succede solo quando agesci d’istinto

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Del Paolo e dell’Elisa non vi avevo mai raccontato, vero? No perché è una delle più belle storie d’amore di cui sono mai venuto a sapere. Allora prendete i popcorn e mettetevi comodi. Sentite qui. Il Paolo e l’Elisa si conoscono da sempre, probabilmente da prima dell’età delle medie o giù di lì, da quando cioè i rispettivi genitori li iscrivono in uno di quei gruppi che si riuniscono per fare gite in montagna e pregare insieme vestiti con i pantaloncini corti anche d’inverno. Avete capito, vero? Non scrivo il nome di questa organizzazione internazionale di ragazzini guidati da capi e guide per non incorrere nella lotteria dei motori di ricerca, giacché i nomi che ho usato sono proprio quelli veri e non vorrei mai che il Paolo o l’Elisa capitassero da queste parti. Qualora succedesse ciao Paolo e ciao Elisa, sappiate che vi stimo entrambi e che ho maturato un rispetto talmente elevato delle vostre divise, dei vostri fazzoletti e dei vostri distintivi che ho fatto di tutto affinché mia figlia mostrasse interesse per questo tipo di vita comunitaria. Ma, e lo saprete meglio di me, i figli crescono proprio come i genitori. Con un padre misantropo e dalla manualità pari a quella di un pesce rosso non potevo pretendere di più, e ci tengo a confermarvi che il mio non è sarcasmo nei confronti della vostra linea di comportamento, c’è invece tanta invidia per aver gettato via finesettimana chiuso in cantine puzzolenti a suonare e fumare erba scadente anziché, come voi, a lodare Dio e la natura su per i monti, nell’atmosfera promiscua delle tende piantate sui cocuzzoli degli appennini mentre noi, al massimo, eravamo condannati ad anelare a una fugace limonata ai giardinetti.

Non a caso campi e cambuse sono state galeotte per molti. Paolo ed Elisa nì, come direbbe il mio ex capo che si è dato alla macchia, nel senso che Paolo deve aver capito subito – un po’ come la storia di Carl Fredicksen e signora in Up della Pixar – che Elisa era fatta di tutti gli ingredienti giusti per creare l’amalgama perfetto per trascorrere tutta la vita insieme. Elisa forse no, c’è arrivata dopo, ma dal modo in cui è nata la loro unione posso assicurarvi che si si potrebbe ricavare almeno un romanzo, se non un cartone animato si successo.

Il papà di Elisa era un vero alpinista e scalatore, di quelli che si imbragano con funi e chiodi e martello e si avvicinano a Dio per la strada più breve ma più impervia, quella che noi umani non vediamo perché nascosta sulla superficie scoscesa delle pareti rocciose e si snoda lungo un messaggio in codice fatto di nicchie e appigli che i membri di questa razza di eletti vedono solo loro. Ma capita che, come tutte le discipline estreme, sia anche la via più veloce e, soprattutto, la più soggetta alla forza di gravità. Fraintendi un appiglio, non cogli il segnale di una nicchia e voli giù. Non so bene come sia andata, ma al papà di Elisa è capitato proprio di prendere la scorciatoia in un punto delle Alpi Marittime che non saprei identificare nemmeno se esistesse una specie di Google Maps per i luoghi delle tragedie, che ve lo immaginate uno come Bruno Vespa con uno strumento così? Altro che plastici. Ci uscirebbero chissà quante stagioni di Porta a porta.

Ora non so quanti anni avesse Elisa quando ha perso il papà alpinista in uno dei frequenti drammi della montagna, ma mi piace immaginare che fosse abbastanza giovane da non indurre la mamma a sottrarre la bambina alla passione del padre, perché la montagna è di una bellezza senza paragoni e se la vivi con soggezione, come per esempio succede a me che vengo dalla città e dalle vetrine illuminate, perdi più di un’occasione per capire come funzionano le cose. La metafisica, intendo, quello che l’uomo ha dentro e tutto il resto. Non a caso Elisa continua a frequentare la squadriglia anche perché lì ci sono tutti gli amici e soprattutto Paolo che probabilmente fino ad ora è uno come tanti altri.

Poi però succede che le coccinelle diventano lupetti e poi non so, il livello successivo, diciamo quello a cui si accede intorno ai sedici anni e rotti. Non sono dell’ambiente, non conosco il linguaggio tecnico, scusate la ripetuta cialtronaggine. Paolo, Elisa e una manciata di esploratori come loro si ritrovano a bivaccare proprio nei pressi in cui si è consumato l’incidente che ha negato ad Elisa la possibilità di diventare grande con il suo papà a fianco. Qui c’è stato il colpo di genio di Paolo, sia che lo intendiate come una mossa per conquistare l’oggetto dei desideri, sia che crediate come me a quella grande percentuale di sensibilità di cui certe persone sono intrise. Non quei barlafus come il sottoscritto, e poi capirete il perché.

Fatto sta che Paolo, mentre tutti sono in cerchio intorno al fuoco di sera a condividere stati d’animo e racconti di varia intimità, Paolo imbraccia la chitarra che è un must di quei gruppi organizzati (faccio una parentesi: vi ricordate quella specie di raduno da guinness dei primati in cui la gioventù ardente di fede ha cantato in coro le bionde trecce con l’accompagnamento di migliaia di chitarre acustiche allo stadio di non ricordo dove in occasione di una visita del pontefice polacco?) dicevo Paolo, che sapeva che il luogo in cui stavano campeggiando aveva un valore particolare per Elisa, Paolo imbraccia la chitarra e canta i versi di quella canzone che parla di un signore delle cime con la esse maiuscola, un canto che ha un testo così struggente che se non fossimo così stupidamente sarcastici e secolarizzati sapremmo che incarna una certa spiritualità, l’altimetria che porta in contatto con la grande anima che chi crede vede nelle cose e nei posti, una versione un po’ pagana dell’essere cristiani che però, oggettivamente, ha un suo perché e sono tutto sommato contento che ci sia chi si bea di questo tipo di esperienza alla faccia mia che al massimo sublimo con Paul Auster o con i Tv on the Radio.

Comunque Paolo canta questa canzone che ha un significato profondissimo per Elisa, e in quell’atmosfera fatta di barrè e di falsetto, Elisa cade prigioniera di un amore che potrebbe tranquillamente finire negli annali dello scoutismo (ops mi è scappato e mi sono tradito). Elisa capisce che Paolo ha un animo talmente profondo che può accogliere tutto il suo passato, tutto quel presente fatto di ombre da falò e di boschi e di vallate e di stelle, e tutto il futuro che davvero, credetemi, fila liscio se non fosse per un piccolo incidente di cui mi assumo tutta la responsabilità ma che è davvero una pagliuzza in un campo di grano grande come il mondo sopra il livello del mare.

Paolo ed Elisa si sono infatti poi sposati e vivono felici e contenti e riprodotti, almeno così credo perché non li vedo da almeno quindici anni. La morale di questa storia, che, ripeto, è una delle più belle storie d’amore che io conosca, è che quando cammini in montagna senti qualcosa che davvero non è possibile cogliere, che poi noi aridi riempitori di blog cerchiamo di descrivere a parole ma non abbiamo avuto quel battesimo che non è quello che poi ti porta alla comunione o agli altri sacramenti, ma è quello di quella cosa che si avvicina a un’idea di amicizia che tante altre situazioni che passi nella vita ti danno solo un assaggio ma è tutta una questione di pressione, di aria rarefatta, di vicinanza con i raggi solari e anche di colori, che così tanti non ne vedi proprio da nessun’altra parte.

mi costituisco

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Condannate me, condannatemi all’ergastolo. Altro che sette anni per concussione. Chiudetemi in galera e buttate via la chiave perché sono colpevole. Sono reo confesso, altro che mitomane. Perché è colpa mia, sono io la causa. Io ho contribuito con la mia complicità memorizzando sul pulsante numero cinque del telecomando del primo tv color che è entrato sontuosamente in casa mia nel 1980, un mastodontico ITT con tanto di slot sotto lo schermo porta-telecomando. Sedici programmi, il primo stadio verso il progressivo impigrimento della nostra specie non più costretta a comprimere gli addominali per tirarsi sul dal divano in finta pelle per passare dal primo canale al secondo alla comparsa del triangolino chiaro intermittente in basso, segno che dall’altra parte iniziava la trasmissione concorrente.

Sul pulsantino numero cinque, dopo il tre che ai tempi si dedicava a Tele Montecarlo e il quattro alla principale emittente locale, confesso di aver memorizzato Canale 5. Ma se avessi solo immaginato tutto quello che ne sarebbe derivato, potessi tornare indietro ci metterei una seconda volta Teleradio City, con la Giusy e il Leprotto Milcaro e le trasmissioni sponsorizzate dal mito del far west di Cavaria City. Ma io so che tutti voi che state leggendo siete passibili di pena quanto me. Mal comune mezzo gaudio. Se avessi saputo non avrei gettato via il mio tempo con i comici del Drive in, con i Jefferson e Archie Bunker e tutta quella merda che già allora era inesorabilmente superata. Non avrei atteso l’ennesimo show di Bill Cosby e la sua famiglia così afroamericana solo perché avevo un debole per Lisa Bonet. E ancora prima i cartoni animati, per non parlare di quel gigantesco marshmallow appiccicoso in cui ci sono finiti tutti, Franco e Ciccio, Raimondo e Sandra, Pippo Baudo e la Cuccarini e la Carrà fino all’apoteosi di Mike Bongiorno, la transustantazione, il verbo che si trasforma nel corpo di un vettore come l’ex rischiatutto in grado di plasmarsi in qualunque forma come tutti i suoi colleghi dello spettacolo, grazie al denaro sonante. Un filone d’oro come quello del Klondike che passa anche attraverso quel Claudio Bisio che poi ha la faccia tosta di presentare le kermesse elettorali dei sindaci di Sinistra Ecologia e Libertà, e per i comici che arrivano da Radio Popolare con il loro programma innovativo sul calcio come non lo avete mai visto, i cabarettisti che imitano e si burlano della famiglia reale con le tasche gonfie di mance come l’ultimo degli intrattenitori da matrimonio, con tutto il rispetto per gli intrattenitori da matrimonio.

Ecco, ogni ora della nostra vita che abbiamo perso davanti a una parte di questo progetto che ha dato una forma inusuale al nostro stivale trasformandolo in uno di quelli che si mettono le donne un po’ volgarotte, quelli alti fino a metà coscia, ogni minuto di trasmissione che abbiamo seguito, anche quelle dichiarate in differita ma sincronizzate come se fossero in diretta e ricordo benissimo un veglione di capodanno registrato il 30 dicembre per essere trasmesso la sera dopo con il countdown impeccabile a cavallo della mezzanotte e dio solo sa in quanti l’hanno guardato. Ogni secondo in cui il nostro televisore è rimasto sintonizzato sul canale del maligno, un voto gli è arrivato dritto al cuore e gli ha gonfiato il portafoglio, gli ha fruttato qualche milione di lire in pubblicità, gli ha spianato qualche chilometro di strada in consenso popolare.

Ma, soprattutto, ciascuno di quei singoli istanti ha condizionato almeno qualche giorno della nostra storia. Mettete insieme quante ore di programmi sono state seguite da allora a questa sera, all’ultimo TG5 che ha gridato vendetta al complotto della giustizia politicizzata, e otterrete un impero vasto almeno cento volte la superficie del mondo che abitiamo. Che non è tanto quello che si vede sopra a questo nuovo pianeta del sistema solare grande più di tutti gli altri messi insieme. Ma è la sua sostanza, che è la stessa della dignità del Sallusti di turno che è talmente liquida da rimescolarsi nel torbido ad ogni dichiarazione, a ogni articolo, a ogni frase in cui nega la verità. Questo mondo, che in molti vorremmo fosse spazzato via da un meteorite un giorno di questi, vive e pulsa sotto i nostri piedi e i suoi effluvi nemmeno li sentiamo più, tanto siamo fatti dello stesso liquame. Ora lo sapete. Sono stato io. Sono stato anche io. Non merito il vostro perdono. Ed è giusti che io paghi.

sempre più in alto, sempre più in alto

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Quelli affetti da poveraccismo, che è una delle piaghe sociali verso le quali è più difficile rimanere indenni, li sgami subito in montagna. Vi chiederete come faccia a saperlo. Che domande. Quelli come me partono con il doppio della roba da vestire anche per soggiorni brevi, di una settimana, perché in montagna non si sa mai a che tempo si va incontro. Troppo caldo, caldo, normale, freddo, troppo freddo. E spesso tutto in un’unica giornata. Questo è il bello della montagna. Se non sei sulle Dolomiti corri il rischio di annoiarti, ma se in un giorno passi attraverso tutte le combinazioni climatiche che in città vedresti almeno in un paio di stagioni come minimo la cosa si fa divertente. La montagna è imprevedibile. Quindi quelli affetti da poveraccismo come me partono con il doppio della roba perché possono aver bisogno sia dell’abbigliamento leggero e disimpegnato che di indumenti da settimana bianca. Avranno quindi con sè una valigia per la roba tardo-invernale e una per quella proto-estiva. Gli appassionati delle vette più facoltosi invece possono permettere quei capi di tessuto “tennico” e miracoloso che tengono caldo quando fa freddo, non fanno sudare se c’è il sole a picco, mantengono temperature costanti in caso di temperatura costante fuori, comportandosi in un modo neutrale che non ha paragoni. Nessuno sa chi tesse quei vestiti degli dei e chi li commercia, fermo restando che magari trovi anche dei negozi che li mettono in vetrina ma hanno la buona creanza di non scriverne il prezzo, rendendoteli ancora più agognati. Che poi a me l’abbigliamento “tennico” mi è sempre stato qui, e in tutti i contesti. A partire dai motociciclisti che sembrano adepti del culto di Batman, ma gli addetti ai lavori mi ricordano che quella specie di guaina ti protegge dagli scorticamenti con i tessuti comuni in caso di caduta. Ok, mi avete convinto. In montagna invece è diverso, se vedi le foto degli alpinisti del tempo che fu nessuno sembra uscito da Star Trek come oggi. Abiti scozzesi, a rombi, velluti, cappelli con visiera e pipa. No, quella l’aveva solo Pertini a Selva di Val Gardena. Ma è difficile eguagliare un livello di eleganza così elevato, e non c’è completo coordinato che tenga. L’ultimo anello della catena sono i poveracci, quelli come me, con i golfini dell’ufficio sotto il pile del Decathlon sotto il k-way delle gite dell’oratorio, che i ricchi hanno il potere d’acquisto di sintetizzare un un’unica giacca da migliaia di euro, probabilmente da indossare con niente sotto.

con tutte quelle bollicine

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In una lettera che scrissi al mio migliore amico di allora dalla consueta località di villeggiatura estiva, tra la quinta e la prima media, mi meravigliavo di un prodigioso passo avanti della tecnologia. Ogni volta in cui mi accingevo a mettere le cento lire nella fessura di uno dei videogiochi in auge ai tempi di cui non ricordo il nome – era un razzo che si muoveva lungo un percorso tipo Pac Man su sfondo azzurro cancellando i pixel bianchi sui quali doveva transitare – notavo che in alto, nella schermata, veniva visualizzata una parolaccia. La prima volta c’era scritto “puttanazza”, una seconda volta lessi “bagascione”. La novità di cui misi al corrente il mio migliore amico via lettera era che i videogiochi scrivevano le parolacce. Una notizia strabiliante, tanto che il mio migliore amico, così mi scrisse nella sua risposta la settimana successiva, fu sorpreso di questa nuova era delle macchine coprolale ma dubitava trattarsi di un particolare inventato dal sottoscritto. Come potete immaginare, la funzionalità di immissione del nome del giocatore una volta stabilito un record esulava dal mio ragionamento sequenziale, soprattutto io non ero ancora riuscito a impormi con un punteggio elevato né mai mi successe in futuro, sono sempre stato piuttosto mediocre nelle attività ludiche virtuali. Anche in quelle reali, già. Ma non è qui che volevo arrivare.

Riflettevo sulla personalizzazione degli oggetti con i nostri nomi o con i nostri pensieri e mi è venuta in mente quell’occasione sprecata, laddove presentandosi la possibilità di marchiare un qualcosa con i veri dati personali tale da diffondere la propria fama di campioni di asteroidi abbattuti o marziani esplosi, subentra quel lato zoticone che in noi e che ci fa scrivere volgarità perché vederle stampate ci riempie di orgoglio. E riflettevo sulla personalizzazione degli oggetti perché è da un po’ di tempo che noto lattine e bottiglie di Coca Cola che al posto della marca hanno stampate altre parole. Nomi, soprannomi, epiteti, scritti con il celebre font che è tutto uno svolazzo. Così mi sono informato e ho letto che si tratta di una vera e propria campagna denominata “Condividi una Coca Cola”, che oltre a prodotti già pronti con nomi e modi di chiamare gli altri più comuni comprenderà una sorta di operazione sul campo, un road show in cui chiunque potrà chiedere una personalizzazione ancora più puntuale.

Mi ha lasciato perplesso però vedere che, oggetto di questa campagna, ci sono anche i bottiglioni da più litri che si vendono al supermercato, e pensavo che condividere questi quantitativi con qualcuno non è il massimo, nel senso che alla fine ingurgiti un litro di bevanda gassata a testa e poi passi ore e ore in allegria a suon di rutti con la persona a cui hai dedicato il bottiglione. Ora, per fortuna non bevo Coca Cola, non mi piacciono molto le bevande dolci gassate, piuttosto prendo una pinta di birra, ma personalizzare un prodotto che poi ti riempie la pancia di aria non è consigliato se vuoi bene alla persona con cui vuoi condividere l’esperienza. Almeno, se me ne regalassero una con su il mio nome o anche il nick plus1gmt mi sorgerebbero dubbi sul rapporto che ho con la persona che ha avuto l’idea. Proverò però a chiedere se è possibile scrivere le parolacce sulle lattine, magari quel mio migliore amico che non vedo da allora sarebbe altrettanto meravigliato di bere una Coca Cola da condividere con “Stocazzo”.

il rimbom-bom-bom-bom-bom-bom-bombo irlandese

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Se tra le pietre miliari del vostro background culturale sono presenti i due celebri volumetti della “Storia e gloria della dinastia dei paperi“, converrete con me che le storie e le vanaglorie del magnate più amato dagli italiani ricordano per certi versi quelle del plutocrate paperopolese, che nascondeva ricchezze e averi un po’ ovunque per i più svariati motivi. Magari non certo quelli fiscali come il nostro, anzi, come il vostro, anzi – spero – come il loro. Ogni tanto da un paese più o meno lontano si ode una eco di un riciclaggio, di un conto, di un investimento, di un paradiso fiscale di cui qualche prestanome si sta approfittando. Ecco, la notizia dell’ultima ora sull’indagine da parte delle autorità irlandesi mi ha fatto venire in mente che a Berlusconi gli manca solo di nascondere il denaro sulla luna, come nella celebre storia introduttiva della saga disneyana, e le avremo sentite tutte. O quasi.

Zio_pap_rimbombo

good by

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L’uso di by nel naming di negozi, catene, ditte e varie amenità professionali nell’accezione di “a cura di”, “sotto il patrocinio” o “ideato da” è ormai una costante della nostra civiltà sebbene non sia così anglofona, ma se prima ho scritto “naming” anziché “nel modo di nominare” è perché ci piace fare gli stranieri, figuratevi a uno come me che da grande vorrebbe diventare uno scrittore americano. Comunque alla centesima Fiat che sorpassi in autostrada con la carrozzeria firmata “by Tony Fassina” e ti immagini l’omino in tuta blu nell’officina con i calendari tutti zinne e chiappe che, terminata la sua opera, si munisce di pennello e tavolozza per siglare la sua opera d’arte, ti viene in mente che l’anglismo fa un po’ sorridere con nomi e cognomi così spudoratamente italiani, spesso del sud, e se vi sembra una prospettiva a torto oltranzista provate a dare un’occhiata alle insegne al neon dei parrucchieri, sulle porte a vetri dei negozi di abbigliamento che si manifestano orgogliosamente indipendenti dalla morsa dei franchising. Tutti quegli esercizi destinati a scomparire che ci tengono che sciampiste e quei gran geni dei nostri amici che loro sanno cosa fare e sanno come aggiustare perché con un cacciavite in mano fanno miracoli, possano dichiarare di guadagnarsi il pane nel loro by qualcosa. Cerchiamo di raccoglierli, allora, tutti questi by, facciamone un’enciclopedia per renderci conto di quanto siamo produttivi, imprenditori, esercenti. Perché anche un semplice “di” ci sta bene, la preposizione semplice alla fine è la morte sua e, se non ci credete, provate a vedere un vecchio caro dizionario partecipato come questo. Così una ragione sociale come “L’Isola della Moda” sarà seguita da “di Samantha” rigorosamente con la acca, e almeno un problema è risolto. Resta solo quello del modo di chiamarsi che hanno le persone, un ostacolo che, purtroppo, sarà sempre peggio e tanti saluti. Anzi, by by.

non siamo soli

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Cosa hai da guardare? Anche a un’operaia tessile può succedere che dopo il turno debba fermarsi un istante, con la sigaretta in bocca di fronte ai cancelli, a controllare le chiamate e i messaggi persi sullo smartphone e che ci sia un figlio a cui dare una risposta, un amante da accontentare, un anziano genitore a cui fornire conforto, un problema a cui trovare una soluzione o di cui capire la gravità per muovere la prima mossa. Anche al personale delle pulizie che sgombra i rifiuti dai numerosi contenitori della differenziata dei vostri studi professionali nei quali avete passato una giornata ad aggiornare lo status su Facebook può squillare il cellulare con una melodia con cui difficilmente potreste familiarizzare. Una ballata pop dell’Ecuador, un canto popolare delle Filippine, una danza di un’ex repubblica sovietica che scambieremmo senza indugi per un inno militare buono per una parata di guerra in tempo di pace, con i soldati tutti uguali che voltano il viso di tre quarti per rendere omaggio al segretario del partito in un tripudio di bandiere rosse. E che alla risposta, oltre lo scatto della compagnia telefonica più conveniente, segua una conversazione privata. C’è la vita oltre il lavoro anche per chi pensiamo ci debba essere il lavoro e basta, persone delle quali abbiamo una percezione solo per quello che fanno. Chi vende fiori o libretti di poesie di altri continenti, chi smista volantini o lava le scale, chi controlla macchinari in fabbrica o si accerta che nessuno se la svigni senza aver pagato la camicetta made in India. Ci sono case, famiglie e storie dietro chiunque, e ci dovrebbe sorprendere il contrario.

perché non mi piacciono quelli di colore

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Con la bella stagione spuntano come funghi e puoi giudicarli senza sbagliare perché sono tutti dello stesso stampo. Cerco di starne lontano perché la loro prossimità mi mette a disagio, così distanti da me e quindi, giustamente, meglio non mescolarsi. E non ho mai capito come possano circolare liberamente in mezzo alle persone normali quando un po’ di sana segregazione non guasterebbe. Ce ne sono di due tipi, rossi e gialli, ma quelli che indossano pantaloni di questi colori si assomigliano e appartengono sicuramente alla stessa razza. Con scarpe da vela, recentemente usano quegli obbrobri di marche italiane, e sopra camicia e Lacoste. A qualunque età, ma di norma sui trenta e quaranta e oltre. Al mare, in campagna, in montagna e pure in città. Non so voi, ma i pantaloni rossi e gialli da uomo dovrebbero essere dichiarati fuorilegge, contro natura, da smantellare come l’amianto, vietati nei centri urbani come gli autoveicoli non euro quattro. Gravare chi li sfoggia di tasse supplementari, tanto il grano ce l’hanno, poche storie. Bandirli perché non in linea con il decoro ambientale, una sorta di reato contro il genere umano, fuori dalle linee guida della Convenzione di Ginevra e della Croce Rossa. Urticanti quanto lo spray al peperoncino o la cipolla affettata. Letali quanto un concerto di Biagio Antonacci. Prende il via così da queste pagine una campagna contro lo smercio, l’acquisto e l’uso di pantaloni da uomo rossi e gialli. Dileggiate chi li indossa, non fidatevi di chi li difende. Ci vorrebbero autobus a parte, ingressi dedicati, fontanelle a loro uso esclusivo e campi di cotone.

in una città che è tutta un saliscendi

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Il Super Tele blu a pentagoni neri rotola giù lungo la strada in discesa mentre sopraggiunge nell’altro senso una Panda a una velocità oggettivamente sostenuta che però l’autista ritiene opportuna per affrontare la salita. Su un marciapiede una donna sta rimproverando un uomo per aver effettuato un lancio insufficiente a mandare il Super Tele blu a pentagoni neri sul marciapiede opposto tra le braccia di un bambino che, pochi istanti prima, si era lasciato sfuggire il pallone che aveva preso velocità, rimbalzando nel mezzo della via e rotolando giù, prima che l’uomo la recuperasse e, anziché consegnarla in mano al bambino, aveva tentato un gesto atletico e un passaggio improbabile. L’uomo era scattato prontamente, prima, a impedire che il Super Tele blu a pentagoni neri facesse una fine indegna non appena la madre del bambino, sul marciapiede opposto, aveva sgridato il figlio perché non si gioca in strada. La madre è molto bella, e probabilmente l’uomo ha agito un po’ per farsi notare, si è lasciato prendere la mano ma ha lasciato sfuggire la palla, il lancio non gli è riuscito. Al volante della Panda io non ho fatto in tempo a frenare e la palla è finita chissà dove, la vedo sparire dalla visuale dello specchietto retrovisore e tiro un sospiro di sollievo perché è una fortuna, ogni tanto, essere solo spettatori.

babel

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Dovreste apprezzare di più quelle città poco uniformi che ci abituano alla convivenza ravvicinata all’eccesso di diversi periodi e fasi architettoniche. Certo, capita di trovarsi di fronte a vere e proprie atrocità, ma certe armonie le possiamo cogliere anche noi che non siamo del mestiere e non siamo nemmeno fotografi, pronti ad astrarre tutto ciò che può essere condensato in un’istantanea e quindi con il perenne obiettivo mentale di cogliere lo specifico impressionabile digitalmente. Una dote che invidio. Prendete per esempio  il punto di via Pisani a Milano dove c’è la sede della KPMG, risalendo la strada verso la Stazione Centrale stando sotto il porticato di fronte. Quel palazzo lì con sopra il grattacielo di Gio Ponti lungo una via che sembra Karl Marx Allee, be’ non esageriamo, con lo sfondo della facciata della stazione. Non è un bellissimo scorcio?

Ma poi passi di la mattina, noti il contrasto tra cemento, acciaio e cielo che fa tanto Défense e subito dopo ti cade l’occhio sui numerosi homeless che hanno passato la notte lì sotto, sulle saracinesche di esercizi che non esistono più ma che conservano qualche vestigia della loro precedente vita. I negozi, dico. Manifesti che promettono piatti ricercati e dentro solo calcinacci, nastro adesivo appallottolato, guanti da lavoro spaiati e macchiati di vernice. Davanti un’infilata di esponenti di una sotto-classe sociale che non arriva nemmeno a quelli che chiedono l’elemosina o suonano strumenti di dubbia intonazione in metropolitana. Dentro la stazione ci sono invece spiantati un po’ più dignitosi appisolati sulle sedie, in attesa perpetua di un treno che non partirà e non arriverà mai. Un ragazzo con una borsa con su scritto Senegal su sfondo dei colori del reggae si è addormentato con quella specie di corona del rosario che non so come si chiama in mano, e quando se ne accorge è troppo tardi ed è costretto a raccoglierla sotto la sedia della vicina.

I passeggeri con il biglietto regolamentare invece li riconosci perché sono pronti a scattare. Attesa, conferma binario, carrozza e numero di posto. Dai bar escono i profumi tipici della colazione all’italiana, i cornetti industriali e i cappucci con le dediche al cacao. Non è come all’estero che senti odore di pasti  più consistenti a ogni ora del giorno. Mio padre si è stupito di questo, l’unica volta in vita sua che – per un giorno solo – è stato all’estero. Sono fragranze di cibo che sembrano più sane, e per notarlo non serve essere esterofili a tutti i costi o andare agli antipodi del pianeta. Prendete la vicina Svizzera, anche solo i paesi che sono a pochi minuti dal confine. Se non considerate i fast food e gli avamposti della globalizzazione gastronomica o quel persistente olezzo di cipolla che ti rimane nei capelli in certe metropolitane delle grandi città europee, anche solo l’odore di una pizza, sentito alle nove del mattino, tradisce ingredienti più sani. Sembra tutto più amichevole. Certo. Basta pagare.

La Svizzera poi, con il suo essere un paese neutrale, un coacervo di cantoni con lingue diverse che non sai mai quale sia la sua vera natura, per noi rimane un mistero e, come tale, estremamente contraddittorio. Così vicina ma così lontana, con una moneta tutta sua, la sua moderazione proverbiale, la sua sobrietà che inizia dalla grafica della bandiera. Così fiscale e così paradiso degli evasori, a due passi da qui e sei già in territorio straniero dove tu italiano sei comunque uno del sud, di bassa statura, con l’accento napoletano. Fai una curva e cambia la segnaletica stradale, ci vuole una specie di lasciapassare per l’autostrada che in italiano suona come un cartone animato che fa ridere. Pensate al concetto stesso di frontalieri, che te li immagini arrampicati lungo un passo impervio a trasportare merce di contrabbando – cioccolatini e orologi di precisione in un senso, mozzarelle e criminalità organizzata nell’altro – al mercato nero. E poi pensi: ma di che razza sono? In Svizzera coesiste davvero di tutto, puoi vedere donne arabe incappucciate chiedere informazioni a un ragazzo palesemente orientale con le cuffiette e l’iPhone, mentre intorno esplode l’entusiasmo di una scolaresca di ragazze con la loro assurda moda di girare in canotta e collant. Tutto questo perché noi, come loro, come gli svizzeri intendo, siamo un po’ tutto. C’è solo da abituarsi, tanto all’estero – remoto o a due passi – si può tornare quando si vuole, a immaginare anche solo cosa stanno cucinando di così invitante a nostra insaputa.