il numero uno delle scarpe online

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Pensate se l’evoluzione del marketing seguisse le tecniche di quello digitale che quando ti soffermi a valutare un paio di scarpe stringate in camoscio marrone su un sito poi è tutto un proliferare di scarpe stringate in camoscio marrone. Scarpe stringate in camoscio marrone nella pagina della posta, scarpe stringate in camoscio marrone nella home di Facebook, scarpe stringate in camoscio marrone ai lati dell’articolo di giornale, scarpe stringate in camoscio marrone stampate sul banner del sito in cui cerchi la corretta rappresentazione della relazione tra due insieme disgiunti per i compiti di prima media di tua figlia. Succede che poi di scarpe stringate in camoscio marrone non ne puoi più e sicuramente esisterà un sistema per mettere un argine a questa sovraesposizione compulsiva pensata da un sistema diabolico ma volta al tuo compiacimento per sfinimento. Magari un controllo che al ventesimo advertising dello stesso prodotto di scarpe stringate in camoscio marrone basta, non passa più e si torna a vivere sereni fino a quando tua moglie cerca una felpa blu con cerniera per la bambina e tutto riparte da capo con le felpe blu con cerniera che te le sogni pure di notte, fino alla ricerca successiva.

Provate quindi a proiettare questa tecnica sulla pubblicità diciamo tradizionale, quella che non notate più sui cartelloni perché non è abbastanza coinvolgente come quella tutta scatti, faccine e volumi che si alzano a tradimento durante una qualunque navigazione in internet. Provate a far finta che soffermarvi davanti a una vetrina per sbirciare il prezzo inarrivabile del cappotto imbottito e impermeabile poi generi le stesse conseguenze. Vi passano appresso una serie di persone che indossano quel cappotto e che ammiccano come a dire “sono bello, vero? Potresti essere anche tu così. chiedimi come”, il vigile urbano all’incrocio vi lascia libero l’attraversamento sfoggiando ancora quel modello ma in versione forze armate, acquistate Repubblica e la foto di Renzi in prima pagina non lascia dubbi sulla condivisione dei gusti in fatto di abbigliamento, ha proprio lo stesso cappotto e la cosa prende una piega sempre meno piacevole. Fino a quando in ufficio numerosi vostri colleghi sfoggiano lo stesso modello che vorreste acquistare riponendolo sull’appendiabiti con il cartellino del prezzo ancora attaccato all’asola del bottone, poi arriva il ragazzo del bar a portare la colazione all’amministratore delegato e ha lo stesso capo (nel senso del cappotto, che cosa avevate capito) coperto da un grembiule per evitare le macchie dello zucchero a velo, e via così fino ad arrivare a sera che, se siete come me, di quel cappotto ne avete fin sopra i capelli ma non è niente perché la mattina dopo è la volta di un avvitatore automatico a batterie completo di punte da trapano e vediamo, alla lunga, che cosa rimpiangerete.

zero punto zero, ovvero la vita prima di Internet

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E voi, la vita prima della rivoluzione Internet ve la ricordate? Quella in cui era tutto sulle nostre spalle a partire dalla responsabilità delle opinioni perché non c’era nessun modo per esprimersi senza metterci la faccia fino alle telefonate fatte alle ragazze, con la speranza che nessuno rispondesse al loro posto, tanto meno il padre. Federica, per esempio, aveva il papà maresciallo dei Carabinieri, e quando sentivo la sua voce buttavo giù. La madre di Tiziana, invece, che aveva scoperto la nostra tresca sul nascere, mi aveva detto chiaramente che non voleva che la figlia intrecciasse relazioni con tipi come me, tutti vestiti di nero con la cresta cotonata. Ma non è solo questo. Che cosa facevamo prima? Con cosa impiegavamo tutto il nostro tempo libero prima di diventare tutti blogger, grafici, battutisti di twitteratura o commentatori dell’attualità? Che cosa ce ne facevamo di tutta questa libertà dalle schiavitù digitali e di tutta questa privacy? Potremmo chiudere qui con una bella generalizzazione, dicendo cioè che ci siamo dimostrati omuncoli della peggior specie se abbiamo dimostrato in fondo che non aspettavamo altro che dei sistemi di intrattenimento statici audiovisivi e più o meno gratuiti per gettare alle ortiche secoli di arti e mestieri e abilità varie. Quanto parliamo di meno, per esempio. E non ditemi che la messaggistica istantanea e i social network permettono invece di mantenere rapporti remoti altrimenti impossibili da coltivare. Vero, ma non era questo il punto. Ditemi: quanto parliamo di meno? Tra di noi. Quanto ci confidiamo di meno, quanto cerchiamo dentro le cose che fanno divertire, quanto riusciamo a inventare per stupire il prossimo esaminandoci nell’intimo. Non ne faccio un metro di giudizio etico, né sto dicendo che la cosa mi piaccia di meno o di più o preferisco oggi a ieri o viceversa. Parliamo di meno perché il significato orale si discosta troppo dalla rappresentazione grafica e visuale, e a causa della frustrazione di non poter emettere una proposizione fatta e finita simultaneamente con un tasto invio che ci dia la consapevolezza del suo insieme, ma dovendoci esprimere parola per parola e sillaba per sillaba, con tutto l’andamento temporale che ne deriva così monodico nell’era del multitasking, inconsciamente facciamo un passo indietro e tentiamo un gesto, un escamotage, un imprevisto o un link stesso a un contenuto multimediale a potenziare la debolezza delle parole pronunciate, a cui non siamo più abituati. Ecco, ditemi voi: com’era la vostra vita prima di Internet?