ex macchina

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Una delle cose belle quando giri per concessionari a raccogliere preventivi di auto – che poi non ti potrai mai permettere, anzi parlo per me, che poi non mi potrò mai permettere – è imparare i nomi dei colori dei nuovi modelli. Un’operazione di marketing emozionale che non ha eguali. Non so chi sia l’inventore di sfumature come il Chalk White, o il Lake Silver, oppure il Dark Knight, o ancora il Phantom Black, per non parlare del Tangerine Comet, dell’Acid Yellow. E poi il Pulse Red, il Blue Lagoon, il Velvet Dune, il Ceramic Blue, il Galaxy Grey, l’Ignite Flame, l’Atlas White, il Dive in Jeju, il Cyber Grey, il Surfy Blue, il Misty Jungle, l’Engine Red, il Shimmering Silver, il Teal, il Silky Bronze, il Sunset Red, fino al Serenity White.

Poi scopri che, di fronte ad acquirenti poco abbienti come il sottoscritto, è meglio trasmettere la sensazione dei colori più complessi con i classici canna di fucile e carta da zucchero. Un venditore mi ha prospettato anche la possibilità di una pronta consegna – saprete meglio di me che per acquistare un’auto nuova ci vogliono tempi che nemmeno nell’ex URSS – ma di colore grigio guardia di finanza. Una bella metafora perché rende velocemente l’idea della tonalità in questione e, a quelli della mia generazione, crea un link diretto con l’insipido blu polizia di un giorno di pioggia, in auto con i Subsonica del 97.

E la cosa buffa è che incrocio, ogni mattina, una Fiat Panda proprio di quel colore lì che riporta, dietro, una vistosissima pubblicità di un’impresa di sicurezza privata dal naming e dall’iconografia oltremodo nazifasci. Ma non mi sento affatto ferito nell’orgoglio perché, proprio grazie a mesi di benchmarking, ora sono il fortunato proprietario una macchina nuova che è talmente moderna che, al momento, ritengo forse il miglior ambiente in cui mi piace vivere dopo il divano della sala, ma solo perché è ubicato di fronte al mio impianto stereo e contestuale collezione di trentatré giri.

Si tratta di un’auto pazzesca – il colore è un banale blu notte ma era l’unica disponibile in tempi rapidi – dotata di una sua intelligenza di molto superiore alla mia e a quella di svariate persone che conosco. Frena e accelera quando è più necessario. L’abitacolo è dotato di un micro-climatizzatore che si può programmare per ogni passeggero. Appena mi avvicino sblocca le portiere e si connette con il mio smartphone. I sedili si riscaldano o si raffreddano a seconda del bisogno e luci si accendono e si spengono come cazzo vogliono loro, seguite a ruota da tergicristalli così sensibili che partono in autonomia appena c’è un goccio di pioggia.

Quando si ferma non fa nessun rumore, così mentre sono in coda al volante guardo dietro. Lo spazio a disposizione mi rassicura così tanto che fa emergere la mia ossessione per le case piccole, la stessa che mi fa da sempre desiderare di vivere in un camper ma non uno di quelli giganteschi. Mi basterebbe anche un furgone con dietro una customizzazione utile a dormirci. C’è una cosa che mi fa venire i brividi e ora ve la racconto. C’è un punto di confine tra Italia e Francia, una strada sulle Alpi che si apre su uno spiazzo in mezzo a monti brulli, che vado a sbirciare con Google Street View quando ho voglia di staccare dalla routine. Così, quando sono in auto e mi volto ad ammirare quella che potrebbe essere una vera e propria mini casa mobile, immagino di fermarmi in quel parcheggio sui monti, abbattere i sedili posteriori e sdraiarmi lì su un materasso per passare la notte e attendere l’alba. Poi però è subito il momento di ripartire. Basta premere con dolcezza l’acceleratore – la mia nuova auto ha il cambio automatico – per riaccendere il motore e riprendere il viaggio, lo stesso viaggio di ogni giorno.

super

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Per prendere con ironia il posto in cui abito dico che vivo in un appartamento con vista su un benzinaio Total, il che è vero anche se da qualche mese ha cambiato brand e ora, di notte, è illuminato con un sistema di neon color arancio ancora più sgargianti. Casa mia si trova alla periferia di un paese di periferia, sono a poco più di un km dal cartello che dà il benvenuto a chi arriva a Milano, e mi piace riferirmi in questi termini quando parlo con i miei vecchi amici liguri delle rispettive vite. Loro hanno case sul mare e fanno lunghe passeggiate alla sera con il cane sulla spiaggia, e per non farli sentire in colpa della loro fortuna cerco di sembrare amareggiato della scelta che ho fatto e ometto riferimenti ai dieci km quadrati di parco con i boschi e i laghetti che ho a qualche minuto da qui, il modello di raccolta differenziata dei rifiuti con i contenitori chiusi nei condomini – un approccio che toglie di mezzo i cassonetti in strada e tutti i roditori che li frequentano, il sistema sanitario efficiente, l’edilizia scolastica ecosostenibile, il mercato del lavoro che ti fa abbandonare le passeggiate alla sera con il cane sulla spiaggia – da cui comunque si vedono le ciminiere della centrale termoelettrica e numerosi cargo che transitano al largo in arrivo e in partenza dal porto commerciale, peraltro proprietà dei cinesi – perché comunque uno stipendio serve, la banda larga e altre facilitazioni della vita di questo tipo, per non nominare i soliti luoghi comuni degli eventi culturali, i concerti eccetera.

Ci sarebbe poi qualcosa da dire sull’architettura, per chi è appassionato come me. Anche la promiscuità di edifici residenziali e industriali è una peculiarità di questa parte dell’hinterland. A me non dispiace ed è molto più curata di certi capannoni diroccati con le reti del letto arrugginite usate come cancelli che si vedono nei posti dove sono nato.

Proprio a fianco del benzinaio – che poi non è proprio qui davanti ma leggermente più in là –  c’è uno stabilimento a cui si accede da un cancello industriale che dà sul parcheggio dietro casa mia. Non ho ancora capito che azienda sia, l’impressione è che sia uno spazio in comune tra più imprese ricavato dalla sede di una fabbrica che non c’è più. Dal parcheggio condiviso si accede al benzinaio attraverso un sentiero in terra battuta che scorre all’interno di un’aiuola.

Si tratta di un passaggio piuttosto frequentato perché il benzinaio comprende anche un bar con tanto di tavolini all’aperto con vista sulle pompe di carburante. La cosa che mi sorprende ogni volta è che c’è sempre gente seduta ai tavolini, come se fosse un locale in Via del Corso. Gente che fa colazione, mangia un tramezzino in pausa pranzo, beve il caffè, prende l’aperitivo. La strada su cui si trova il benzinaio è una specie di tangenzialina che impedisce al traffico da e per Milano di attraversare il centro del mio paese, quindi non è un certo un posto che invita a una sosta. Gli avventori del bar del benzinaio però non sono solo i clienti o i camionisti. Lo so perché riconosco gli impiegati che lavorano nello stabilimento a cui ho fatto cenno prima che, ribadisco, non so in che settori operi. Sul cancello non c’è scritto nulla.

Ieri sono passato a piedi lì davanti, malgrado la pioggia e il rischio di essere lavato da qualche veicolo in transito sulle pozzanghere ai lati della strada. Cento metri più avanti c’è un piccolo discount a cui mi rivolgo quando mi manca qualcosa di urgente e non ho voglia di prendere l’auto per andare alla Coop. Sono passato da lì, era il tardo pomeriggio, e ho notato un ragazzo vestito in completo business uscire dal cancello di quello che ho sempre creduto essere uno stabilimento, accompagnato da quattro ragazze molto belle, molto alte e molto in tiro, addirittura con calzature dai tacchi molto alti che, su quel sentiero in terra battuta, hanno messo alla prova il loro equilibrio e il loro portamento. C’era fango ovunque e bastava allungare un po’ il percorso sull’asfalto, seguendo il contorno dell’aiuola, per evitare quel disagio.

Il ragazzo le ha condotte verso il bar del benzinaio e, con fare cavalleresco, ha aperto loro la porta del locale che, potete immaginare, dentro è poco più di uno stanzino. La cosa mi ha sorpreso e ho proseguito per la mia strada, mi mancava la passata di pomodoro per preparare le polpette al sugo, e ho pensato che quella fosse una situazione su cui avrei potuto scrivere qualcosa. Cosa ci facevano quattro ragazze immagine – non erano modelle ma potevano appartenere a quella zona grigia di persone che lavorano con la loro bellezza ma non sono abbastanza raffinate per l’alta moda, non so se mi sono spiegato, tipo le hostess che si vedono agli eventi aziendali – in un posto così, mi sono chiesto.

Ho pagato i 45 centesimi della passata di pomodoro con il bancomat e ho percorso il tragitto a ritroso. Quindi ho sbirciato ancora dentro alla vetrine del bar. I cinque erano seduti all’unico tavolino all’interno, un tavolino alto in plastica con il brand di una marca di gelati circondato da sgabelli alti e un po’ pretenziosi, sorseggiavano flute di vino bianco con le bolle e sgranocchiavano noccioline dozzinali. Nel frattempo è passata un’ambulanza a sirene spiegate, io ho accelerato il passo per saltare in un punto in cui non avrei rischiato una lavata di acqua piovana stagnante che avrebbe sicuramente rovinato il momento.

blu completo

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Credo di aver sgamato una tecnica di marketing non del tutto trasparente adottata dalla filiale locale di un’agenzia immobiliare tra le più conosciute sul mercato. Hanno fissato con i laccetti di plastica alla ringhiera che delimita l’esterno del condominio in cui abito uno dei loro cartelli plastificati in cui pubblicizzano la presenza di un appartamento in vendita, nella versione in cui comunicano che l’immobile non è più disponibile. Una vistosa scritta trasversale “venduto” copre infatti i dettagli dell’annuncio. Il fatto è che non c’è nessuna casa in vendita e so per certo che non c’è stata alcuna transazione, di recente. Questo significa che sotto l’annuncio “venduto” non c’è scritto nulla – tanto comunque non si vede – e il cartello è stato messo lì solo per essere notato dai passanti che, in un momento in cui il mercato del mattone a Milano è letteralmente impazzito, si continua a costruire edifici nuovi con i boschi verticali e piazzare una modesta unità abitativa di periferia non nuova senza rimetterci è pressoché impossibile, dicevo che i passanti possono leggerlo e pensare “và che bravi, questi di XXXcasa, che riescono a vendere a qualcuno un appartamento di un posto come questo in cui non ci verrebbe a vivere nessuno. Che ne dici cara se contattiamo loro per mettere in vendita anche il nostro?”. Almeno, io l’ho interpretato così, un vero e proprio colpo basso dei misteriosi “men in blue”. Avrete credo fatto caso al fatto che, malgrado i colori aziendali delle più blasonate agenzie tendano al verde, l’outfit da battaglia tra gli operatori del settore, specie quelli che lavorano sul campo, impone un all blue. I men in blue hanno a malapena vent’anni ma si atteggiano ad adulti vissuti e girano rigorosamente con il tablet in mano. Mi sono chiesto come facciano quando piove e se non sia più conveniente ricorrere a uno zaino o una ventiquattr’ore anche se sono consapevole che, così, il tablet non si vedrebbe e la gente non coglierebbe la modernità del loro modello di business. In una borsa potrebbe esserci un’agenda cartacea o, peggio, il Tutto Città.

stato di pulizia

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Nel mio condominio abbiamo cambiato, da qualche settimana, l’impresa che si occupa delle pulizie. Una novità che mi ha portato a qualche riflessione. La prima è che è difficile valutare se chi pulisce le parti comuni di un edificio sia in grado di svolgere correttamente il proprio compito. Io passo per i ballatoi, scendo le scale e imbocco l’ingresso solo per uscire di casa o quando rientro e, in genere, non bado molto a quello che vedo. Nel primo scenario sono sempre di fretta, ho mille cose per la testa, spesso ho la differenziata da buttare che mi ingombra le mani, penso a dove ho parcheggiato il giorno prima e così via. Mentre rientro, invece, nella maggior parte dei casi sto tornando da scuola e ho la testa sottosopra, e l’ultima delle mie preoccupazioni va a ciò che mi circonda e ai relativi dettagli.

Ma, anche se mi impegnassi in una valutazione del livello di igiene, non saprei proprio da dove cominciare. Negli spazi di transito, dove camminano gli inquilini, i pavimenti tirati a lucido durano poco. Non capita mai di percepire cattivo odore, soprattutto da quando indossiamo la mascherina. Nemmeno quando la famiglia del primo piano trasferisce dai propri contenitori domestici i sacchetti della spazzatura sullo zerbino e li lascia lì, in attesa di gettarli nell’apposito vano condominiale dedicato al generico – una consuetudine a dir poco deplorevole – si sente puzza di qualcosa.

Non so nemmeno perché, giunti a un certo momento, un consesso condominiale deliberi un cambiamento di questo tipo, quali i presupposti, chi proponga un nuovo fornitore e con quali requisiti. In più, con il turn over che caratterizza le organizzazioni di questo settore, non mi sono mai preoccupato dell’avvicendamento tra gli operatori. Così, rendersi conto se l’appalto se l’è aggiudicato qualcun altro rispetto a prima, è pressoché impossibile. Questa volta, però, ci sono stati segnali espliciti.

La nuova impresa ha disposto, nel locale di accesso alla scale, un kit completo di prodotti igienizzanti, comprensivo di salviette monouso e di dispenser per il gel. Ieri, addirittura, è comparso uno di quegli erogatori automatici a pile con il sensore che attiva la discesa del prodotto quando rileva la presenza delle mani sotto. Spesso si vede a dar man forte al personale un signore avanti con l’età che dev’essere il proprietario dell’impresa o comunque un pezzo grosso a livello societario. Già due volte mi ha fermato nel portone per farmi notare le salviette e il gel messi in condivisione gratuitamente. Poi mi chiede se siamo contenti del servizio, che è una domanda a cui sinceramente non so rispondere. Voi che parole usereste se vi trovaste nella mia condizione? Io, lo sapete, punto tutto sulla gentilezza e sul dire agli altri quello che si vogliono sentir dire pur di non far soffrire il prossimo. Così gli rispondo che siamo davvero soddisfatti del modo in cui puliscono.

Addirittura qualche giorno fa mi ha chiesto se noto delle differenze rispetto a prima, e a quel punto sono andato in crisi perché, come ho detto prima, sono dettagli a cui non presto assolutamente attenzione. Ho cercato però di essere lo stesso convincente puntando su una cosa che, effettivamente, avevo riscontrato. Da quando fanno le pulizie loro è impossibile non fare caso a un profumo fortissimo, appena si apre il portone. Un odore di deodorante per ambienti che, probabilmente, è gradevole se profuso in quantità appropriata. Ma, in quel modo acriticamente massivo, risulta persino stucchevole. Il fatto è che non so se sia un problema mio, in quanto sono particolarmente sensibile agli odori, quelli buoni e quelli nauseabondi. Quindi non ho posto la questione con nessuno ma l’ho tenuta per me, anche perché temo che i vicini di casa che incontro più spesso siano tra i più accesi sostenitori del cambio di corso nella scelta dell’impresa di pulizie e, come dicevo, non voglio deludere nessuno.

L’uomo delle pulizie, anzi, il boss delle pulizie, mi ha chiesto se ho avvertito delle differenze rispetto a prima e gli ho risposto che sì, da quando sono subentrati all’impresa precedente c’è un profumo buonissimo di pulito. Ora, vi prego, fate tesoro della mia esperienza: mai dire a qualcuno che lavora nelle pulizie che gli ambienti che pulisce profumano. Il boss delle pulizie si dev’essere infatti un po’ risentito perché ha rimarcato il fatto che il buon profumo – che è una proprietà dei prodotti utilizzati – non è indice di un lavoro fatto bene. Anzi, il buon profumo potrebbe essere un sistema per dissimulare una pulizia approssimativa. Ci ha tenuto a evidenziare diversi particolari del loro modo di pulire un condominio e, malgrado fossi di fretta, non me la sono sentita di interrompere quella lectio magistralis.

Prima di congedarmi però gli è tornato il sorriso, come a chiarire il fatto che fino a pochi istanti prima era stato semplicemente serio e non irritato perché, quando parliamo del nostro lavoro, solo così possiamo trasmettere l’autorevolezza e la nostra esperienza nel settore, e mi ha fatto dono di una mascherina lavabile incellofanata che teneva nella tasca. Poi ne ha estratta un’altra, pochi istanti dopo, dicendo che era per mia moglie. Un gesto che mi ha colpito anche perché non so come facesse a sapere che sono sposato.

E il bello è che rincasando qualche ora più tardi, il profumo su per le scale era ancora più invasivo. Il punto è che nel mio appartamento, da qualche settimana, c’è un odore stantio che non capiamo da dove provenga. Un odore di chiuso, uno di quelli che si sentivano nelle case dei nonni quando eravamo bambini, non so se avete presente. Abbiamo pensato che la causa possa essere il detersivo che mettiamo a disposizione della signora che fa le pulizie da noi, perché l’odore è particolarmente forte proprio nel giorno in cui viene qui, ma non può essere. Anzi, il fatto che si senta più forte è forse dovuto al contrasto con il profumo di pulito. Potrebbero essere le piante che abbiamo in casa, che per qualche motivo ci stanno mandando dei segnali di sofferenza. Potrebbe essere una macchia di umidità che abbiamo scoperto nel corridoio, dietro l’armadio, in cui si è formata un po’ di muffa. Potrebbe essere il nostro odore perché stiamo diventando vecchi. Potrebbero essere delle entità aliene che si manifestano così e che nessuno può vedere o sentire in altro modo.

Così, se non fosse per il rischio di far scappare la mia gatta, lascerei la porta d’ingresso spalancata per far entrare un po’ dell’aria che c’è fuori di qui in cambio di quella che si respira dentro. Per fortuna l’estate è alle porte e a breve potremo lasciare finalmente le finestre spalancate, è sempre bello procrastinare la soluzione a un problema, quando non la si trova.

con le stelle

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Mettere le canzoni giuste al momento giusto è un vero talento. Anche qualche istante dopo rispetto a quando servono ci si può accontentare, fino a qualche anno fa abbiamo convissuto con una latenza oggi inammissibile. L’unico rammarico sono, al limite, le occasioni perse. Conosco la signora Polina perché faceva le pulizie ai miei vicini del piano di sopra. Ora è ingaggiata come badante a tempo pieno in una di quelle famiglie in cui sembrano essere tutti vecchi da sempre. Polina è in piazza con uno dei nonni o zii di cui si prende cura, circondata da una decina di anziani. La donna brandisce uno smartphone che trasmette un video sulla guerra, una scena che di questi tempi rischia di cadere nell’ordinarietà. Il problema è che Polina è russa e cerca di convincere le persone che ha intorno che la colpa è di quella specie di comico ballerino ucraino che non la racconta giusta. Il suo nonnetto non ha un’opinione, ma uno degli altri ottuagenari sostiene che è non possibile che, quella di Zelensky, sia tutta una messa in scena per provocare Putin. Sto per chiedere chiarimenti ma una mamma con una bambina mi distraggono dal dire la mia sulla crisi politica mondiale. La figlia racconta alla madre, a cui dà la mano, che domani ha il compito di realtà a scuola. I piccoli sono quelli più penalizzati dai grandi cambiamenti come una riforma sbagliata dell’istruzione, una pandemia, una guerra. A noi adulti, responsabili del loro disagio, piace comunque sfoggiarli in pubblico lo stesso. La mia teoria è che anche i peggiori ceffi, quando spingono un passeggino, rivelano un’aria dignitosa. Anche quelli con la faccia da tossico, i tamarri o i peggio vestiti, se li vedi a spasso alla guida di un bambino sprigionano tutta la loro potenzialità di persone affidabili. Intorno a noi c’è il solito tripudio di bandiere arcobaleno, solo che al posto di andrà tutto bene ora c’è un laconico augurio di pace. Che sfiga. Prima le mascherine, ora il rischio della terza guerra mondiale. Ripenso al film di ieri sera, il remake italiano di quella storia con Robert De Niro e Meryl Streep che si innamorano sulla metro. In questa riduzione per la nostra sensibilità i due non concludono un bel niente perché, appena si diffonde il Covid, ad entrambi viene concesso il telelavoro e addio treno delle otto. Si vedono l’ultima volta al supermercato, la settimana prima del lockdown, davanti alla vetrina frigo delle verdure confezionate. Qualche giorno dopo chiude tutto e il film finisce così. E la canzone giusta al momento giusto è proprio quel pezzo degli Üstmamò, quello che dice

Che bella cosa
che lieta meraviglia
non ci è toccata
né guerra né miseria

sedici

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Se mio papà oggi fosse vivo guiderebbe una Dacia Duster alimentata gpl. Anziché andare in pensione aveva accettato una consulenza in un’azienda che aveva lo stabilimento in un paesino dell’Appennino. Questa era la motivazione ufficiale che rilasciava a chi gli chiedeva perché, in concomitanza con il nuovo lavoro, avesse cambiato auto acquistando un fuoristrada 4×4. Raggiungere l’ufficio con le strade innevate poteva essere rischioso per una berlina. Il fatto è che l’unico modello che si era potuto permettere era la Lada Niva, una specie di Fiat 127 rialzata con le ruote da pick-up, la perfetta sintesi tra sobrietà sovietica e tracotanza a stelle e strisce, il punto di incontro a motore tra NATO e Patto di Varsavia. Il muro era appena crollato rovinando con le sue macerie su quello che rimaneva del comunismo, ma quella di mio padre non era una scelta ideologica – era tutt’altro che di sinistra – piuttosto dettata unicamente dal budget a disposizione. Ma il punto non è quello. Alla base di quell’acquisto c’era l’idea di percorrere senza rischi la strada sterrata in salita che portava alla nostra casa di campagna dove lui, almeno due volte la settimana, andava per curare l’orto. La Lada Niva era rosso scuro ed era stata dotata di un impianto gpl, giusto per aggiungere complicazioni a un veicolo già di per sé non semplice. Mia mamma, per salirci, doveva essere spinta da dietro. Le istruzioni e le scritte sulla plancia del cambio erano in cirillico. L’abitacolo sembrava una capsula per i viaggi spazio-temporali, con un’unica destinazione: l’est Europa degli anni settanta. Non se ne vedevano molte in giro, se non tra i pastori e i contadini. Quando poi non è stato più in grado di guidarla, per età e problemi di salute, mio papà mi aveva proposto di tenerla e io, per non offenderlo dicendo che un po’ me ne sarei vergognato, ho rifiutato sostenendo che un’auto in più, in famiglia, non potevamo permettercela. Così l’ha venduta, anzi, regalata a un collezionista di cimeli a quattro ruote. Negli ultimi anni la teneva sempre parcheggiata sotto casa, tanto che era stata persino immortalata da Google Street View e devo avere uno screen shot, da qualche parte. Ora però non se ne vedono davvero più, e le voci che girano secondo cui sta per essere di nuovo messa in commercio sono solo clickbait da quattro soldi. La linea della nuova versione non c’entra niente con quella che intendo io e poi, di questi tempi, è meglio lasciare i russi a casa loro. Così, quando per strada vedo una Dacia Duster, e se ne vedono tantissime perché se ne vendono tantissime, visto il costo alla portata di tutti, penso che se mio papà fosse vivo avrebbe quella macchina lì.

nel mio piccolo

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Da bambino pensavo che i giornalai vivessero nelle edicole e che i confessionali fossero una sorta di monolocale abitato dal prete. Disegnarne le piantine e confrontarle con quelle dell’appartamento che occupavamo in affitto era uno dei miei passatempi preferiti. Osservavo il piano del palazzo in cui la nostra casa era ubicata da fuori. Mi sinceravo che le stanze adiacenti fossero realmente separate solamente da una parete e che, tra una e l’altra, non ci fosse invece una camera nascosta. Il nostro appartamento occupava un angolo del voluminoso edificio corrispondente a un intero isolato del centro, e la camera da letto dei miei genitori era l’unica ad avere finestre sui due lati. Invidiavo però il mio vicino. Il suo, di appartamento, aveva una conformazione più originale. In più aveva ricavato una specie di dépendance nel vano che lo separava da casa nostra, in cui aveva ricavato un’unità abitativa indipendente con tanto di servizi, cucina a vista, un soppalco per il letto e una porta a sé sul pianerottolo che dava in affitto. La sua parte era quella nobile dell’edificio, e dava sulla via in cui risultava l’unico accesso. La mia, e quella degli appartamenti sotto di noi, a parte la stanza sull’angolo si sviluppava in una strada secondaria perpendicolare. Gli ambienti ampi di fine ottocento e i soffitti elevati mi sembravano però troppo dispersivi. Per questo amavo sbirciare l’interno dell’edicola di cui la mia famiglia si serviva in modo a dir poco ossessivo. Mi piacerebbe avere una stima di quanti soldi abbiamo scialacquato lì nel corso dei venticinque anni in cui ho vissuto con i miei, considerando i membri di tre generazioni. Prima che prendesse piede la formula degli allegati, mia nonna acquistava con continuità due o tre settimanali di quello che oggi definiremmo gossip, tra cui mi colpiva la rivista “Stop” e la sua copertina a tre colori. In casa poi giravano due copie alla volta della “Settimana Enigmistica”, di cui entrambi i miei genitori erano ferventi compilatori. Si sfidavano sulle stesse prove, per questo ciascuno doveva avere il proprio numero. Si compravano poi due quotidiani con la cronaca locale al giorno, a cui poi si sono aggiunti i giornali di opinione quando noi figli abbiamo maturato una coscienza politica divergente da quella di mamma e papà. Il lunedì era anche il giorno per i quotidiano economico che leggeva mio padre. Prima, dopo e contemporaneamente ci sono stati anche fumetti, svariate riviste musicali e stampa per bambini e ragazzi, per non parlare delle pubblicazioni a fascicoli di qualunque argomento, di cui si faceva un uso smodato. Completavano il quadro opuscoli, libri, raccolte di figurine e uscite speciali. L’anziana coppia che gestiva l’edicola con cui avrei fatto volentieri cambio ci conosceva molto bene e, per fidelizzarci al massimo, ci metteva da parte gli articoli che richiedevamo con maggior regolarità. In inverno tenevano una stufetta elettrica accesa. Consideravo il calore che fuoriusciva quando scorrevano lo sportello trasparente che li separava dai clienti, unito all’aroma di caffè e all’odore di corpi umani al chiuso che ne usciva, la prova che lì dentro ci vivessero sul serio. E poi che bello: potevano leggere qualunque cosa gratis. Mentre si voltavano per servirmi – cercavo più che potessi di farmi incaricare per gli acquisti quotidiani – mi impegnavo a scorgere altri segni a conferma che la loro edicola fosse una casa a tutti gli effetti. Forse era provvista di un bunker sotterraneo oppure, chiusi i battenti al termine dell’orario di apertura, quel cubicolo era dotato di un sistema automatico per aumentare la superficie con moduli aggiuntivi. Per il confessionale, invece, la cosa invece era più facile da spiegare. Costruito in legno contro un muro perimetrale della chiesa, era provvisto sicuramente di un passaggio interno per un ambiente sul retro, di cui la parte visibile costituiva una veranda con gli accessi per i fedeli.

senza nemmeno nominarli

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Ho sentito parlare di loro la prima volta a undici anni. Stavo battendo il record sul flipper nel bar di una trattoria dell’entroterra. Mi sentivo in forma e c’erano le due sorelle figlie del proprietario – a grandi linee mie coetanee – che facevano il tifo e non mi ero mai reso conto che avere una ragazza dipendesse da quanto uno riesce a mettersi in mostra o semplicemente a volerlo ma con determinatezza.

Non si trattava di una vera e propria sala giochi, piuttosto di un angolo del locale ricavato a fianco della stufa a legna. Ho superato il punteggio del campione locale riportato dall’indicatore meccanico – i flipper con display elettronici non erano ancora così diffusi – in tempo prima di provare disagio dall’eccessivo calore. All’epoca erano di moda i dolcevita indossati con camicie di flanella sopra, un abbigliamento impensabile oggi, considerati gli standard di temperatura nei locali pubblici, per non parlare di estetica e di moda. La trattoria ospitava la cena per festeggiare il gruppo di cacciatori della zona e il menu prevedeva piatti basati sulla carne dei numerosi capi abbattuti nelle più recenti e fortunate battute. Il sapore eccessivamente marcato del cibo e le conversazioni non alla mia portata dei commensali mi avevano indotto a cercare un diversivo adatto alla mia età e, con il senno di poi, posso confermare quanto mi abbiano portato fortuna.

Il contatto successivo è avvenuto però solo molti anni dopo. La mia fidanzata di allora abitava in una casa in campagna presidiata da cani fieramente consapevoli del loro ruolo di protezione del contesto. Sebbene legati nelle ore notturne, chissà cosa vedevano sbucare dai boschi circostanti e transitare al loro cospetto. Trascorrevo molto tempo da lei, entrambi vivevamo ancora in famiglia pur già adulti ma la sua villetta consentiva maggiore riservatezza a eventuali ospiti rispetto al mio appartamento in centro e a tutte le sue stanze in qualche modo collegate.

Si doveva percorrere un vialetto in terra battuta per raggiungere in auto il cortile antistante l’ingresso ma quando la famiglia era al completo e non c’era più parcheggio mi toccava lasciare la macchina nella strada sottostante. Camminare per quel centinaio di metri di notte e senza lampioni mi faceva riflettere sull’inadeguatezza delle consuetudini di città, dove si fa di tutto per abbattere qualunque disagio rendendo l’uomo estraneo alle sue radici. Si percepivano versi a cui nessun essere umano civilizzato avrebbe potuto essere uso e che l’immaginazione correva subito ad attribuire alle meno accomodanti specie viventi, loro in primis. Tuttavia ero consapevole del fatto che non si sarebbero mai palesati sul mio cammino. Il padre della mia fidanzata mi diceva poi che avevano un odore fortissimo di selvatico e che, nel caso, li avrei sentiti prima col naso che con gli occhi.

Poi una sera, mentre seguivamo in camera sua i terrificanti exit-poll delle politiche che avrebbero portato al successo per la prima volta i partiti di destra populista nel nostro paese (obiettivo centrato grazie alle emittenti televisive in loro possesso) i cani della mia fidanzata si erano messi a ululare e a fare versi così particolari che non saprei descrivere. Ci siamo precipitati fuori, sembravano in preda a entità soprannaturali. Fino a quando il padre, uscito in pigiama come nei film western americani nelle scene in cui nelle case della prateria si sentono rumori sospetti, ha puntato una torcia in un cespuglio mettendone in fuga un’intera famiglia. Due esemplari enormi con una nidiata di piccoli al seguito. I cani ci hanno messo molto tempo a calmarsi, d’altronde non credo di aver mai visto animali domestici trasformarsi in creature a guardia di un girone dantesco in così pochi istanti.

Negli anni successivi sono assurti sempre di più agli onori della cronaca. Gli esperti riconducevano il fenomeno principalmente alle campagne sempre più trasandate e al fatto che, grazie all’abbondanza di cibo a disposizione – a partire dalle castagne – si stavano moltiplicando come mai prima di allora. Altri fattori concorrevano alla loro diffusione, a partire dai deterrenti in materia di caccia. Parlavamo proprio di questo Elisa ed io nel corso di una sosta in uno spiazzo erboso a ridosso di un castagneto durante una gitarella sull’appennino, ormai una vita fa. Il tempo di realizzare che quell’anomala apertura potesse costituire uno spazio confortevole per bestie selvatiche di quella stazza e ci eravamo trovati numerose zecche risalire intrepide le nostre scarpe da trekking. La presenza degli insetti era la prova che lì dove ci apprestavamo a consumare un panino (e probabilmente qualcos’altro) fosse un luogo frequentato da qualche clan di quella specie animale. La sera, rientrati a casa mia, ci eravamo sottoposti a un accurato controllo reciproco – a suo modo coinvolgente – per verificare se fosse il caso di recarci al pronto soccorso. L’esito negativo non mi ha impedito però di notarne una abbarbicata al mio braccio sinistro il giorno dopo, mentre in treno raggiungevo il mio ufficio di Milano. All’accettazione del Fatebenefratelli sembrarono molto allarmati della mia scoperta ma si tranquillizzarono immediatamente dopo aver saputo che la zecca in questione non proveniva da uno dei parchi cittadini.

Comunque, per farla breve, al giorno d’oggi i social sono pieni di video che li mostrano trotterellare in fila indiana nelle vie dei sobborghi, inseguire i clienti dei supermercati di periferia alla ricerca di cibo o sostare ai bordi delle strade nell’attesa del momento più opportuno per attraversare senza farsi investire. Ho condiviso qualche tempo fa un tratto di cammino con una mamma e i suoi piccolini – dicono essere pericolosi ma, per mia fortuna, avevano altro a cui pensare – una domenica mentre mi avvicinavo a quella che poi ho scoperto essere la sede di un provider di energia elettrica, un posto pieno di uffici che negli altri giorni della settimana – almeno prima del Covid-19 – brulica di impiegati e addetti ai call center. Stavo correndo e così mi sono fermato per lasciargli una via di fuga libera. Loro non si sono tirati indietro. Non eravamo così distanti e, se devo dirla tutta, in quel frangente forse l’odore del mio corpo era molto peggio del loro.

koda

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Vivo in un borgo alla periferia nord di Milano – casa mia è ubicata a meno di un km dal cartello che sancisce ufficialmente i confini urbani – che i poteri forti hanno deciso di isolare dal resto del mondo. Non so spiegarmi il motivo se non con il fatto che ci abito io che sono un blogger di tendenza che pesta i piedi a chi ordisce complotti e a tutte quelle organizzazioni lì che tramano per cancellare il genere umano dalla faccia della terra e fare tabula rasa per l”ormai programmata sostituzione della razza del milanese con quella delle popolazioni che odiano il presepe.

Non si capisce infatti perché tutte le vie di accesso e di uscita dal borgo in cui vivo (lo chiamo borgo anziché paesello o quartiere dormitorio o hinterland per dami un tono e farmi sentire come uno di Colle Val d’Elsa) simultaneamente siano oggetto di lavori, risultino chiuse o a doppio senso ma a una carreggiata perché l’altra è in fase di ristrutturazione, con il risultato che uscire o entrare da qui è un’impresa per la quale ogni volta occorre prepararsi psicologicamente.

Tutto questo con l’aggravante che, da quando siamo fiaccati dal Covid, la gente preferisce muoversi in auto piuttosto che usare i mezzi pubblici, variabile impazzita che impazzisce ulteriormente – non mi sono mai spiegato il perché – sotto Natale, come se tutti ci fossimo messi d’accordo per muoverci in massa alla ricerca dei regali rigorosamente prendendo la macchina. Il risultato è che occorre programmare ogni spostamento con attenzione, partendo almeno mezz’ora prima per avere un margine sufficiente da dedicare al tempo da trascorrere in coda al semaforo o bloccati nel traffico.

C’è una specie di tangenziale, per noi una vera e propria arteria grazie alla quale raggiungiamo facilmente ogni destinazione verso ogni punto cardinale, per la quale è stato previsto un sacrosanto interramento in previsione di Expo 2015. Siamo nel 2021 e, manco a dirlo, non è per nulla finita e anzi più passa il tempo e più ci privano di un pezzetto tanto che, ogni volta, è possibile imbattersi in un ingresso chiuso o un’uscita indisponibile e, magari, spostata più avanti, così da aggiungere oltre alla coda in un senso anche quella in senso opposto, per tornare indietro.

A me piace che il sistema, quello sano, per intenderci, quello che si oppone ai poteri forti, faccia di tutto per scoraggiarmi a usare l’auto e muovermi con i mezzi o in bici. Nonostante ciò le volte in cui sono obbligato a usare la macchina mi trovo sempre più spesso fermo con il motore acceso, con un’auto prima e una dietro, a osservare il discutibile panorama ai lati in attesa che finalmente sia il mio turno e possa proseguire con successo l’esperienza di spostamento da un punto all’altro che cerco di portare a termine.

La gente, quella che invece non vuol essere disincentivata a spostarsi con il proprio suv, sta uscendo di testa e posta sui social le foto delle code. Code in entrata e in uscita dal paese. Code con il tramonto rosso o con la brina ghiacciata del mattino. Code con uomini che pisciano nelle aree di emergenza e code con manifesti pubblicitari di organizzazioni anti-abortiste. Code con scoiattoli che si arrampicano sugli alberi e persino con le volpi e le lepri che fanno capolino dai loro nascondigli per vedere che cosa sta succedendo, perché ci sono così tanti esseri umani fermi con i loro mezzi di trasporto.

Forse un giorno tutti i lavori termineranno e si potrà riprendere a sfrecciare sulle strade con i nostri bolidi noleggiati a lungo termine – così è come avere sempre la macchina nuova –  e tornare a far valere il principio della velocità come fattore discriminante della società. Ora, tutti fermi in coda, sembriamo davvero tutti uguali. Il piano dei poteri forti è molto più democratico di quando potessi immaginare.

guida turistica di un posto in cui non c’è assolutamente niente da vedere

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“Guida turistica di un posto in cui non c’è assolutamente niente da vedere”, o, come si legge nel sottotitolo, “Il bus davanti”, è un’esauriente raccolta di momenti e di luoghi che generalmente poi non si ricordano, con l’obiettivo invece di costringerci a tenerli a mente. Non ci credete? Se vi succede di stare fermi in coda nel traffico segnatevi data, ora e coordinate geografiche del posto (potete mandare la posizione a qualcuno tramite Whatsapp) e poi appiccicatevi un post-it sul frigo ma uno di quelli con l’adesivo bello resistente perché dovrà restare appeso dieci o vent’anni, in modo che tra dieci o vent’anni vi consenta di ricordarvi persino del lotto di case popolari in cui si è accesa la prima luce del mattino e che ha dato il via al tour di quel luogo in cui non c’è assolutamente niente da vedere.

Oppure, ed è per questo che si parla di un bus davanti, della pubblicità del concessionario che ha utilizzato una mediocre clip-art di Charlot completamente decontestualizzata dal messaggio in cui si parlava, appunto, di auto usate, posizionato sul retro del bus che vi precede a passo d’uomo fermo. Saremo vecchi e queste madeleine di fastidio urbano ci evocheranno le stesse sensazioni. Il fatto è che avere un autobus davanti in coda non lo si augura nemmeno al nostro peggior nemico. Così grande e grosso e farcito di persone in mascherina chirurgica ostruisce la visibilità e impedisce di capire se c’è margine per passare davanti e toglierselo dai coglioni senza fare un frontale con qualcuno che arriva nel senso di marcia opposto.

Peggio di un bus ci sono solo gli ufo la mattina, quei camion con le luci lampeggianti nel buio che procedono con la stazza di un pachiderma e la flemma di una lumaca e che quando si approssimano all’incrocio e, per forza di cose, devi dar loro la precedenza perché hanno tutti i requisiti per prendersela, realizzi amaramente che vanno nella tua stessa direzione con una lentezza che in natura si trova solo negli animali morti. Ma sopra il lampeggiante continua a lanciare il suo segnale che induce a prestare attenzione, quello è un mezzo più pesante e ingombrante di una bisarca che trasporta bisarche.

Mi vedete? Fermo con l’ufo a pochi metri dal parabrezza. A destra ci sono studenti e stranieri in attesa dell’autobus. A sinistra un quartiere sovietico con una Mercedes d’annata parcheggiata sotto, il logo sulla punta piegato da qualcuno che non ha fatto in tempo a rubarlo, come si faceva da ragazzi con quello della Volkswagen e non chiedetemi il perché. Il conducente dietro si sfoga sul clacson come se il suono emesso dal suo autoveicolo fosse in grado di spazzare via gli ostacoli che ha di fronte e che, vuoi per il bus o per l’ufo che va ancora più lento del bus, nessuno riesce a capire quanti sono o anche solo se c’è un anziano sulla sua Ford grigia che accompagna la moglie a fare le analisi del sangue. Mi verrebbe voglia di scendere – tanto siamo poco più che fermi – e ricordargli che il problema è tutto suo, che avrebbe dovuto partire da casa un’ora prima di quel momento in cui attraversare la città diventa la parte più difficile di tutto il viaggio di lavoro. Io di trasferte non ne faccio più, se sono qui è perché accompagno mia figlia al capolinea della gialla e attraverso un pezzo di Quarto Oggiaro per dirigermi verso ovest. E comunque, quando mi toccavano, mi trovavo nella solitudine di farmi la barba alle quattro e mezza per raggiungere prima delle sei del mattino la barriera di Milano Sud. Ora passo in una brughiera in cui le cose peggiori sono il limite dei 70 in superstrada, le cavallette in volo che scontrano sonoramente il parabrezza, certe macchine da ottantamila euro con le targhe straniere e il benzinaio extralarge che ha l’unghia del mignolo lunga, solo quella, e non ho ancora capito perché. Forse suona la chitarra classica, glielo chiederò, prima o poi.