prove tecniche di riflusso

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Siamo la prima orda di invasioni barbariche. Ho la primissima percezione di questo mentre, appoggiato al quadro svedese della palestra del liceo, seguo – cerco di seguire – il dibattito tra gli schieramenti dei collettivi scolastici. L’assemblea di istituto è gremita, il giorno dopo ritaglierò la foto sul quotidiano locale; ma già è evidente la nuance di impegno che dal rosso scarlatto dei veterani delle quinte porta al punto interrogativo rosa pallido su campo bianco dei novizi delle prime. L’attività del servizio d’ordine interno, dai fasti delle spedizioni antifasciste è declassata a requisire carte da gioco, cubi di Rubik insoluti e rudimentali battaglie navali. Davanti a me due compagni di classe si lasciano andare limonando abbracciati. Seguo sbigottito la querelle tra due diciottenni sui punti di rottura tra anarchia e comunismo. Dal fondo della palestra partono fischi, qualcuno distribuisce volantini dell’autonomia.

Lì ti osservo. Sembri uscita da una foto in bianco e nero di Tano D’Amico, un’istantanea rubata ad una manifestazione di gioiosa protesta di metà anni ’70. Non ancora settantasette, ma già libera dagli schemi post-rivoluzionari del ’68. Sei una femminista che non sa di esserlo. Ti immagino seduta sui banchi della facoltà, mentre elabori con la tua coscienza critica il messaggio politico di un intervento durante un’assemblea. Il tutto si manifesta nel tuo sguardo acuto che si focalizza in un punto definito. La risoluzione del problema. Ancora una foto, aspetta. Con il pugno alzato scandisci slogan di libertà con il sorriso, non hai una pettinatura, non hai un look. Sei un progetto con una lunga sciarpa a bande bicolori, grigio chiaro e grigio scuro. Un progetto vivente.

Hai una borsa di corda a tracolla, abbassi il pugno e torni a reggere lo striscione che porti con le tue compagne, tutte poco più che ventenni ma di quei vent’anni di allora, che nessuno riesce a rappresentare nemmeno nei film. I registi, specie quelli italiani che vogliono raccontare le Brigate Rosse, hanno la memoria estetica edulcorata dai luoghi comuni, ma non sarebbe un’impresa facile comunque. Le facce stesse sono diverse. Non so dove collocare lo spartiacque. Va da sé che da allora le espressioni del viso si sono involute. Lo stupore non esiste più. Per non parlare del fisico. Allora nessun corpo era modellato dal fitness, la meccanica applicata all’esercizio fisico, atleti d’allevamento. Al massimo canottaggio. La muscolatura era innata come genetica la magrezza. La moda era attillata perché non esistevano i pettorali a mezzaluna se non al circo. E io penso che mio padre ha da poco acquistato la tv a colori, e chissà dove faremo la gita.

la donna acquatica

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La donna acquatica ha la faccia come una goccia e anche il corpo, i capelli sono fiumi, gli occhi sono perle, la bocca è un’alga, il naso e le braccia sono conchiglie, l’ombelico è un riccio senza spine e i piedi sono pesci.

vacanze alla pari

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R. ed io ci diamo appuntamento per il giorno dopo, alle 11, in studio di postproduzione. R. è il cliente e la sua presenza, in fase di montaggio delle riprese e assemblaggio contenuti vari, non è indispensabile, ma mi piace coinvolgerlo perché è una delle persone più intelligenti che conosca e, visto che mi è sembrato entusiasta all’idea di partecipare alla produzione, è una buona occasione per fare un po’ di pi-erre. Ma, al telefono, aggiunge che porterà con sé all’appuntamento la sua assistente. R. è un manager, ma non mi risulta che abbia una assistente, il che mi incuriosisce. Può essere un segno che la sua azienda sta andando bene e che, grazie alla ripresa, il suo ottimo lavoro è stato ricompensato con un aiuto in grado di occuparsi delle attività di routine? Vedremo. Io poi mi bevo tutto, sono il perfetto target per scherzi e canzonature, perché penso che la gente parli sempre sul serio, sia onesta, dica la verità. Infatti, il mattino seguente, R. si presenta in studio con sua figlia per mano, una bimba di 8 anni. Già, è luglio, le scuole sono chiuse, e si presenta l’annoso problema comune del periodo estivo che precede le ferie, quelle ufficiali di tutta la famiglia.

E, se vi fermate a pensarci su, c’è davvero qualcosa che non va. Mia figlia ha finito la scuola venerdì 11 giugno e la riprenderà lunedì 12 settembre: i sacrosanti 3 mesi di vacanza, uno dei principali motivi per cui l’infanzia è un momento irripetibile, e ogni volta che mia figlia anela sospirando al suo futuro, o invidia mamma e papà per il fatto che non devono subire angherie dalle maestre mica tanto uniche, la liquido con un “goditela finché sei in tempo”, commento piuttosto grossolano ma efficace. Mamma e papà non possono fare più di 3 settimane di ferie, per via dell’agenzia in cui lavora papà, sostanzialmente, periodo che è bene passare tutti e 3 insieme, visto che per la maggior parte dell’anno ci si vede sì e no 4 ore al giorno svegli. E, più o meno, questa è la media. Restano ben 2 mesi e una settimana in cui occorre trovare un parchegg… ehm, una o più attività per far trascorrere il resto delle vacanze. E un sistema così scombinato è paradossale, ammetto sia ovvio ribadirlo, ma così è.

Molti uffici, anche quelli qui intorno, si riempiono di bambini che accompagnano i genitori al lavoro. Li vedi per mano, con un mini-zainetto Decathlon sulle spalle che contiene, sono pronto a scommetterci, i pennarelli, il pupazzo preferito, i più tecnologici il DS, qualche libro e tutto il necessaire per trascorrere una giornata, direi noiosa, seduti alla scrivania a fianco di mamma o papà, con i colleghi – non tutti – che si alternano a intrattenerli un po’ e rendere la permanenza più sopportabile. L’unica volta in cui ho dovuto far provare tale esperienza a mia figlia, lo stesso giorno sono iniziati alcuni lavori con 2 operai dotati di trapano e lei, era piccolina, si è spaventata. Ciò mi ha fornito un’ottima scusa per rientrare a casa nel giro di due ore. Esperienza finita. Valutazione: negativa.

Ma non esistono solo impiegati. C’è una ragazza addetta alle pulizie, nel palazzo, a furia di incontrarla almeno 3 volte alla settimana abbiamo preso – per mia iniziativa – a salutarci e, da qualche mese, a scambiare qualche parola, il tempo e il più e il meno, niente di che. Ho scritto ragazza perché mi sembrava molto giovane, tuttavia ho scoperto da poco essere già mamma di una bimba di 10 anni. E l’ho scoperto perché, ogni tanto, forse pure lei non ha i nonni sempre disponibili, è costretta a portare la figlia sul posto di lavoro. E così S., la bimba, sta lì in piedi con le braccia conserte ma con il sorriso pronto ad esplodere al mio saluto a osservare la madre che, con grande dignità, come è giusto che sia, lava il cortile interno. Le prime volte, ammetto, mi sono trovato un po’ a disagio. Vorrei dirvi non so perché, ma so di saperlo. Allora, un giorno ho fatto mia la battuta di R., il mio cliente, e da allora quando le incrocio, madre e figlia – e so di essere ripetitivo ma con i bambini esserlo dà molta soddisfazione, perché tutte le volte ridono anche se hanno sentito la stessa battuta o hanno visto lo stesso film centinaia di volte – se l’occasione è propizia, dico “Hey, anche oggi vedo che hai portato la tua assistente”. S. sorride, e la mamma ricambia il saluto, fa un sorriso che dura di meno e riprende il suo lavoro.

jam session

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Carletto ha chiesto e ottenuto dalla mamma il permesso per andare al primo concerto della sua vita. L’idea è stata tutta sua: ha notato un manifesto sul muro del palazzetto tornando da basket, ha coinvolto un paio di compagni di classe e in quattro e quattr’otto il progetto ha preso corpo. “Facciamoci coraggio”, si sono detti, “i nostri genitori non possono dirci di no. Abbiamo 13 anni, siamo grandi”. Così, il pomeriggio stesso, i ragazzi hanno preso di petto l’unico vero ostacolo. Ed è stato più semplice del previsto. Il concerto in fondo è di Edoardo Bennato, non stiamo parlando dei Clash, e si terrà nello stadio comunale, mica a Bologna, a poche fermate di autobus dalla casa di Carletto. Il periodo stesso, siamo a maggio inoltrato e l’anno scolastico è agli sgoccioli, invoglia alla permessività. “E sia”, dice il papà di Carletto, aggiungendo una valanga di raccomandazioni del caso: no passaggi in auto, no sigarette da sconosciuti, no bevande e cibi da nessuno, no parlare con ragazzi che sembrano drogati eccetera eccetera.

La nonna regala a Carletto le cinquemila lire con cui comprare il biglietto del concerto; l’unica rivendita autorizzata è lo studio di una radio libera. Carletto così, al ritorno da scuola la mattina dopo, passa dalla radio – un appartamento sulla via di casa – e, tutto fiero, rientra tenendo stretto in mano il suo biglietto verde con su il disegno di un’armonica a bocca che, dopo averlo mostrato con orgoglio ai familiari, ripone con cura nel cassetto della scrivania.

Giunge infine il giorno dell’evento, infrasettimanale. Carletto è pieno di dubbi: come ci si comporta a un concerto? Si sta in piedi o seduti? Si può cantare o no? Ci saranno ragazze carine? Non biasimatelo, è il primo concerto della sua vita. La nonna di Carletto, che lo vede un po’ in ansia, è la più preoccupata di tutti e, ancora meno esperta di happening di musica rock (Bennato ha appena pubblicato Il rock di Capitan Uncino, è molto più rock di altri sedicenti rockerz) fa domande poco pertinenti: “Ma se esci prima di cena dove mangi? Ti preparo qualcosa da portarti al concerto?”. Carletto ha la soluzione: mangerà un sostanzioso panino a merenda, prima di uscire. “Sì, ma comunque ti do un sacchetto con un po’ di ciliegie”. Con la nonna non si discute.

Ed ecco Carletto e suoi compagni di classe alla conquista del mondo. Jeans e maglietta, Carletto con un sacchetto di carta del panettiere pieno di dolcissimi frutti rossi. Lui e i suoi coetanei ne smangiucchiano un po’, ma ci sono troppe cose da scoprire intorno. Sono quasi tutti più grandi ma non importa. I cancelli sono ancora chiusi, la gente continua a confluire verso il campo sportivo. E, a dire la verità, ne confluisce un po’ troppa. Un paio di ore in piedi quindi i cancelli si aprono, e solo a quel punto Carletto comprende il concetto di calca. Piccolo e magro, come i suoi amici del resto, resta immediatamente inglobato in quella pressa umana e per circa venti lunghissimi minuti, schiacciato da ogni parte, tenta di far valere la propria volontà nella direzione da prendere per tentare l’ingresso allo stadio, senza successo. È la folla che comanda, è la folla che si plasma e si comprime per passare nel collo di bottiglia dei cancelli, per poi essere sputata al di là del servizio d’ordine che, dopo una distratta occhiata al biglietto, consente l’accesso a quel salto di qualità, il mondo dei grandi. Dal subbuteo ai concerti. Wow.

L’erba del campo sportivo, anche quella è una prima volta, è perfetta e regolata ovunque, ma lo sarà ancora per poco: la gente è davvero tantissima. Carletto e gli amici trovano a malapena posto e si siedono. “Hai i pantaloni macchiati”. Carletto si guarda i jeans, sul lato destro: la coscia è bagnata e tutta sporca di rosso. Già, il sacchetto colmo di ciliegie non ha ovviamente retto alla massa all’ingresso, Carletto era talmente impegnato a inspirare ed espirare che non si è curato di quello che portava con sé. Le ciliegie non sono uno spuntino da rocker. Carletto si avvia per liberarsi di quel che resta di un sacchetto di carta zuppo di qualcosa che sembra una marmellata e innalza, passo dopo passo verso il contenitore della spazzatura, la prima barriera adolescenziale nei confronti degli adulti. Il primo scontro sta per accadere. Nessuno, lì intorno, avrebbe mai portato le ciliegie a un concerto.

l’uomo sportivo

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L’uomo sportivo: la faccia è un pallone da football americano, gli occhi sono palline da ping pong, la bocca è la cucitura del pallone, il naso è una palla da tennis, il corpo è una racchetta, le braccia sono mazze da baseball, le gambe sono bastoni da hockey.

l’uomo casa

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L’uomo casa: la testa è una casa e il tetto è il suo cappello. Il corpo è un grattacielo, ha la cerniera come ascensore e il pisello dietro la porta aperta. Le gambe sono portoni.

la donna avventuriera

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La donna avventuriera: il cappello è un sombrero messicano, ha il viso di un’indiana con il terzo occhio, il vestito parigino e gli zoccoli olandesi.

l’uomo nuvoloso

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L’uomo nuvoloso: la sua faccia e il suo corpo sono nuvole, gli occhi e il naso sono gocce, le braccia sono lampi, i piedi e il collo sono fulmini.

che disse alla sua serva raccontami una storia la storia incominciò

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Ci sono state interminabili sfide a tennis da camera, con le racchette da badminton e la palla di gommapiuma. Il gioco era: battuta completamente fuori traettoria, io che mi chinavo a raccogliere la palla, quindi battuta più o meno calibrata e risposta sparata sul soffitto, quindi palla da recuperare, carponi, sotto l’armadio. Questo ripetuto per intere mattinate casalinghe d’inverno, a non più di 2 scambi per volta. La variante estiva era sul bagnasciuga con i racchettoni e la palla di gomma sparata ovunque, e io avanti e indietro a cercarla. Mai più di una manciata di secondi di azione di fila.

Ci sono state feste di compleanno da preparare, con la fantasia, nella grotta di Yoghi, in cui tu eri sempre la festeggiata e io il resto del mondo a imitare le voci dei tuoi personaggi preferiti. Poi, per fortuna, da Hanna & Barbera sei passata alla fase Peanuts, in cui era tutto più facile perché le voci di Charlie Brown e amici, non essendo così caratterizzanti come quella, per esempio, di Svicolone, potevo farle senza inflessioni dialettali.

Poi le storie da inventare, perché ti eri appassionata alle malefatte del professor Augenthaler che ne studiava sempre di nuove per soverchiare con angherie di ogni genere una intera classe di una scuola materna ma che, essendo composta da bambini dall’intelligenza acuta e sopraffina, alla fine capitolava sempre ma senza mai farsi arrestare, così che si potesse ricominciare da capo la volta successiva. La difficoltà aumentava se la storia era da inventare rientrando a casa, alle sette di sera, dopo otto ore in cui mi ero già abbondantemente spremuto il cervello per scrivere storie meno interessanti per la comunicazione aziendale.

E sono stato anche un mezzo di trasporto, perché il passeggino non l’hai mai usato se non come carriola da spingere contro le persone a spasso. Hai camminato ovunque sulle mie spalle, e giocavamo a fare Rospù in groppa di Azur che si finge cieco per non svelare i suoi occhi azzurri durante la ricerca di Asmar. Con questa tecnica abbiamo macinato chilometri ovunque, e se non lo facciamo più è solo per i due dischi che mi si sono schiacciati a forza di essere le tue gambe, con mio immenso dispiacere. Anche se ora, alla tua età e con la tua altezza, avremmo comunque dovuto smettere. Tante altre cose fatte insieme, indovinelli e serpenti con le mani, disegni da colorare e battaglie tra formiche e cavallette e chissà che altro faremo ancora.

Ma, più di tutto, abbiamo letto centinaia di libri. Ho iniziato io a farlo per te, perché tu non avevi ancora imparato; libri di tutti i tipi, più o meno adatti ai bambini, i primi con tante illustrazioni e poche parole, poi pian piano sempre meno disegni e sempre più storie da interpretare, fare le voci diverse nei discorsi diretti. Tanto che hai imparato molto presto, e hai iniziato farlo per conto tuo. Così è bello stare tutti e tre insieme, ognuno il proprio libro, la mamma spesso con il quotidiano.

Ma sappi che se posso, se vuoi, mi piace ancora leggere per te. Oggi eravamo coricati sul tuo lettino, eravamo alle prese con la storia della vita di Paperone, un’edizione supereconomica con i fumetti talmente piccoli da essere al limite della riconoscibilità. Mi dimentico sempre di buttarlo via, non so nemmeno come sia finito sui tuoi scaffali. Comunque, tenendo l’albo a pochi centimentri dagli occhi, appena oltre i parametri della presbiopia, cercavo di dare un senso alla narrazione. Ma avevamo finito da poco il pranzo e a fatica finivo le frasi senza assopirmi. Così mi hai preso di mano il libro e mi hai detto che lo avresti letto tu, per me, per farmi addormentare. Ed è stato bellissimo, peccato essere crollato così in fretta.

manifesto rancore

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Q.: Dottore, temo di aver causato una frattura insanabile nel rapporto con i miei genitori.
A.: La fermo subito. Le ricordo che anche lei fa parte della categoria.
Q.: Sì, lo so, ma preferirei continuasse a trattarmi da figlio. Li odio. Odio il fatto che siano vecchi e siano diventati individualisti, egoriferiti, poco affidabili, sempre bisognosi d’aiuto. Sperperano per loro e sono avari con me. Non si interessano delle cose che faccio, parlano solo di cibo. Così vivo costantemente nel senso di colpa: da una parte mi sento di dover amarli in quanto padre e madre, dall’altro cerco di evitarli e ogni volta che accade di dover passare tempo con loro vado in ansia. Detesto la loro casa piena traboccante di cose che continuano ad accumulare. Cose inutili, libri, riviste, giornali, vasi, piatti, soprammobili. Non gettano le cose rotte, non gettano le cose che non servono più e che continuano a giacere pieni di polvere in ogni cassetto, o in bella vista su ripiani, librerie, tavolini. La mensola sul camino, murato da quando mia mamma scoprì che vi entravano i topi dal tetto, è sommersa da orologi. La sveglia della casa di campagna della nonna, la paccottiglia cinese comprata a un euro, il finto pendolo rotto da secoli. Le pareti sono nascoste da piastrelle, stampe kistch e quadri di nessun valore.
A.: E nella sua ex-cameretta?
Q.: Gli stessi poster che avevo appeso da ragazzo. I Cure, Morrissey, i Depeche. Alcuni sono stati sostituiti da vecchi calendari dozzinali.
A.: Si ricorda i poster che sono stati sostituiti?
Q.: Avevo una gigantesca riproduzione della celeberrima foto di Che Guevara. Sparita.