se sia un problema mio, in quanto sono particolarmente sensibile agli odori, quelli buoni e quelli nauseabondi. Quindi non ho posto la questione con nessuno ma l’ho tenuta per me, anche perché temo che i vicini di casa che incontro più spesso siano tra i più accesi sostenitori del cambio di corso nella scelta dell’impresa di pulizie e, come dicevo, non voglio deludere nessuno.
L’uomo delle pulizie, anzi, il boss delle pulizie, mi ha chiesto se ho avvertito delle differenze rispetto a prima e gli ho risposto che sì, da quando sono subentrati all’impresa precedente c’è un profumo buonissimo di pulito. Ora, vi prego, fate tesoro della mia esperienza: mai dire a qualcuno che lavora nelle pulizie che gli ambienti che pulisce profumano. Il boss delle pulizie si dev’essere infatti un po’ risentito perché ha rimarcato il fatto che il buon profumo – che è una proprietà dei prodotti utilizzati – non è indice di un lavoro fatto bene. Anzi, il buon profumo potrebbe essere un sistema per dissimulare una pulizia approssimativa. Ci ha tenuto a evidenziare diversi particolari del loro modo di pulire un condominio e, malgrado fossi di fretta, non me la sono sentita di interrompere quella lectio magistralis.
Prima di congedarmi però gli è tornato il sorriso, come a chiarire il fatto che fino a pochi istanti prima era stato semplicemente serio e non irritato perché, quando parliamo del nostro lavoro, solo così possiamo trasmettere l’autorevolezza e la nostra esperienza nel settore, e mi ha fatto dono di una mascherina lavabile incellofanata che teneva nella tasca. Poi ne ha estratta un’altra, pochi istanti dopo, dicendo che era per mia moglie. Un gesto che mi ha colpito anche perché non so come facesse a sapere che sono sposato.
E il bello è che rincasando qualche ora più tardi, il profumo su per le scale era ancora più invasivo. Il punto è che nel mio appartamento, da qualche settimana, c’è un odore stantio che non capiamo da dove provenga. Un odore di chiuso, uno di quelli che si sentivano nelle case dei nonni quando eravamo bambini, non so se avete presente. Abbiamo pensato che la causa possa essere il detersivo che mettiamo a disposizione della signora che fa le pulizie da noi, perché l’odore è particolarmente forte proprio nel giorno in cui viene qui, ma non può essere. Anzi, il fatto che si senta più forte è forse dovuto al contrasto con il profumo di pulito. Potrebbero essere le piante che abbiamo in casa, che per qualche motivo ci stanno mandando dei segnali di sofferenza. Potrebbe essere una macchia di umidità che abbiamo scoperto nel corridoio, dietro l’armadio, in cui si è formata un po’ di muffa. Potrebbe essere il nostro odore perché stiamo diventando vecchi. Potrebbero essere delle entità aliene che si manifestano così e che nessuno può vedere o sentire in altro modo.
Così, se non fosse per il rischio di far scappare la mia gatta, lascerei la porta d’ingresso spalancata per far entrare un po’ dell’aria che c’è fuori di qui in cambio di quella che si respira dentro. Per fortuna l’estate è alle porte e a breve potremo lasciare finalmente le finestre spalancate, è sempre bello procrastinare la soluzione a un problema, quando non la si trova.
con le stelle
StandardMettere le canzoni giuste al momento giusto è un vero talento. Anche qualche istante dopo rispetto a quando servono ci si può accontentare, fino a qualche anno fa abbiamo convissuto con una latenza oggi inammissibile. L’unico rammarico sono, al limite, le occasioni perse. Conosco la signora Polina perché faceva le pulizie ai miei vicini del piano di sopra. Ora è ingaggiata come badante a tempo pieno in una di quelle famiglie in cui sembrano essere tutti vecchi da sempre. Polina è in piazza con uno dei nonni o zii di cui si prende cura, circondata da una decina di anziani. La donna brandisce uno smartphone che trasmette un video sulla guerra, una scena che di questi tempi rischia di cadere nell’ordinarietà. Il problema è che Polina è russa e cerca di convincere le persone che ha intorno che la colpa è di quella specie di comico ballerino ucraino che non la racconta giusta. Il suo nonnetto non ha un’opinione, ma uno degli altri ottuagenari sostiene che è non possibile che, quella di Zelensky, sia tutta una messa in scena per provocare Putin. Sto per chiedere chiarimenti ma una mamma con una bambina mi distraggono dal dire la mia sulla crisi politica mondiale. La figlia racconta alla madre, a cui dà la mano, che domani ha il compito di realtà a scuola. I piccoli sono quelli più penalizzati dai grandi cambiamenti come una riforma sbagliata dell’istruzione, una pandemia, una guerra. A noi adulti, responsabili del loro disagio, piace comunque sfoggiarli in pubblico lo stesso. La mia teoria è che anche i peggiori ceffi, quando spingono un passeggino, rivelano un’aria dignitosa. Anche quelli con la faccia da tossico, i tamarri o i peggio vestiti, se li vedi a spasso alla guida di un bambino sprigionano tutta la loro potenzialità di persone affidabili. Intorno a noi c’è il solito tripudio di bandiere arcobaleno, solo che al posto di andrà tutto bene ora c’è un laconico augurio di pace. Che sfiga. Prima le mascherine, ora il rischio della terza guerra mondiale. Ripenso al film di ieri sera, il remake italiano di quella storia con Robert De Niro e Meryl Streep che si innamorano sulla metro. In questa riduzione per la nostra sensibilità i due non concludono un bel niente perché, appena si diffonde il Covid, ad entrambi viene concesso il telelavoro e addio treno delle otto. Si vedono l’ultima volta al supermercato, la settimana prima del lockdown, davanti alla vetrina frigo delle verdure confezionate. Qualche giorno dopo chiude tutto e il film finisce così. E la canzone giusta al momento giusto è proprio quel pezzo degli Üstmamò, quello che dice
Che bella cosa
che lieta meraviglia
non ci è toccata
né guerra né miseria
sedici
StandardSe mio papà oggi fosse vivo guiderebbe una Dacia Duster alimentata gpl. Anziché andare in pensione aveva accettato una consulenza in un’azienda che aveva lo stabilimento in un paesino dell’Appennino. Questa era la motivazione ufficiale che rilasciava a chi gli chiedeva perché, in concomitanza con il nuovo lavoro, avesse cambiato auto acquistando un fuoristrada 4×4. Raggiungere l’ufficio con le strade innevate poteva essere rischioso per una berlina. Il fatto è che l’unico modello che si era potuto permettere era la Lada Niva, una specie di Fiat 127 rialzata con le ruote da pick-up, la perfetta sintesi tra sobrietà sovietica e tracotanza a stelle e strisce, il punto di incontro a motore tra NATO e Patto di Varsavia. Il muro era appena crollato rovinando con le sue macerie su quello che rimaneva del comunismo, ma quella di mio padre non era una scelta ideologica – era tutt’altro che di sinistra – piuttosto dettata unicamente dal budget a disposizione. Ma il punto non è quello. Alla base di quell’acquisto c’era l’idea di percorrere senza rischi la strada sterrata in salita che portava alla nostra casa di campagna dove lui, almeno due volte la settimana, andava per curare l’orto. La Lada Niva era rosso scuro ed era stata dotata di un impianto gpl, giusto per aggiungere complicazioni a un veicolo già di per sé non semplice. Mia mamma, per salirci, doveva essere spinta da dietro. Le istruzioni e le scritte sulla plancia del cambio erano in cirillico. L’abitacolo sembrava una capsula per i viaggi spazio-temporali, con un’unica destinazione: l’est Europa degli anni settanta. Non se ne vedevano molte in giro, se non tra i pastori e i contadini. Quando poi non è stato più in grado di guidarla, per età e problemi di salute, mio papà mi aveva proposto di tenerla e io, per non offenderlo dicendo che un po’ me ne sarei vergognato, ho rifiutato sostenendo che un’auto in più, in famiglia, non potevamo permettercela. Così l’ha venduta, anzi, regalata a un collezionista di cimeli a quattro ruote. Negli ultimi anni la teneva sempre parcheggiata sotto casa, tanto che era stata persino immortalata da Google Street View e devo avere uno screen shot, da qualche parte. Ora però non se ne vedono davvero più, e le voci che girano secondo cui sta per essere di nuovo messa in commercio sono solo clickbait da quattro soldi. La linea della nuova versione non c’entra niente con quella che intendo io e poi, di questi tempi, è meglio lasciare i russi a casa loro. Così, quando per strada vedo una Dacia Duster, e se ne vedono tantissime perché se ne vendono tantissime, visto il costo alla portata di tutti, penso che se mio papà fosse vivo avrebbe quella macchina lì.
nel mio piccolo
StandardDa bambino pensavo che i giornalai vivessero nelle edicole e che i confessionali fossero una sorta di monolocale abitato dal prete. Disegnarne le piantine e confrontarle con quelle dell’appartamento che occupavamo in affitto era uno dei miei passatempi preferiti. Osservavo il piano del palazzo in cui la nostra casa era ubicata da fuori. Mi sinceravo che le stanze adiacenti fossero realmente separate solamente da una parete e che, tra una e l’altra, non ci fosse invece una camera nascosta. Il nostro appartamento occupava un angolo del voluminoso edificio corrispondente a un intero isolato del centro, e la camera da letto dei miei genitori era l’unica ad avere finestre sui due lati. Invidiavo però il mio vicino. Il suo, di appartamento, aveva una conformazione più originale. In più aveva ricavato una specie di dépendance nel vano che lo separava da casa nostra, in cui aveva ricavato un’unità abitativa indipendente con tanto di servizi, cucina a vista, un soppalco per il letto e una porta a sé sul pianerottolo che dava in affitto. La sua parte era quella nobile dell’edificio, e dava sulla via in cui risultava l’unico accesso. La mia, e quella degli appartamenti sotto di noi, a parte la stanza sull’angolo si sviluppava in una strada secondaria perpendicolare. Gli ambienti ampi di fine ottocento e i soffitti elevati mi sembravano però troppo dispersivi. Per questo amavo sbirciare l’interno dell’edicola di cui la mia famiglia si serviva in modo a dir poco ossessivo. Mi piacerebbe avere una stima di quanti soldi abbiamo scialacquato lì nel corso dei venticinque anni in cui ho vissuto con i miei, considerando i membri di tre generazioni. Prima che prendesse piede la formula degli allegati, mia nonna acquistava con continuità due o tre settimanali di quello che oggi definiremmo gossip, tra cui mi colpiva la rivista “Stop” e la sua copertina a tre colori. In casa poi giravano due copie alla volta della “Settimana Enigmistica”, di cui entrambi i miei genitori erano ferventi compilatori. Si sfidavano sulle stesse prove, per questo ciascuno doveva avere il proprio numero. Si compravano poi due quotidiani con la cronaca locale al giorno, a cui poi si sono aggiunti i giornali di opinione quando noi figli abbiamo maturato una coscienza politica divergente da quella di mamma e papà. Il lunedì era anche il giorno per i quotidiano economico che leggeva mio padre. Prima, dopo e contemporaneamente ci sono stati anche fumetti, svariate riviste musicali e stampa per bambini e ragazzi, per non parlare delle pubblicazioni a fascicoli di qualunque argomento, di cui si faceva un uso smodato. Completavano il quadro opuscoli, libri, raccolte di figurine e uscite speciali. L’anziana coppia che gestiva l’edicola con cui avrei fatto volentieri cambio ci conosceva molto bene e, per fidelizzarci al massimo, ci metteva da parte gli articoli che richiedevamo con maggior regolarità. In inverno tenevano una stufetta elettrica accesa. Consideravo il calore che fuoriusciva quando scorrevano lo sportello trasparente che li separava dai clienti, unito all’aroma di caffè e all’odore di corpi umani al chiuso che ne usciva, la prova che lì dentro ci vivessero sul serio. E poi che bello: potevano leggere qualunque cosa gratis. Mentre si voltavano per servirmi – cercavo più che potessi di farmi incaricare per gli acquisti quotidiani – mi impegnavo a scorgere altri segni a conferma che la loro edicola fosse una casa a tutti gli effetti. Forse era provvista di un bunker sotterraneo oppure, chiusi i battenti al termine dell’orario di apertura, quel cubicolo era dotato di un sistema automatico per aumentare la superficie con moduli aggiuntivi. Per il confessionale, invece, la cosa invece era più facile da spiegare. Costruito in legno contro un muro perimetrale della chiesa, era provvisto sicuramente di un passaggio interno per un ambiente sul retro, di cui la parte visibile costituiva una veranda con gli accessi per i fedeli.
senza nemmeno nominarli
StandardHo sentito parlare di loro la prima volta a undici anni. Stavo battendo il record sul flipper nel bar di una trattoria dell’entroterra. Mi sentivo in forma e c’erano le due sorelle figlie del proprietario – a grandi linee mie coetanee – che facevano il tifo e non mi ero mai reso conto che avere una ragazza dipendesse da quanto uno riesce a mettersi in mostra o semplicemente a volerlo ma con determinatezza.
Non si trattava di una vera e propria sala giochi, piuttosto di un angolo del locale ricavato a fianco della stufa a legna. Ho superato il punteggio del campione locale riportato dall’indicatore meccanico – i flipper con display elettronici non erano ancora così diffusi – in tempo prima di provare disagio dall’eccessivo calore. All’epoca erano di moda i dolcevita indossati con camicie di flanella sopra, un abbigliamento impensabile oggi, considerati gli standard di temperatura nei locali pubblici, per non parlare di estetica e di moda. La trattoria ospitava la cena per festeggiare il gruppo di cacciatori della zona e il menu prevedeva piatti basati sulla carne dei numerosi capi abbattuti nelle più recenti e fortunate battute. Il sapore eccessivamente marcato del cibo e le conversazioni non alla mia portata dei commensali mi avevano indotto a cercare un diversivo adatto alla mia età e, con il senno di poi, posso confermare quanto mi abbiano portato fortuna.
Il contatto successivo è avvenuto però solo molti anni dopo. La mia fidanzata di allora abitava in una casa in campagna presidiata da cani fieramente consapevoli del loro ruolo di protezione del contesto. Sebbene legati nelle ore notturne, chissà cosa vedevano sbucare dai boschi circostanti e transitare al loro cospetto. Trascorrevo molto tempo da lei, entrambi vivevamo ancora in famiglia pur già adulti ma la sua villetta consentiva maggiore riservatezza a eventuali ospiti rispetto al mio appartamento in centro e a tutte le sue stanze in qualche modo collegate.
Si doveva percorrere un vialetto in terra battuta per raggiungere in auto il cortile antistante l’ingresso ma quando la famiglia era al completo e non c’era più parcheggio mi toccava lasciare la macchina nella strada sottostante. Camminare per quel centinaio di metri di notte e senza lampioni mi faceva riflettere sull’inadeguatezza delle consuetudini di città, dove si fa di tutto per abbattere qualunque disagio rendendo l’uomo estraneo alle sue radici. Si percepivano versi a cui nessun essere umano civilizzato avrebbe potuto essere uso e che l’immaginazione correva subito ad attribuire alle meno accomodanti specie viventi, loro in primis. Tuttavia ero consapevole del fatto che non si sarebbero mai palesati sul mio cammino. Il padre della mia fidanzata mi diceva poi che avevano un odore fortissimo di selvatico e che, nel caso, li avrei sentiti prima col naso che con gli occhi.
Poi una sera, mentre seguivamo in camera sua i terrificanti exit-poll delle politiche che avrebbero portato al successo per la prima volta i partiti di destra populista nel nostro paese (obiettivo centrato grazie alle emittenti televisive in loro possesso) i cani della mia fidanzata si erano messi a ululare e a fare versi così particolari che non saprei descrivere. Ci siamo precipitati fuori, sembravano in preda a entità soprannaturali. Fino a quando il padre, uscito in pigiama come nei film western americani nelle scene in cui nelle case della prateria si sentono rumori sospetti, ha puntato una torcia in un cespuglio mettendone in fuga un’intera famiglia. Due esemplari enormi con una nidiata di piccoli al seguito. I cani ci hanno messo molto tempo a calmarsi, d’altronde non credo di aver mai visto animali domestici trasformarsi in creature a guardia di un girone dantesco in così pochi istanti.
Negli anni successivi sono assurti sempre di più agli onori della cronaca. Gli esperti riconducevano il fenomeno principalmente alle campagne sempre più trasandate e al fatto che, grazie all’abbondanza di cibo a disposizione – a partire dalle castagne – si stavano moltiplicando come mai prima di allora. Altri fattori concorrevano alla loro diffusione, a partire dai deterrenti in materia di caccia. Parlavamo proprio di questo Elisa ed io nel corso di una sosta in uno spiazzo erboso a ridosso di un castagneto durante una gitarella sull’appennino, ormai una vita fa. Il tempo di realizzare che quell’anomala apertura potesse costituire uno spazio confortevole per bestie selvatiche di quella stazza e ci eravamo trovati numerose zecche risalire intrepide le nostre scarpe da trekking. La presenza degli insetti era la prova che lì dove ci apprestavamo a consumare un panino (e probabilmente qualcos’altro) fosse un luogo frequentato da qualche clan di quella specie animale. La sera, rientrati a casa mia, ci eravamo sottoposti a un accurato controllo reciproco – a suo modo coinvolgente – per verificare se fosse il caso di recarci al pronto soccorso. L’esito negativo non mi ha impedito però di notarne una abbarbicata al mio braccio sinistro il giorno dopo, mentre in treno raggiungevo il mio ufficio di Milano. All’accettazione del Fatebenefratelli sembrarono molto allarmati della mia scoperta ma si tranquillizzarono immediatamente dopo aver saputo che la zecca in questione non proveniva da uno dei parchi cittadini.
Comunque, per farla breve, al giorno d’oggi i social sono pieni di video che li mostrano trotterellare in fila indiana nelle vie dei sobborghi, inseguire i clienti dei supermercati di periferia alla ricerca di cibo o sostare ai bordi delle strade nell’attesa del momento più opportuno per attraversare senza farsi investire. Ho condiviso qualche tempo fa un tratto di cammino con una mamma e i suoi piccolini – dicono essere pericolosi ma, per mia fortuna, avevano altro a cui pensare – una domenica mentre mi avvicinavo a quella che poi ho scoperto essere la sede di un provider di energia elettrica, un posto pieno di uffici che negli altri giorni della settimana – almeno prima del Covid-19 – brulica di impiegati e addetti ai call center. Stavo correndo e così mi sono fermato per lasciargli una via di fuga libera. Loro non si sono tirati indietro. Non eravamo così distanti e, se devo dirla tutta, in quel frangente forse l’odore del mio corpo era molto peggio del loro.
koda
StandardVivo in un borgo alla periferia nord di Milano – casa mia è ubicata a meno di un km dal cartello che sancisce ufficialmente i confini urbani – che i poteri forti hanno deciso di isolare dal resto del mondo. Non so spiegarmi il motivo se non con il fatto che ci abito io che sono un blogger di tendenza che pesta i piedi a chi ordisce complotti e a tutte quelle organizzazioni lì che tramano per cancellare il genere umano dalla faccia della terra e fare tabula rasa per l”ormai programmata sostituzione della razza del milanese con quella delle popolazioni che odiano il presepe.
Non si capisce infatti perché tutte le vie di accesso e di uscita dal borgo in cui vivo (lo chiamo borgo anziché paesello o quartiere dormitorio o hinterland per dami un tono e farmi sentire come uno di Colle Val d’Elsa) simultaneamente siano oggetto di lavori, risultino chiuse o a doppio senso ma a una carreggiata perché l’altra è in fase di ristrutturazione, con il risultato che uscire o entrare da qui è un’impresa per la quale ogni volta occorre prepararsi psicologicamente.
Tutto questo con l’aggravante che, da quando siamo fiaccati dal Covid, la gente preferisce muoversi in auto piuttosto che usare i mezzi pubblici, variabile impazzita che impazzisce ulteriormente – non mi sono mai spiegato il perché – sotto Natale, come se tutti ci fossimo messi d’accordo per muoverci in massa alla ricerca dei regali rigorosamente prendendo la macchina. Il risultato è che occorre programmare ogni spostamento con attenzione, partendo almeno mezz’ora prima per avere un margine sufficiente da dedicare al tempo da trascorrere in coda al semaforo o bloccati nel traffico.
C’è una specie di tangenziale, per noi una vera e propria arteria grazie alla quale raggiungiamo facilmente ogni destinazione verso ogni punto cardinale, per la quale è stato previsto un sacrosanto interramento in previsione di Expo 2015. Siamo nel 2021 e, manco a dirlo, non è per nulla finita e anzi più passa il tempo e più ci privano di un pezzetto tanto che, ogni volta, è possibile imbattersi in un ingresso chiuso o un’uscita indisponibile e, magari, spostata più avanti, così da aggiungere oltre alla coda in un senso anche quella in senso opposto, per tornare indietro.
A me piace che il sistema, quello sano, per intenderci, quello che si oppone ai poteri forti, faccia di tutto per scoraggiarmi a usare l’auto e muovermi con i mezzi o in bici. Nonostante ciò le volte in cui sono obbligato a usare la macchina mi trovo sempre più spesso fermo con il motore acceso, con un’auto prima e una dietro, a osservare il discutibile panorama ai lati in attesa che finalmente sia il mio turno e possa proseguire con successo l’esperienza di spostamento da un punto all’altro che cerco di portare a termine.
La gente, quella che invece non vuol essere disincentivata a spostarsi con il proprio suv, sta uscendo di testa e posta sui social le foto delle code. Code in entrata e in uscita dal paese. Code con il tramonto rosso o con la brina ghiacciata del mattino. Code con uomini che pisciano nelle aree di emergenza e code con manifesti pubblicitari di organizzazioni anti-abortiste. Code con scoiattoli che si arrampicano sugli alberi e persino con le volpi e le lepri che fanno capolino dai loro nascondigli per vedere che cosa sta succedendo, perché ci sono così tanti esseri umani fermi con i loro mezzi di trasporto.
Forse un giorno tutti i lavori termineranno e si potrà riprendere a sfrecciare sulle strade con i nostri bolidi noleggiati a lungo termine – così è come avere sempre la macchina nuova – e tornare a far valere il principio della velocità come fattore discriminante della società. Ora, tutti fermi in coda, sembriamo davvero tutti uguali. Il piano dei poteri forti è molto più democratico di quando potessi immaginare.
guida turistica di un posto in cui non c’è assolutamente niente da vedere
Standard“Guida turistica di un posto in cui non c’è assolutamente niente da vedere”, o, come si legge nel sottotitolo, “Il bus davanti”, è un’esauriente raccolta di momenti e di luoghi che generalmente poi non si ricordano, con l’obiettivo invece di costringerci a tenerli a mente. Non ci credete? Se vi succede di stare fermi in coda nel traffico segnatevi data, ora e coordinate geografiche del posto (potete mandare la posizione a qualcuno tramite Whatsapp) e poi appiccicatevi un post-it sul frigo ma uno di quelli con l’adesivo bello resistente perché dovrà restare appeso dieci o vent’anni, in modo che tra dieci o vent’anni vi consenta di ricordarvi persino del lotto di case popolari in cui si è accesa la prima luce del mattino e che ha dato il via al tour di quel luogo in cui non c’è assolutamente niente da vedere.
Oppure, ed è per questo che si parla di un bus davanti, della pubblicità del concessionario che ha utilizzato una mediocre clip-art di Charlot completamente decontestualizzata dal messaggio in cui si parlava, appunto, di auto usate, posizionato sul retro del bus che vi precede a passo d’uomo fermo. Saremo vecchi e queste madeleine di fastidio urbano ci evocheranno le stesse sensazioni. Il fatto è che avere un autobus davanti in coda non lo si augura nemmeno al nostro peggior nemico. Così grande e grosso e farcito di persone in mascherina chirurgica ostruisce la visibilità e impedisce di capire se c’è margine per passare davanti e toglierselo dai coglioni senza fare un frontale con qualcuno che arriva nel senso di marcia opposto.
Peggio di un bus ci sono solo gli ufo la mattina, quei camion con le luci lampeggianti nel buio che procedono con la stazza di un pachiderma e la flemma di una lumaca e che quando si approssimano all’incrocio e, per forza di cose, devi dar loro la precedenza perché hanno tutti i requisiti per prendersela, realizzi amaramente che vanno nella tua stessa direzione con una lentezza che in natura si trova solo negli animali morti. Ma sopra il lampeggiante continua a lanciare il suo segnale che induce a prestare attenzione, quello è un mezzo più pesante e ingombrante di una bisarca che trasporta bisarche.
Mi vedete? Fermo con l’ufo a pochi metri dal parabrezza. A destra ci sono studenti e stranieri in attesa dell’autobus. A sinistra un quartiere sovietico con una Mercedes d’annata parcheggiata sotto, il logo sulla punta piegato da qualcuno che non ha fatto in tempo a rubarlo, come si faceva da ragazzi con quello della Volkswagen e non chiedetemi il perché. Il conducente dietro si sfoga sul clacson come se il suono emesso dal suo autoveicolo fosse in grado di spazzare via gli ostacoli che ha di fronte e che, vuoi per il bus o per l’ufo che va ancora più lento del bus, nessuno riesce a capire quanti sono o anche solo se c’è un anziano sulla sua Ford grigia che accompagna la moglie a fare le analisi del sangue. Mi verrebbe voglia di scendere – tanto siamo poco più che fermi – e ricordargli che il problema è tutto suo, che avrebbe dovuto partire da casa un’ora prima di quel momento in cui attraversare la città diventa la parte più difficile di tutto il viaggio di lavoro. Io di trasferte non ne faccio più, se sono qui è perché accompagno mia figlia al capolinea della gialla e attraverso un pezzo di Quarto Oggiaro per dirigermi verso ovest. E comunque, quando mi toccavano, mi trovavo nella solitudine di farmi la barba alle quattro e mezza per raggiungere prima delle sei del mattino la barriera di Milano Sud. Ora passo in una brughiera in cui le cose peggiori sono il limite dei 70 in superstrada, le cavallette in volo che scontrano sonoramente il parabrezza, certe macchine da ottantamila euro con le targhe straniere e il benzinaio extralarge che ha l’unghia del mignolo lunga, solo quella, e non ho ancora capito perché. Forse suona la chitarra classica, glielo chiederò, prima o poi.
trent’anni di garanzia
StandardIo vado in ansia con i prodotti surgelati acquistati nei supermercati dei centri commerciali. Per questo ho elaborato una strategia che consiste, sostanzialmente, nel metterli nel carrello solo alla fine dell’esperienza di spesa. Non sempre i congelatori sono ubicati in prossimità delle casse e, in quel caso, ripercorro a ritroso la naturale disposizione degli scaffali facendomi largo tra gli altri clienti che, invece, seguono il tracciato pensato dagli esperti di marketing della GDO.
Non so quanto tempo possano sopravvivere fuori dal freezer e osservo code di gambero, pizze, barattoli di gelato, minestroni e merluzzo impanato come un pesce rosso qualunque abbandonato all’esterno dalla sua boccia piena d’acqua. Ai surgelati manca il respiro, soffocano a contatto con l’aria e bisogna mangiarli subito. Se fosse davvero così lo spesone bisettimanale mostrerebbe tutti i suoi limiti. Le scorte che perdono la loro funzione primaria, quello di poter essere conservate dentro la confort zone della data di scadenza e soprattutto un pranzo e una cena contigui all’insegna del junk food.
Ma se oltre al supermercato avete pianificato un passaggio da Sephora, da Intersport o da Cotton&Silk meglio farlo prima della spesa. Per i vostri surgelati, esposti in eccesso alle luci impossibili dei negozi della fast fashion, sarebbe il colpo di grazia. C’è poi il concetto di sotto-Natale, che per i centri commerciali significa un lasso di tempo che va da fine ottobre a carnevale. Sotto-Natale nei centri commerciali ci sono persino le bancarelle come ai mercatini di Bolzano. Lo so perché mi sono fermato da un sedicente artigiano del cuoio che vendeva portafogli, borse e cinture come se le facesse solo lui e nessuno avesse mai contrattato il prezzo con i milioni di commercianti di uno dei generi di articoli al mondo che hanno subito maggiormente l’industrializzazione della taroccatura.
Mia moglie si ostina a valutare acquisti per nostra figlia malgrado non abbia ancora imparato che comprare un capo di abbigliamento al buio per una diciottenne è buttare via i soldi. Comunque, mettiamo lo stesso una manciata di cinture di colore, texture, tipo di pellame e fibbia diverse uno vicino all’altra e al proprietario della bancarella, che dice di farle lui e che addirittura setaccia i mercatini dei rigattieri alla ricerca di modelli vintage da ricopiare, già gli viene l’acquolina in bocca. Nessuno, a parte noi, comprerebbe mai qualcosa in una bancarella ubicata in uno spazio di passaggio di un centro commerciale perché l’artigianato perde tutta la sua portata di genuinità. Chi gestisce i centri commerciali organizza questi mercatini come opera di redenzione per aver affossato il commercio al dettaglio ma è ancora peggio.
Il sedicente artigiano mi dice che la cintura di cui sto valutando l’acquisto è coperta da una garanzia di trent’anni. Io subito non mi rendo conto del significato di questa sparata. Poi però quando cerca di contenere la richiesta di sconto di un altro acquirente interessato come me alle cinture, considerando che a quel punto se concede lo sconto a lui dovrà concederlo anche a me, e gli conferma i trent’anni di garanzia, e l’altro acquirente scoppia a ridere facendogli notare che tra trent’anni magari saremo tutti morti da un pezzo o, comunque, chissà che fine avremo fatto, penso anch’io che proporre una garanzia trentennale come extra compreso in un prodotto di quel valore è controproducente, per non dire una fanfaronata. Che ce ne facciamo di una cintura in cuoio con la riproduzione di una fibbia vintage coperta da trent’anni di garanzia?
Ho la pazienza agli sgoccioli ma mia moglie si perde via a fare le foto alle cinque o sei cinture frutto della selezione e a spedirle via Whatsapp a nostra figlia che però è a scuola e, di certo, non può mica rispondere e indicarci quale preferisce. Così propongo una soluzione equa per tutti: le bancarelle resteranno per qualche settimana? Bene, abbiamo tutto il tempo per ripassare con lei, così potrà scegliere la cintura più adatta e, addirittura, permettere all’artigiano di tagliarla della misura giusta senza costringerci a doverci rivolgere al ciabattino in paese, in settimana. L’artigiano capisce che l’affare sta andando in fumo perché nessuno torna lì mai due volte. Ma il rischio d’impresa è così, non a caso faccio il dipendente pubblico.
La soluzione equa per tutti di cui sopra si rivela per niente equa per l’artigiano, ma il fatto è che le confezioni dei prodotti surgelati sembra che si stiano inumidendo in eccesso e non è certo un buon segno. Si sta per avverare uno dei miei peggiori incubi. Sarò costretto a divorare code di gambero, pizze, barattoli di gelato, minestroni e merluzzo impanato per l’intera durata del weekend, pagando molto salato il prezzo di questa eccessiva disinvoltura nella vita. Del resto, quali cose avete mai comprato con trent’anni di garanzia?
il limite dei 110 (percento)
StandardIn questo momento stanno smontando i ponteggi della villetta in fondo alla strada, quelli che avevano una luce intermittente accesa tutta la notte e che dava un effetto pista di atterraggio nella piccola via che attraversa il mio piccolo quartiere alla periferia di un piccolo paese di periferia. Mi sono subito precipitato a controllare se i dispositivi di sicurezza di cui sono dotati i carpentieri siano conformi alla normativa vigente ed è in quel momento che mi sono accorto che la dismissione a cui stavo assistendo in tempo reale ha un doppio significato.
Intanto c’è qualcuno che vuole dimostrarci che le cose hanno una conclusione. Quelle impalcature mi sembravano su da un’eternità. Anche qui da noi, che malgrado qualche ritrosia abbiamo approfittato del 110% (che poi a me sembra una sorta di ossimoro numerico e che comunque non ho ancora capito se sia una messinscena oppure no) stiamo attendendo la posa del primo tubo innocenti (e non innocente, perché il nome viene da chi ha brevettato il sistema, l’ing, Innocenti, appunto) e lo stiamo aspettando con una diffusa inquietudine. Il nostro condominio sarà fasciato per la ristrutturazione del cappotto esterno e chissà per quanto somiglieremo a un’installazione di Christo, che non è un’opera della madonna. Non potremo avere piante sul balcone e il restare in casa sarà un essere chiusi in casa con una doppia protezione che, paradossalmente, ne dimezza la portata di sicurezza. Avremo persone che cammineranno davanti alle finestre come i protagonisti di quell’episodio di “AI confini della realtà” in cui una famiglia si ritrovava prigioniera in una casetta delle bambole di un’entità superiore, che poi era una famiglia proprio come loro ma in scala decisamente più grande. Una sorta di dimensioni-matrioske in cui non sai quale sia la più grande, una crescita e una decrescita all’infinito e lo so, non mi sono spiegato bene, tanto che il secondo significato che volevo scrivere dei carpentieri che smantellano i ponteggi già non me lo ricordo più.
Ah sì, ecco. Come saremo a lavori finiti? Che mondo troveremo là fuori? Le cose cambiano così tanto che i Måneskin aprono ai Rolling Stones, una notizia che detta così sembra che c’è qualcuno chiuso in casa, proprio come me con i ponteggi intorno, e qualcun altro che suona al campanello. In realtà aprire significa fare da supporto, che detta così sembra che sei una sorta di mensola e qualcuno o qualcosa ti si appoggia sopra e lo devi sorreggere. Per non parlare del supporto psicologico, e non sapete di quanto ce n’è bisogno dopo tutte questo su e giù con la mascherina e tutti tappati in casa per non rischiare il contagio. Fare da supporto significa invece fare da gruppo spalla, un po’ come l’apologo di Menenio Agrippa quando ci ha spiegato che tutte le membra hanno una loro funzione e che quindi bisogna lavorare insieme altrimenti il corpo smette di vivere. Che rischio per i Rolling Stones.