cultura locale

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Non so se l’avete notato, ma questo spazio si sta trasformando in una di quelle piattaforme online dove è possibile conoscere persone con i miei stessi gusti. Una specie di tinder dove immagino poi alla fine la gente tromba ma prima fa le cose come gliele spiego io, ascolta i dischi che consiglio, insomma lettori che si lasciano influenzare evitando il rilancio con qualcosa di più trasgressivo come invece siete abituati a fare nelle conversazioni della vita reale quando, qualsiasi cosa io dica, voi già almeno cinque anni fa la praticavate prima degli altri. Ho ricevuto persino un’offerta da un noto network del digitale terrestre specializzato in programmi di taglio situazionista per adattare queste storie d’amore e di amicizia, che nascono all’insegna di quello che scrivo, in un format che ha tutte le carte in regola per sbaragliare la concorrenza.

Io ho risposto che va bene ma non credo che nulla sia in grado, in questo momento, di superare “Casa a prima vista”, la cui visione qui da me è imprescindibile e fuori discussione e ha soppiantato senza ritorno il rigattiere inglese che gira per mercatini. Non c’è storia. Intanto perché non c’è nulla di più appagante di visitare appartamenti, e poi perché c’era un secondo motivo ma in questo momento mi sfugge.

I miei episodi preferiti sono quelli ambientati a Milano, quelli con la tipa con quelle labbra che in natura non esistono altrove e che ha la stessa flessuosità nei movimenti di David Zed. Attenti, però: se non siete avvezzi al mercato immobiliare della zona potrebbe venirvi un colpo come all’attrice dello spot di Idealista, quella che non trattiene l’emozione delle case che visita e sviene mostrando ogni volta le cosce. Sicuramente conta questo aspetto, ma sono sicuro che proverei per lei la stessa smodata attrazione anche se recitasse con i pantaloni lunghi.

Ma, tornando al programma televisivo cult del momento, mi entusiasma scoprire l’esistenza di esseri umani in carne e ossa come me e voi che hanno settecentomila euro di budget da spendere per un bilocale in zona Paolo Sarpi. Perché lo so che ci sono anche ville o boschi verticali da tre o quattro milioni di euro, ma i loro acquirenti giocano un campionato diverso. Io sto parlando di gente poco più che normale, di qualche categoria superiore alla mia, un livello comunque a cui il mio ascensore sociale resta in panne almeno quattro piani sotto. Per pura captatio benevolentiae, sappiate che – al netto della mia famiglia – le due cose di cui vado più orgoglioso nella mia vita sono l’essere riuscito a comprare un appartamento (anche se non da settecentomila euro) e l’aver corso qualche volta per ventun chilometri di fila senza sosta.

Arrivo al dunque, perché mi pare di aver capito che Gianluca Torre, che dei tre conduttori di “Casa a prima vista” è forse è quello in cui mi riconosco di più, come me è un podista, spero per lui più in forma. Sarà per questo che, mentre seguivo la puntata di stasera, ho pensato che se ereditassi settecentomila euro (a proposito, valuto proposte di facoltosi genitori adottivi volontari) lo chiamerei subito e verserei immediatamente l’acconto per l’appartamento proposto da lui che i concorrenti non hanno scelto, quello in zona Scalo Farini. Anzi, Gianluca, se mi stai leggendo, bloccalo subito. Scendo a fare un bancomat e ti porto i soldi domani.

Avrete capito che sono appassionatissimo di architettura di interni e, più in generale, di urbanistica. Il mio progetto, quando sarò in pensione, è quello di girare a piedi in lungo e in largo Milano, che è la mia città preferita dopo Berlino, per scoprire e osservare da vicino i quartieri e i condomini più interessanti. Magari aprirò un nuovo blog dedicato a questo tema, chi lo sa, quindi non smettete di seguirmi.

out of office

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Se al rientro dal weekend di carnevale la scuola è praticamente finita, a Pasqua e pasquetta, se non fosse che piove sempre – tranne quando siamo costretti in casa per un lockdown – possiamo considerarci già in piene ferie di agosto. Ho allestito un calendario per organizzare al meglio le ultime attività da svolgere con i bambini e lo slalom tra progetti e gite, se fossi uno che patisce il mal d’auto, mi avrebbe esposto a serio rischio sbocco sul file di Google Fogli su cui lo ho preparato. Ho piazzato le ultime esercitazioni (guai a chiamarle verifiche) decisive per tirare le somme dei cinque anni di matematica e, nella manciata di minuti che mi è rimasta libera da qui a giugno, ci infilerò tutto il resto.

Nel corso di formazione che sto tenendo in queste settimane ai miei colleghi, previsto dalle azioni di coinvolgimento degli animatori digitali all’interno del PNRR, ho insegnato ai colleghi a mettere l’out of office con GMail. La tentazione di inviare gli auguri di buona pasqua a tutta la lista per verificare chi ha avuto davvero il coraggio di impostarlo sul serio – la mia era una ironica provocazione – è forte. Le persone che non hanno a cuore la scuola italiana sostengono che, per noi docenti, un risponditore automatico non occorre, intanto perché siamo sempre in ferie e poi perché sarebbe l’unica occasione in cui rispondiamo al mittente come si fa negli uffici seri, cioè appena riceviamo l’email. Invece vi posso assicurare che siamo in tanti a rispondere all’istante come si fa negli uffici seri, soprattutto proprio quando qualcuno – di norma la docente di religione, sicuramente la più coinvolta dalla cosa e la più autorevole nel settore – invia gli auguri a tutti, corredati da gif o immagini in stile buongiornissimo!!1! kaffeeee?? sui gruppi di paese su Facebook, non so se ho reso l’idea. La casella di posta immediatamente si satura di una pioggia di ringraziamenti e saluti incrociati, in un tripudio a metà tra il boomerismo e quel modo di essere digitali tipico degli insegnanti.

In realtà a me spiace non poter salutare tutti, l’ultimo giorno prima delle pause più lunghe. Quando lavoravo in agenzia, l’ultimo giorno, con quello stato d’animo (inesistente altrove in natura) di stupore per l’eccezionalità di non doversi recare al lavoro il giorno dopo e quelli successivi per un causa indipendente dalla propria volontà (la chiusura decisa dall’azienda stessa), alle 18 mi lanciavo in un tour delle postazioni per lasciare il mio arrivederci a dopo le vacanze. Ma eravamo in trenta persone, e con un paio di saluti generici mi era possibile raggiungere tutti.

A scuola questo è impossibile. Siamo cinque volte tanto, distribuiti in più plessi e, nello stesso edificio, su più piani e, ancora, in aule separate e talvolta con le porte chiuse, nel segreto del nostro metodo pedagogico. Un tour di tutto il comprensivo mi esporrebbe alla preoccupazione plenaria sul mio stato di salute mentale. Chi mai lo farebbe? E poi, a dirla tutta, mi sa che domani faccio un salto, tanto le collaboratrici ci sono. Devo sgomberare un magazzino che diventerà un nuovo laboratorio e vorrei installare ChromeOS Flex per recuperare un paio di catorci che, all’ennesimo aggiornamento Windows, non danno più segni di vita. A scuola, volendo, c’è sempre da fare ma non prendetemi per uno di quelli malati di zelo. Mi piace l’atmosfera che si crea nelle aule e nei corridoi durante i giorni di chiusura. Il tempio dell’istruzione svuotato della sua materia prima. Una sensazione che non ha nulla a che vedere con l’andare in ufficio il sabato o la domenica perché c’è una scadenza da rispettare. Quante volte mi è successo. Ecco, a scuola non ci sono scadenze da rispettare, o meglio, non di quel tipo che intendete voi. Si fa sempre tutto tutti insieme e, proprio come in classe, il primo aspetta l’ultimo. E, se nell’attesa si annoia, c’è sempre una cornicetta da disegnare e colorare, per abbellire il foglio.

l’unica mossa vincente è non giocare

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Le celebrazioni previste per la settimana della pace a scuola non si sono concluse con la pace nel mondo, come pensavamo. Ci siamo accontentati di qualche cartellone con una riproduzione approssimativa della colomba di Picasso e, per noi delle quinte, la proiezione in auditorium del film “Wargames – Giochi di guerra”. Ho aderito con moderato trasporto all’idea della collega che ne ha proposto la visione perché, se da una parte il film mi ha consentito di dare continuità a una serie di titoli, già visti con la mia classe, utili a traghettare una certa estetica cinematografica anni ottanta del secolo scorso nel nuovo millennio – intercettando così e ponendo rimedio ai palinsesti poco rigorosi dei genitori dei miei alunni, a malapena adolescenti negli anni novanta e quindi testimoni poco autorevoli del decennio più importante della storia dell’umanità – dall’altra avrei preferito evitare che i bambini riconducessero la mia giovinezza a una sorta di preistoria in cui non esisteva il wifi ed era inevitabile il ricorso al telefono di casa per qualunque tipo di connessione da remoto (anche se il giochino dei toni e delle linguette delle lattine nelle cabine telefoniche potrebbe anche sorprendere qualche millennial appassionato di fantascienza retro).

Il limite del film in questione è proprio la componente tecnologica. Mi sono così adoperato per introdurre la proiezione con un preambolo dedicato all’archeologia informatica per aiutare i bambini (sono pur sempre un mansplainer e, di conseguenza, un techsplainer) a cogliere il senso del film senza soffermarsi troppo sulle macchine e sui monitor protagonisti della storia, anche se non so quanto il film potrebbe essere adattato alla contemporaneità. Bisognerebbe chiedere ai temibili hacker russi dei nostri tempi.

Cecilia, che si è seduta in prima fila, si è addormentata alla prima scena, quella dell’addetto alla stanza dei bottoni che non se la sente di premerli. D’altronde, come biasimarla? In un mondo touch, chi mai doterebbe di un pulsante così ridicolo per distruggere il mondo l’esercito degli Stati Uniti?

Quando però i miei bambini si premurano di farmi sapere – direttamente o indirettamente – di aver trovato noiosa una mia proposta didattica o anche qualcosa che mi piace (ogni volta mi riprometto di fare altrettanto, simulando un attacco di narcolessia mentre mi sfracellano i maroni con i loro interminabili aneddoti su quello che hanno fatto nel fine settimana), mi sento fortemente piccato e mi viene voglia di punire la classe con la proiezione delle filastrocche delle tabelline o con una maratona di edizioni dello Zecchino d’Oro, per far cogliere la differenza tra un insegnante tradizionale che li tratta da mocciosi ebeti e un pedagogista disruptive come il sottoscritto.

E pensare che, proprio il giorno precedente a questa debacle cinematografica, avevo visitato Didacta, la fiera dedicata al mondo della scuola. Il tema dell’edizione 2024 era, come potete immaginare, l’AI in tutte le salse, ma col fatto di aver deciso in extremis di partecipare, i seminari su ChatGPT e i suoi derivati erano già fortunatamente sold out. Restavano solo alcuni workshop di quelli che non se li fila nessuno, a partire da un incontro dedicato alla comunicazione della musica con un panel che puntava sul dualismo tra rock e trap e che mi ha coinvolto così tanto da monopolizzare la sezione dedicata alle Q&A, una cosa che, vi giuro, non è assolutamente da me.

Per il resto, era pieno di gente che si muoveva come automi dentro caschi per la realtà virtuale – una roba che nemmeno i Daft Punk – in mezzo a inquietanti cani-robot e ogni tipologia di automazione che, nelle scuole senza carta igienica e dei genitori che menano i presidi, per fortuna non vedremo mai. Ma il fattore più coinvolgente dell’iniziativa, come sempre, è trovarsi in mezzo a migliaia di insegnanti di ogni ordine proveniente da tutto il sud, cioè, volevo dire da tutta Italia. I docenti, lo sapete, si riconoscono lontano un miglio, quasi più dei poliziotti in borghese e dei carabinieri che vogliono infiltrarsi nella microcriminalità per stanare quelli che vendono gli spinelli ai giovani. E quando noi docenti siamo in gruppo – non necessariamente per partecipare a un collegio docenti – siamo a modo nostro bellissimi. Ho visto colleghi con trolley traboccanti di gadget e brochure proprio come a Natale alla fiera dell’artigianato. Io non ho preso nulla, non ho trovato nulla, ma solo perché non sapevo nemmeno cosa cercare.

Idles – Tangk

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Tangk è il nuovo disco degli Idles e, per me, il 2024 potrebbe anche chiudersi qui.

Tanto per cominciare, il remake del video di “Yellow” dei Coldplay, realizzato grazie all’intelligenza artificiale per la clip di “Grace”, è forse, almeno ad oggi, l’applicazione più pertinente e meglio riuscita della tecnologia deepfake. Un uso magistrale che si dovrebbe insegnare nelle scuole. Altro che capi di stato che dichiarano guerra ad altri capi di stato o personaggi famosi che straparlano a botte di corbellerie o tutte le altre stronzate che ci lasciano presagire che l’AI, dopo le tv Mediaset e i social, è l’invenzione che darà il colpo di grazia alla nostra civiltà come l’abbiamo conosciuta.

Ma è tutta la storia a essere bellissima: Joe Talbot che scrive un pezzo che parla d’amore e si sogna proprio Chris Martin nel fiore dell’età che, con la sua andatura dinoccolata sul bagnasciuga sotto la pioggia all’alba, intona tutto lo struggimento del suo omologo di ventiquattro anni dopo in sostituzione di quello (altrettanto melenso) della canzone originale di ventiquattro anni prima. E Chris Martin che, anziché sottrarsi al divertissement (o, peggio, andare per vie legali per questioni di copyright come un’isterica rockstar miliardaria qualunque, priva del senso dell’umorismo e dell’ironia con cui l’operazione è stata pensata) non solo concede il suo benestare per trasformare l’idea in realtà, ma contribuisce ad addestrare l’AI per rendere la sua performance vocale più realistica, in modo che il risultato balzi immediatamente ai vertici delle classifiche dei video musicali più iconici di tutti i tempi.

Non trovate tutto questo commovente? Il risultato è che “Grace” è una delle canzoni più significative della storia recente, un pezzo che potrebbe davvero stare nel repertorio dei Coldplay, perché no? La voce di Talbot è incredibilmente delicata e, con un arrangiamento più rassicurante, non sfigurerebbe nel repertorio di uno dei gruppi più famosi al mondo.

E poi c’è la questione dell’amore. Sembra che nei quaranta e rotti minuti di Tangk, Joe Talbot pronunci la parola love quasi trenta volte e dia sfogo, quasi senza soluzione di continuità, a buoni sentimenti come la freudenfreude, quello stato d’animo da oratorio che consiste nel provare gioia per la gioia degli altri, o la gratitudine per ogni mattino che ci viene regalato. Tenete conto che il suo approccio al prosieguo di Crawler è stato quello di rispondere a urgenze condivise, a partire dal mondo in caduta libera post-pandemia, e ad altre molto personali, e decisamente agli antipodi tra di loro, come il lutto e la passione.

Ma il britpop, le dita che si uniscono a forma di cuore e Hall&Oates non sono le sole cose che mai ti aspetteresti di trovare in un album degli Idles. Pensate alla melodia a bocca chiusa nel finale di “Idea 01”, così spiazzante da sembrare un violino interpellato a chiudere una prima traccia praticamente perfetta, un incipit che chiunque, in futuro, gli invidierà, con quell’accompagnamento di piano suonato dal chitarrista e co-produttore Mark Bowen (sporcato a opera d’arte) che accompagna una melodia straordinariamente premurosa, preludio all’amore nella dimensione paterna di “Gift Horse”.

E pensate a “Pop Pop Pop”, con quella metrica da ninna nanna a cavallo tra la conta che fanno i bambini per designare sotto a chi tocca e alla trap. Ma anche il soul di “Roy”, con un Talbot in versione Otis Redding, lo stile più adatto per farsi perdonare dalla propria amata per certe cose dette la sera prima, e una band sotto che suona un punk-blues decisamente oltre ogni aspettativa. O ancora la voce sussurrata di “A Gospel”, coda naturale della traccia precedente, tutta pianoforte e archi. Per non parlare del modo di edulcorare il brutalismo degli esordi in “Jungle”, vero capolavoro dal suono indefinibile, e del sax che si erge repentino dalle macerie negli ultimi istanti di “Monolith”, ancora un sorprendente blues scelto come improbabile chiusura di una tracklist in grado di lasciare di stucco anche gli animi più scettici.

Di certo mettono più a nostro agio le volte in cui la band manda affanculo tutto e tutti, re compreso, violenta gli strumenti con una distorsione disumana, percuote le pelli dei tamburi con la rabbia tipica dell’hardcore (“Gratitude” su tutti), urla tutto il suo disagio possibile e invita al pogo con il patrocinio e il bpm disco-punk degli LCD Soundsystem.

E sapete come andrà a finire, vero? Andrà a finire che, al cospetto di questo album monumentale, l’amore per gli Idles (e l’amore secondo gli Idles) ci dividerà di nuovo: apocalittici e integrati, o detrattori e entusiasti, insomma quella dicotomia lì. Il punto è che la band di Talbot ha bruciato le tappe. Cinque long playing in sette anni e ora si trova già in quella fase di presunta morbidezza in cui cascano tutti, quella in cui gli snob dei “mi piacevano i primi due dischi”, i più pessimisti, gli intransigenti e i disillusi del bicchiere mezzo vuoto vedono solo compromessi e decadenza, mentre i più curiosi e intelligenti, chi, in genere, approccia l’arte come naturale evoluzione della multiforme indole umana, riconosce il vero genio.

Se state dall’altra parte, quella che avrete capito essere opposta alla mia, quella sbagliata, insomma, vi lancio un’altra provocazione: provate a fare sempre uguale la cosa che vi piace di più e poi ne parleremo quando, del vostro estro, rimarrà solo un mozzicone impossibile da impugnare. Per me, un disco come Tangk è uno di quelli che, tra trenta o quarant’anni, definiremo, anzi, definirete epocale, una delle opere più influenti della vostra vita, il punto di non ritorno per una band punk sempre meno post e ormai molto radicale nel suo non esserlo come gli Idles che, sono sicuro di averlo scritto da qualche parte e di ripetermi, sta alla moda musicale del momento come i Killing Joke di “Wardance” stavano all’analogo movimento nel primissimo scorcio degli anni Ottanta.

Con Tangk gli Idles hanno ampiamente sconfinato nell’empireo degli artisti che fanno la differenza. Una scalata alla vetta già avviata con il precedente Crawler (bello come solo sa essere un’opera di passaggio) che taglia definitivamente ogni legame con la genuina ferocia degli esordi e definisce al meglio un gruppo di musicisti che hanno tutto lo spazio e il tempo per esprimersi al massimo e in ogni forma.

La speranza è che gli Idles siano diventati sin nel midollo tutto questo: cattiveria sperimentale, impeto con il valore aumentato della ricercatezza, rabbia che tracima nell’avanguardia artistica grazie alle larghe intese con tutte le cose belle con cui vale la pena mescolarsi. Il risultato è una assoluta meraviglia, la più credibile colonna sonora degli anni venti, un’opera in cui la raffinatezza di cui è pervasa stride meravigliosamente con l’idea che abbiamo maturato degli Idles, in tutto questo tempo. Le loro pose truci, il look beffardo, il suono gratuitamente aggressivo, la mancanza di grazia compositiva e quel mix di cinismo e di noncuranza come conseguenza della sfacciataggine incosciente figlia dell’insicurezza.

Sulla morale di Tangk c’è poco da dire. Come la favola di Esopo “Il Sole e il vento del Nord”, che ne ha ispirato la composizione, “No god, no king, I said, love is the fing”, pronunciato così, con la F al posto della TH come fanno i veri gentleman, ci ricorda che la gentilezza e la cortesia vincono dove la forza e la spavalderia falliscono. Un approccio che, nel punk rock, si mette in pratica con una produzione come quella di Nigel Godrich, il sesto Radiohead, per capirci. Di sicuro, Tangk è un ellepi che nessuno dovrebbe assolutamente lasciarsi sfuggire, un album intriso di suoni e parole d’amore da urlare sgomenti, il più efficace deterrente al senso di vuoto invadente di questi tempi pessimi che, detto tra noi, ci sono ottime possibilità che siano davvero gli ultimi.

zuck

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La data di iscrizione riportata sul mio profilo dice 10 ott 2007, e la cosa che sorprende non è tanto che sia scritta proprio così, con l’abbreviazione del mese, ma che io, come molti di voi, sia su Facebook da 17 anni. DICIASSETTE. Una vita. Ho letto che è un social al tracollo e che tutta la baracconata di Meta messa in piedi è un buco nell’acqua ed è giusto così, in un sistema così dinamico come l’Internet. Io uso Facebook ormai esclusivamente per due motivi: gestisco alcune pagine e mi tengo aggiornato su musica, letteratura e cinema. Per me è principalmente un aggregatore di notizie che mi interessano e vedo che il mio algoritmo è ammaestrato bene a servirmi spunti in linea con in miei gusti. Post di amici e conoscenti ridotti praticamente a zero a cui unisco la rimozione immediata di tutte le proposte del sistema su pagine e gruppi da seguire. Evito i commenti degli utenti come la peste e pubblico solo dischi che mi piacciono, film che mi hanno folgorato e libri che mi hanno migliorato la vita, ma non tanto per condividere, quanto per tenere traccia. È grazie a questo approccio che ieri ho scoperto che è stato adattato un film da uno dei miei romanzi preferiti, “Cancellazione” di Percival Everett. Dopo la pessima esperienza di “Rumore Bianco” di Delillo, da cui è stato tratto un film a dir poco inguardabile, mi sono sottoposto alla visione (è disponibile su Amazon Prime) pieno di timori. Invece è fatto strabene, attori bravissimi, sceneggiatura perfetta e storia rispettata al 100%. Non so dirvi, se non avessi letto il libro di Everett, se avessi altrettanto apprezzato la sua riduzione televisiva. Anzi, ditemelo voi. Guardatelo anche se non avete letto il libro. Ma no. Prima leggete il libro, che è superlativo, e poi guardate il film, molto meglio. O leggete il libro, e basta.

chef moi

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La notizia è che una vincitrice di un noto talent per aspiranti cuochi aspiranti giudici di talent per aspiranti cuochi sostiene di non andare mai al ristorante. Avete letto bene: non le piace mangiare fuori. Non la biasimo. Da quando ho imparato a preparare quelle quattro cose ignoranti che propongo a rotazione nel menu domestico ho ridotto a zero quell’unica volta all’anno in cui si usciva a cena. Vuoi mettere pensare la ricetta, scegliere gli ingredienti e cucinare per famigliari e amici rispetto a mettere le gambe sotto il tavolo, impestarsi il loden di odore di fritto e spendere un occhio della testa in cose che poi lungo il tragitto intestinale si trasformano in quello che sappiamo?

Denis, che è il mio alunno di origine rumena nonché uno dei più simpatici della classe, chiama la cacca “la numero due”, per distinguerla dalla pipì che è “la numero uno”, e ora che siamo alle prese con l’apparato digerente finiamo sempre lì, anche perché è il cibo, primo tra tutti, a finire sempre lì. Malgrado nei testi della trap che ascoltano sia contenuto l’intero vocabolario delle parolacce italiane e non solo, i miei bambini sono timorosissimi e inutilmente pudici in eccesso quando si tratta di pronunciare qualunque sinonimo di feci, per questo attribuire a merda e piscio una perifrasi riconducibile a una gerarchia morale – l’urina è il numero uno perché è considerata meno impegnativa, si fa davanti e il canale appartiene a un rango più nobile dell’altro, probabilmente perché è anche veicolo di piacere ma anche l’altro non è poi così male, insomma esprimere una preferenza tra i due non è così scontato – mi fa sorridere. Ho detto loro mille volte che le parolacce sono volgari ma a seconda del contesto, ma non voglio mettere in dubbio i paradigmi della loro rigida educazione. Però mi hanno seguito e li ho percepiti persino in linea con me quando ho provato a convincerli della mia idea: spendere così tanto per questioni di palato non esiste. Il loro pantheon della ristorazione comprende solo McDonald’s, Burger King, Roadhouse e l’all you can eat cinogiappo sulla provinciale, quello frequentato anche dai ludopatici attirati dalla consistente concentrazione di videopoker. E quello di cui voglio convincere anche voi è che è molto meglio imparare a spignattare.

L’unico compromesso, a casa mia, è la pizza. Almeno un paio di volte al mese, in quelle giornate che si vede già alle otto del mattino che finiranno in pizza. Quelle che entri alla prima ora, accompagni le quinte a visitare la caserma dei Carabinieri, fai due ore di matematica per poi scendere nel chiasso assordante nella mensa-inferno, quindi altre due ore con i bambini con l’impallo catatonico postprandiale e, per chiudere, altre due ore di formazione digitale ai colleghi docenti online.

È andata proprio così, anche questa volta. Ho terminato la videoconferenza e ho subito lanciato l’idea sul gruppo di famiglia, ma questa volta è successa una cosa stranissima. Mia moglie mi ha chiamato per darmi il suo assenso alla pizza, con l’entusiasmo esagerato con cui siamo soliti aderire a questo fuori-programma che è incredibilmente sopra le righe malgrado si ripeta con la stessa frequenza da più di vent’anni. Ma prima di dirmi che pizza avrebbe scelto mi ha chiesto a quale pizzeria d’asporto pensavo di ordinare. Di getto, non chiedetemi il perché, mi è uscito dalla bocca il nome di una pizzeria che frequentavo con ostinata continuità una trentina di anni fa. Un posto che oltre a essere a duecento km da qui probabilmente avrà chiuso i battenti chissà da quanto. Era un locale che faceva solo pizze, non a caso si chiamava “Solo Pizza”, era meta notturna di giovinastri come me in piena fame chimica e aveva le pareti coperte dall’iconografia tipica degli esercizi che vogliono trasmettere l’appartenenza socio-culturale alla napoletanità indipendentemente da dove sono ubicati. Totò, Peppino, Maradona, Mario Merola.

Il pizzaiolo si chiamava Mimmo, e il nome lo ricordo solo grazie all’aforisma che si leggeva su una lavagnetta accanto l’imboccatura del forno a legna e che diceva così: “La pizza di Mimmo è come una bella signora: buona e da gustare a piccoli morsi”. Al telefono con mia moglie mi sono reso conto dell’equivoco e mi sono corretto immediatamente, anche se il nome della pizzeria da cui ci serviamo, pur essendo altrettanto evocativo della cultura partenopea radicata al nord, ha un’accezione che fa molto meno marketing anni novanta e rimanda invece alle qualità organolettiche della pizza, un tema molto più attuale e figlio dell’ossessione per l’italianità che va per la maggiore. Ma sono certo che il mio non sia stato affatto un lapsus. Ancora adesso sono sicuro di non aver compreso appieno il significato di quella frase e il senso della trasposizione simbolica di immagine che la rende così difficilmente interpretabile.

terzo, tipo

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Nella pagina Facebook dedicata ai selfie dei turisti americani immortalati con alcuni dei più celebri luoghi in cui sono state girate le scene più iconiche di tutti tempi del cinema sullo sfondo, postate con l’escamotage del prima e dopo (prima, la scena del film; dopo i turisti con quell’espressione inevitabilmente idiota che viene nel tentativo di mimare la scena in questione) qualche giorno fa ha fatto capolino la Devil’s Tower, quella specie di pandoro alto 1500 metri e ubicato nello stato del Wyoming divenuto celebre grazie a “Incontri ravvicinati del terzo tipo”.

Ci penso ogni volta in cui scorgo il nuovo Galeazzi di Rho, meglio noto come il “Sacro Monolite Bianco”, l’unico grattacielo al mondo che ha una base più lunga dell’altezza – in questo caso già fuori scala di per sé. Ci passo a fianco per recarmi a scuola e ci sono pure entrato per fare visita a un amico che si è appena sottoposto all’intervento all’anca. Osservandolo da sotto fa molto meno impressione, soprattutto stanziando nei parcheggi arbitrari lungo la strada, stipati di vetture malgrado la frequenza dei cartelli di divieto di sosta. Lui occupava una stanza al dodicesimo piano ed è un peccato che, tra fabbriche, raccordi autostradali e carcere di Baranzate, la vista da lassù lasci piuttosto a desiderare. Ma da qualche settimana la percezione del colosso della sanità privata non è nulla in confronto a quella del monte Alpissimo, che con i suoi 16mila metri non teme confronti. È impossibile non notarlo e il colpo d’occhio dietro allo skyline di Milano non è niente male.

Anch’io sono rimasto fortemente impressionato dalla sua comparsa improvvisa, questo è il motivo per cui non ho esitato a rispondere affermativamente alla chiamata indetta dall’associazione di settore che riunisce i copywriter d’epoca che presiedo per escogitare il nome più adatto alla nuova formazione tettonica. Resti tra noi, ma non ho ancora detto a nessuno che la proposta più suggestiva è risultata proprio la mia, peraltro votata all’unanimità, decisione per la quale non mi stancherò di ringraziare tutti i soci. Ma non è stato solo l’evidente e scontato gioco di parole che concentra la sua caratteristica principale e la sua ubicazione ad aver convinto tutti. C’è dell’altro, ma ora non me lo ricordo. Se non mi sono ancora esposto è perché avrei preferito introdurre un ulteriore fattore significante, qualcosa che richiamasse alla sorpresa con cui ce lo siamo trovati all’orizzonte la mattina in cui è comparso. Se avete in casa, come me, un animale domestico, avrete capito a cosa mi riferisco, visto che solo loro – a quanto sembra –  hanno avvertito l’orogenesi. Stamattina viaggiavo in direzione Malpensa e, a seguito di un’improvvisa schiarita che ha interrotto per qualche minuto la perturbazione che persiste ininterrottamente ormai da diverse settimane, si è propagata una luce e un conseguente riflesso dalla parete della nuova montagna da togliere il fiato.

Peccato che dalle finestre di casa mia il monte Alpissimo non si veda, ma non è questa l’unica conseguenza negativa dell’altezza a cui è situato il mio appartamento al secondo piano e della sua esposizione. Non bazzico i circoli feng shui e i taoisti più radicali – per mancanza di tempo, mica per pregiudizio – nonostante ciò mia moglie ed io ci siamo convinti che l’ultimo rimescolamento della posizione dei mobili in camera dal letto – lo ha ancora una volta pensato lei – non sia di sicuro il più riuscito. Mia moglie ama dedicarsi a questo genere di trasformazioni degli ambienti di casa, e se non ha ancora modificato la disposizione dei sanitari nel bagno è a causa del posizionamento delle tubature. In camera da letto però ci troviamo senza vie d’uscita a causa di un enorme armadio, che scherzando abbiamo ribattezzato proprio Alpissimo, oramai impossibile da muovere se non smontandolo. E, fedeli al motto della montagna e Maometto, ci siamo messi così a dormire al contrario, con i cuscini al posto dei piedi e i piedi rivolti verso la testata. Avete capito: questo nuovo orientamento sembra funzionare. Non solo ci svegliamo riposatissimi ma faccio anche sogni dai significati più sfidanti, al punto che mi metto subito al risveglio sui siti di intelligenza artificiale per trovare le immagini più adeguate a descriverli.

al completo

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Solo un veloce promemoria per quelli che su Dice sono in lista d’attesa per un biglietto per “Alcuni Aneddoti Live”. Purtroppo gli organizzatori non ne vogliono sapere e non danno nemmeno a me gli ingressi omaggio. Pensavo di poter riservare qualche posto ai lettori più affezionati, c’è gente che riceve la mia newsletter dal 2010 e non si è ancora disiscritta, se ci penso roba da matti, ma il limite dell’automatizzazione dei processi è proprio che ogni scorciatoia andrebbe a scapito della tracciabilità e della trasparenza e ricordate che io non ricavo una lira che è una in più rispetto al mio cachet. Vi prego anche di non presentarvi all’ingresso di servizio, o meglio presentatevi perché spero di potervi abbracciare a uno a uno, ma non potrò neppure lasciarvi sgattaiolare dietro le quinte. Ci sono certi omoni addetti alla sicurezza che non vanno tanto per il sottile e non vedono l’ora di farsi belli con il proprietario della struttura, che peraltro mi dicono essere uno storico elettore di estrema destra.

Farò il possibile per non arrivare sui gomiti alla serata dell’evento. Come per le precedenti edizioni, il rischio che qualcuno spoileri il programma in anticipo o sveli l’identità dei componenti della redazione mette a dura prova il mio sistema nervoso. Oggi, durante l’intervallo a scuola, origliavo persino i miei alunni intenti nella pratica del dissing, un giochino da maranza e preso dalla cultura hip hop con il quale sperimentano la tenuta nervosa delle due mie alunne che si punzecchiano sin dalla prima. Sono intervenuto giusto in tempo per evitare che si passassero reciprocamente le unghie sulla faccia ma questo non ha impedito che si prendessero a spintonate in bagno subito dopo. Purtroppo per loro le ho colte in flagrante e ho segnalato il comportamento a entrambe con una bella nota sul diario ed è un peccato che non sia ancora entrato in vigore il gravemente insufficiente, altrimenti l’avrei inaugurato con questo exploit.

Poi la cosa è finita lì ma il mio nervosismo ormai era salito alle stelle. Nell’intervallo lungo ho retto a malapena tre o quattro brani del loro repertorio trap pop e mi sono tenuto a stento dall’insultarli per i loro gusti pessimi. Una di loro, che peraltro non partecipava nemmeno al gruppo di ascolto sotto la LIM, ha biasimato la mia insofferenza rispetto ai loro ascolti ricordandomi quella frase fatta sui gusti e sul discuterne che, lasciatemi dire, lascia il tempo che trova. Ho imposto di spegnere casse e pc e siamo passati a parlare del ramadan che, a breve, le compagne egiziane osserveranno ma la mia attenzione oramai se l’erano giocata definitivamente. Ho pensato così che, in una delle sessioni parallele di “Alcuni Aneddoti Live”, magari quella dedicata alla carenza di band di ragazzini nel nostro paese, potremmo trattare anche questo tema. Sentitevi comunque liberi di suggerirmi altri spunti o condividere le vostre considerazioni qui sotto nei commenti. In ogni caso, ci si vede dal vivo prestissimo, e non vedo l’ora.

ai piatti

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A proposito di reddito di cittadinanza, assegno di inclusione e sussidio di disoccupazione salta agli occhi l’omissione di una qualsiasi forma di riconoscimento economico per chi si occupa dell’accudimento quotidiano della famiglia, la professione universalmente riconducibile a quella della casalinga. Ricoprendo questo ruolo – per quanto sia in grado e giuro con la massima umiltà – per motivi di organizzazione domestica, provo a immaginare quanto tempo-vita non retribuito possano aver dedicato miliardi di donne nella storia dell’umanità. Mia mamma lavorava e in più era chiamata a tenere le fila di un nucleo di cinque persone, in un momento storico e sociale in cui gli uomini erano dispensati dal dover fornire qualunque tipo di supporto se non portare a casa il pane. Nessuno le ha mai corrisposto nulla per tutte le cose che ha fatto per il marito e figli, né come stipendio e tantomeno sotto forma di contributi pensionistici.

Io trascorro così tanto tempo in cucina che, in un sogno, avevo addirittura installato nel piano di lavoro tra i fornelli e il lavabo una console da dj, sulla quale facevo pratica in quella che considero – anche nella vita reale – l’attività più utile che io possa esercitare per il prossimo. Selezionare musica da far ascoltare o ballare a terzi è per me una vera e propria missione, un modo per prendermi cura degli altri e il canale espressivo più immediato per trasmettere il mio trasporto a qualcuno. E il fatto che non mi sorprendeva aver integrato lo spazio in cui mi dedico con amore alla mia famiglia preparando cose buone da mangiare dell’equipaggiamento per mettere i dischi ha un significato inequivocabile.

Mi stupivo così di trovare un analogo set al Nuovo Armenia di Dergano. Facendo finta di bere un drink, sbirciavo dentro al lavabo in acciaio del bar per catturare i segreti del mestiere di un dj di grido fino a quando mi chiedeva di sostituirlo qualche minuto per prendersi una pausa. Il punto è che non si può rimpiazzare qualcuno di cui non si sa che dischi o cd – in quel caso erano flac su un pc – è provvisto. Così, dopo due o tre brani messi a caso, mi trovavo in forte difficoltà nel proseguire la selezione. Se volete sapere com’è andata a finire, mentre l’ultima traccia sfumava, iniziavo a suonare con le mani a tempo la superficie dell’acqua con cui era riempito il vano per lavare i bicchieri. Tenevo un ritmo decisamente trascinante e riuscivo persino a modulare, sfruttando quella tensione superficiale che si insegna in quarta elementare, una melodia adeguata, come se quel dispositivo naturale fosse in qualche modo triggerato con un virtual synth nel computer.

Tutto questo fino a quando il dj residente tornava alla sua postazione, mi ringraziava e proseguiva con il suo spettacolo. Sollevato dall’impegno, ne approfittavo così per recarmi ai funerali privati di Ernesto Assante, cerimonia alla quale non ero stato assolutamente invitato ma di cui mi arrogavo il diritto alla partecipazione come riconoscimento morale per la mia devozione ossessiva alla musica. Potendo vantare una meno che irrisoria comparsata nella storia dell’industria musicale, pochi mesi da meno che turnista in una band sconosciuta nonché fanalino di coda del roster di una major, mi auto-dichiaravo meritevole di far parte del jet set del giornalismo di settore sia per le mie trascurabili recensioni di novità musicali su una webzine amatoriale letta da quattro gatti, sia in virtù delle centinaia di euro che investo nell’acquisto di dischi in vinile. E il bello che non sapevo nemmeno che la famiglia del giornalista scomparso non avesse organizzato una cerimonia vera e propria, ma una sobria formula di funerale laico in un circolo ARCI.

Nella salone delle feste in stile partito comunista anni 70 non c’era l’urna con le ceneri e non era stato nemmeno allestito alcun rinfresco. Cercavo di cogliere tra gli invitati che, in gruppetti sparsi, condividevano aneddoti inerenti il loro comune amico e collega, qualcuno che mi riconoscesse fino a quando mi allontanavo, con lo stesso stato d’animo che ho provato in tutte le occasioni in cui ho presenziato a incontri con gruppi di gente conosciuta online raccolta intorno a una passione comune, forse l’esperienza sociale più fallimentare nella storia dell’umanità e pratica di cui posso considerarmi davvero un pioniere. Solo al risveglio, stamattina, ho valutato se l’associazione tra i piatti dei dj e quelli che assolutamente non bisogna sciacquarli prima di metterli in lavastoviglie – così dice il manuale di istruzioni della mia Miele – sia stata la fonte di ispirazione di tutto ciò o, almeno, una battuta da quattro soldi da sfruttare per un racconto.

The Last Dinner Party – Prelude To Ecstasy

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Altro che ultima cena: con un menu di undici portate (più aperitivo con tanto di orchestra) le The Last Dinner Party ci offrono un ricco buffet per il vernissage del loro esclusivo e divertente progetto musicale.

In un mondo in cui la trasgressione è la regola, alla fine passano per alternativi quelli che le regole le seguono. Non drogarsi, non tatuarsi, lo scoutismo, smettere di fumare, entusiasmarsi per i Promessi Sposi, preferire maglioncini e Clarks alle tute e alle sneakers: ecco i veri eccessi del nostro tempo. Faccio l’insegnante e quando incontro un ragazzino con i capelli lunghi, uno che si distingua dalla massa, senza marsupio e borsello, uno che non si rasa le righe sul cranio e non si concia come i fenomeni della trap, mi viene da fermarlo, mi viene da stringergli la mano e fargli i complimenti. Finalmente qualcosa di completamente diverso. Non fraintendetemi, non sono mica un moderato, un conservatore o un fratellista d’Italia. Soprattutto quando si parla di musica.

Dico solo che, se non fossimo sovraesposti alle più ritrite avanguardie stilistiche, liquideremmo gente che si è fatta le ossa nelle tribute band dei Queen o che armonizza ritornelli nemmeno fossero gli Abba come reazionari, esponenti di un’inutile controriforma artistica, energie e bit sprecati per melensi manierismi mainstream, retromaniaci post-classicisti epigoni di specie artistiche fortunatamente estintesi grazie ai techno-meteoriti degli anni novanta. E invece, a valle della recensione della milionesima band prog-post punk di South London, al cospetto di un disco come Prelude To Ecstasy ecco che gridiamo al miracolo e, parlo per me, ci strappiamo quei pochi capelli che ci sono rimasti.

E sono certo che ci saremmo immaginati lo stesso l’album di esordio delle The Last Dinner Party come colonna sonora di un sequel distopico di Piccole Donne anche se non le avessimo mai notate suonare negli stralci dei loro live su Youtube, testimonianze di una fervida attività marketing volta a infiammare a puntino l’hype per questo primo disco, o viste interpretare i video degli svariati singoli che l’hanno preceduto e posare per gli shooting promozionali con quegli assurdi abiti di scena d’epoca. Anche se – parlo per me – non si capisce bene quale. Costumi di uno dei soliti passati indefiniti – non per questo avvincenti – in cui si mescola tutto, da Ziggy Stardust a Emily Brontë passando per Stevie Nicks. Un’età dell’oro di cui sappiamo solo che si è perpetuata per secoli prima dell’avvento del web e dei social, anche se web e social sono proprio il pretesto romantico che ci fa rimpiangere un mondo in cui ci estingueremmo nel giro di qualche ora, senza smartphone.

L’unica certezza che ho è che il ruolo di Jo calzerebbe a pennello per Lizzie Mayland, chitarra e cori della band (statene certi) rivelazione di quest’anno che, forse a causa alla sua bisestilità, da un punto di vista strettamente musicale, grazie alle The Last Dinner Party è già cominciato col botto. Per chi potrebbe interpretare Abigail Morris, l’impertinente voce solista, ci devo pensare. Nel frattempo, a loro due e a Emily Roberts (chitarra solista, mandolino, flauto), Georgia Davies (basso) e Aurora Nishevci (tastiere, voce) chiederei come gli è venuto in mente un progetto di questo tipo.

Un nome che ci evoca un consesso di apostoli (rigorosamente uomini) al convivio di saluti finali di un profeta (rigorosamente uomo, almeno fino a prova contraria). Un’estetica un po’ gotica e a tratti rococò che, quando è stata di monopolio maschile ai tempi del glam e delle zeppe, ha spostato la lancetta della fluidità di genere verso valori e falsetti ben oltre il livello di guardia, quasi a ridosso della macchietta. Una proposta plissettata e tutta merletti, così sfrontatamente sfarzosa da emancipare le The Last Dinner Party da qualunque tendenza del momento, spiazzando la critica con un coraggio che nessun esordiente di sesso maschile avrebbe mai azzardato.

E lo so che questi discorsi non si dovrebbero fare e che guardare al genere dei musicisti è conseguenza di una società e di una cultura rock sessista e patriarcale. Il punto è che io adoro i gruppi tutti al femminile. Adoro le batteriste e la loro postura dietro ai tamburi, la fierezza con cui osservano il loro set, i piatti e le pelli. Adoro le bassiste, di cui ormai c’è una consolidata tradizione. Adoro le ragazze che manipolano i potenziometri dei sintetizzatori e persino le chitarriste che pestano con i tacchi il pedale del wah wah e l’effetto dei prodigi dell’onicotecnica mentre le loro dita corrono veloci sul manico. Adoro come si abbina agli strumenti musicali tutto ciò che è femminile (la rabbia, la passione, la grazia, l’estasi, l’ardimento, persino la gravidanza) perché alle voci femminili e alla meraviglia che suscitano siamo abituati. Il resto, condizionati dal testosterone nel rock, ci fa approcciare le band tutte al femminile con una doppia aspettativa proprio come, nel resto del mondo reale, per una donna è tutto difficile (come minimo) il doppio.

E sono altresì convinto che The Last Dinner Party siano un gruppo pazzesco proprio perché suonano e cantano come solo cinque donne possono fare. Anzi, sei, perché è importante nominare anche Rebekah Rayner, la straordinaria batterista che non risulta nella line up ufficiale del gruppo ma che si presta al gioco delle parti con velluti e corsetti tanto quanto le altre ragazze per le esibizioni live. Molto più di una semplice turnista e perfettamente allineata con il suono e l’estetica della band. Un gruppo che, se fosse stato composto da maschi, sarebbe diventato il nuovo Greta Van Fleet da tanto al mucchio.

Il bello di questo disco è che il fatto che evochi tanto Kate Bush quanto riesca a citare (con ineguagliabile intelligenza) una non-hit come “This Town Ain’t Big Enough For Both Of Us” degli Sparks come se nulla importasse, o che induca l’ascoltatore ad aspettarsi, da un momento all’altro, voci che si sovrappongono ribadendo la richiesta a Scaramouche sulla fattibilità del Fandango o qualche altra trovata kitsch degna di un Eurovision Song Contest di metà anni settanta, non risulta per nulla derivativo. C’è tutto questo, insieme a canzoni che cambiano rotta più volte per rientrare indenni al punto di partenza, inni da arena rock e ballad da meditazione. C’è tantissima musica, pensata, composta, suonata e cantata egregiamente, divertente e mai banale, sempre diversa e sempre di altissimo livello.

Per il resto, se tutto ciò che è a corollario non vi piace, potete chiudere gli occhi o aspettare cosa si inventeranno le The Last Dinner Party per il sequel di questo disco. Il sophistirock di Prelude To Ecstasy, pur con tutte le ingenuità proprie di un album di esordio che di certo non abbatteranno i nostri pregiudizi rispetto a un gruppo di giovani donne che sfidano il patriar-mercato discografico conciate come ai tempi di Emily Dickinson, è una delle cose più fresche e originali sentite finora, il preludio a un anno, si spera, il più femminile possibile, e non solo in musica.