cosplayer

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Quando mi sento in colpa per essere diventato un ascoltatore ossessivo compulsivo di musica e uno sperperatore collezionista di dischi, penso che poteva andarmi peggio. Ci sono adulti che dipingono elfi e soldatini per i giochi di ruolo, gente che a cinquant’anni si veste da personaggi dei fumetti, o appassionati di modellismo.

I Feel Good ma che finisce malissimo

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Fin Del Mundo – Todo va hacia el mar

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“Nessun suono tranne quello del vento, che sibila fra i cespugli spinosi e l’erba morta”. Questo è l’ascolto della Patagonia che ci ha restituito Bruce Chatwin, testimone acustico (a corollario di un’intera letteratura) di un luogo, anzi, di un concetto che, come poche altre cose al mondo, a noi da questa parte del pianeta evoca l’idea di distanza e di estremo. Oggi quella remota lingua di continente, che vista sul planisfero sembra frammentarsi nella Terra del Fuoco, può contare su un soundscape più moderno ma di altrettanta desolazione e nostalgia grazie alle composizioni delle Fin del Mundo.

Non c’è nome più adeguato per una band nata tra i venti gelidi e i panorami surreali della provincia di Chubut (costa atlantica dell’Argentina più a sud) e poi cresciuta a Buenos Aires a ridosso della pandemia, periodo durante il quale il nome Fin del Mundo ha assunto una seconda accezione e poi una terza, la più recente, come riflesso della complessa situazione internazionale. Che sia inteso come remota periferia del pianeta, estinzione da virus o game over dovuto alla guerra, come la guardi comunque non c’è molta speranza. Il viaggio dell’umanità si conclude ai piedi di un faro ai limiti della Terra, proprio come l’artwork di copertina di Todo va hacia el mar, il folgorante album di esordio di Julieta Heredia (chitarra), Julieta Limia (batteria), Lucía Masnatta (chitarra e voce) e Yanina Silva (basso). Nell’illustrazione si vede una viaggiatrice con lo zaino sulle spalle che osserva il mare oltre il quale non ci si può più spingere, perché tutto finisce lì.

Todo va hacia el mar in realtà riunisce i due EP pubblicati solo in digitale dalla nascita del gruppo nel 2019 in una edizione speciale e limitata su supporto fisico (sono l’orgoglioso proprietario della copia n. 50 in vinile trasparente). Il primo dei due, omonimo alla band e risalente al 2020, è risultato decisivo per due fattori: ha permesso alle Fin Del Mundo di rimanere unite in un periodo di separazione forzata e a così poco tempo dalla fondazione, ed è stato di altrettanto conforto ai primi supporter della band, costretti in casa dal lockdown. Il tutto grazie a un messaggio di conforto: una fine del mondo lascia comunque spazio a una seconda opportunità, qualunque essa sia.

Lo stile delle Fin Del Mundo può essere ricondotto a un indie rock con sconfinamenti nel post rock e in alcune trame shoegaze, anche se non è difficile cogliere spunti di tardo post punk e qualche più garbato ripensamento dream pop. Nelle composizioni di Todo va hacia el mar si percepisce l’approccio diretto e live della band (il one-two-three-four di bacchette che introduce “La Noche”, prima eccellente traccia del disco, non lascia dubbi), con lunghe divagazioni strumentali che mettono ancora più in evidenza i momenti in cui le canzoni riprendono una conformazione più strutturata ma sempre agli antipodi, più o meno come la Patagonia, dell’alternanza strofe e ritornello. Una manciata di versi per ogni brano o poco più. Un sound basato su due chitarre perfettamente amalgamate, pronte ad alternare arpeggi puliti a pennate graffianti.

Todo va hacia el mar si compone di otto brani, pochi ma superlativi e, soprattutto, più che sufficienti a restituire un quadro completo delle potenzialità delle quattro ragazze. “La noche” è un’intro perfetta, veloce e con il taglio più indie rock del disco, in perfetto contrasto con il dream pop di “Las flores” e della successiva “La distancia”. Il brano che si intitola come loro, “El fin del mundo”, sconfina addirittura in atmosfere shoegaze.

In perfetta simmetria, anche il lato B del disco, introdotto da “Hacia los bosques”, si avvia come la prima facciata. “El proximo verano”, la traccia che segue, condensa tutte le anime della band e, di tutto l’album, forse è quella che più si avvicina ad essere riconoscibile in una veste da singolo. Chiudono il disco la struggente e poetica “Desvelo” e “El incendio”, una canzone a due marce (la prima sorretta da un intreccio di chitarre che ci riporta ai Cure di “Wish”) che contiene il verso da cui è tratto il titolo dell’album: “Me dejo llevar, me dejo llevar, Si todo va hacia el mar, Todo va hacia el mar”.

Per i gruppi che provengono dalla fine del mondo, o quasi, lo sforzo per approdare al pubblico dell’emisfero settentrionale è triplice. Non basta convincere, occorre anche trovare spazi per emergere che devono risultare adatti a una proposta in lingua spagnola, in un oceano di offerte sempre più eurocentriche. A dimostrazione della loro qualità, il live delle Fin del Mundo alla KEXP in poco più di un anno ha superato ampiamente il milione di visualizzazioni. C’è poco da stupirsi. Todo va hacia el mar è un viaggio in Patagonia ai tempi del villaggio globale raccolto in un disco sorprendente e in uno degli esordi più piacevoli e convincenti di quest’anno. Se laggiù davvero il mondo finisce, si intravede comunque qualcosa all’orizzonte per ricominciare tutto da capo, e meglio di prima.

pronto, casa Beethoven?

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NO NO NO NOOOOOOOOOO, si rispondeva a questa gag intonando l’attacco della Quinta Sinfonia. Il siparietto – siamo a metà anni settanta e alla scuola che allora si chiamava ancora elementare, per darvi delle coordinate – continuava analogamente con “Pronto, casa Mozart?”, a cui l’altro confermava la simmetria nello scambio intonando il tema della Sinfonia N. 40 del compositore austriaco, a cui qualcuno aveva adattato dei versi che più o meno facevano “signorina non rompa la palle, ma consulti le pagine gialle”.


Come è facile intuire, erano i tempi dei Siemens S62 o, per i più temerari, dei Pulsar, gli apparecchi telefonici fissi domestici che servivano tutto il nucleo famigliare. L’etichetta imponeva al chiamante questa procedura:

  1. ci si accertava di aver composto correttamente il numero chiedendo se l’utenza corrispondesse al cognome
  2. quindi ci si presentava e si chiedeva di parlare con l’interessato/a.

La causa scatenante che ha permesso a questa madeleine di fare capolino nei ricordi è stata una telefonata, ricevuta ben tre volte, da un call center purtroppo non intercettato come presunto spammer dal mio smartphone. Saprete meglio di me che le chiamate commerciali possono essere classificate in quattro tipologie a seconda di cosa sentite dall’altra parte:

  1. l’operatore che chiede se siete voi appena rispondete con pronto o, come faccio io, dicendo sì;
  2. i rumori di vario genere all’altro capo della chiamata senza che qualcuno proferisca parola, segno evidente che l’importante per le aziende di call center è dimostrare la quantità di telefonate a cui qualcuno ha risposto;
  3. gli squilli di rimando che dimostrano che le telefonate agli operatori partono solo se il potenziale cliente risponde
  4. e, infine, il messaggio preregistrato, un’entità che nessuno ha mai ascoltato fino alla fine perché talmente irritante da indurre a chiudere all’istante.

La variante che circola in questi giorni, ma non saprei a quale servizio o prodotto o brand ricondurla, è una comunicazione automatica che parte alla risposta proprio con

Se vi è già capitato di riceverla, mi sapete dire cosa succede dopo?

no libro oggi

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La mamma di Eric lo ha scritto sotto forma di comunicazione ufficiale sul diario, da far firmare a noi insegnanti, per essere chiara e fugare ogni dubbio: in occasione della visita alla biblioteca comunale Eric non deve prendere in prestito nessun libro. Non tanto perché in famiglia si parla il cinese e un libro in italiano potrebbe risultargli complicato da leggere durante le vacanze, piuttosto perché la mamma non vuole o non ha tempo poi di riportarlo in biblioteca – così ci ha spiegato lui – una volta che Eric lo avrà terminato o comunque alla scadenza del periodo consentito. Eric ci ha sottoposto l’avviso della mamma come prima cosa, appena entrato, consapevole dell’urgenza di farcelo sapere. È finita che, conclusa la visita, tutti sono rientrati a scuola con un libro tranne lui. Peccato, perché Eric sembrava decisamente attratto da tutti quegli scaffali sommersi da pubblicazioni coloratissime – romanzi, fumetti, saggistica e giochi – e adatte alla sua età. C’era, come facile immaginare, l’imbarazzo della scelta e lui, uno dei bambini più curiosi della mia classe, si è dovuto accontentare di sfogliare qualche volume lì, durante la visita. Ho scattato persino una foto a quella comunicazione secca sul diario – Eric no libro oggi – perché trasmette un’intransigenza sovradimensionata rispetto alla semplicità dell’operazione, ancor prima di considerare l’aspetto severamente morale e pedagogico legato all’importanza della lettura, il profumo della carta e tutte quelle cose lì. Che cosa vuole che sia, vorrei dire alla mamma di Eric, un ritardo nella consegna di un libro alla biblioteca comunale, senza contare che, se nessuno richiede prima il testo, i prestiti possono essere rinnovati fino a tre mesi. La biblioteca comunale, la scuola e le abitazioni dei miei bambini sono a uno sputo di distanza tra di loro, tutte quante incluse nel raggio ridottissimo della frazione di un piccolo paese di periferia. Possibile che la signora non riesca a dedicare mezz’ora del suo tempo – e mi tengo molto largo – per fare un salto a restituirlo? Ho pensato che mi sarei potuto proporre come intermediario e convincere Eric a prendere comunque il libro che preferiva e poi, una volta letto, di riportarlo pure a scuola. Mi sarei occupato in prima persona della riconsegna, non mi sarebbe costato nulla. Ma la mia collega non mi è sembrata d’accordo. Secondo lei avrei corso il rischio di intromettermi in qualche consuetudine famigliare o, peggio, avrei potuto scardinare una consolidata impostazione valoriale in cui – tiro a indovinare – non si leggono i libri appartenenti alla cittadinanza, o i genitori vogliono scegliere in prima persona le letture dei figli, o in casa si leggono solo libri in lingua cinese o boh. Ecco, forse boh. Forse non c’è una spiegazione logica a questo divieto irrazionale. Eric no libro oggi e basta, senza tanti perché.

lei che bacia lui

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Qualche settimana fa ho interrotto il mio sciopero dei concerti per partecipare all’esibizione live di Colapesce Dimartino all’Alcatraz di Milano. Non so se avete notato la grave crisi economica che sta attraversando il settore della musica dal vivo. Bene, avrete allora letto su tutti i giornali che la causa di tutto ciò va ricondotta alla mia astensione dalla partecipazione ai concerti che ho proclamato – manifestando un segnale forte di insofferenza – tre anni or sono.

Non mi reco ai concerti – e più accesa è la passione che provo per una band o un’artista e più efficace è la mia rimostranza – ormai dal 2018 principalmente per due motivi, anzi tre: non posso sopportare di condividere la conoscenza di un gruppo con qualcun altro e di pensare che ci sia gente che apprezza le band di nicchia che seguo. Non sopporto chi va ai concerti, mi si piazza vicino e canta le canzoni, soprattutto dimostrando di conoscere i testi meglio di me. Non sopporto chi si reca ai concerti solo per presenziare all’evento e senza conoscere a fondo la band e poi passa il tempo a chiacchierare o a fare la spola con il bar. E vi dirò che non sopporto nemmeno quelli che tengono lo smartphone in alto per scattare foto o riprendere video del concerto che poi non vedranno mai. Ecco, in realtà i motivi sono quattro e sono certo che se mi lasciate continuare ne trovo altri mille.

Comunque ho interrotto il mio sciopero dei concerti per andare a vedere Colapesce Dimartino all’Alcatraz di Milano un paio di settimane fa e l’ho fatto per due motivi: li adoro e li adora anche mia moglie. Abbiamo preso due biglietti ma poi mia moglie si è accorta che, proprio quella sera, sarebbe stata coinvolta in una trasferta per lavoro, quindi poi alla fine non ci siamo andati insieme ma ho venduto il biglietto a una coppia di amici e sono andato lo stesso da solo e vi posso confermare che era pieno di gente che amava Colapesce Dimartino come me, che tutti cantavano le canzoni e che addirittura accompagnavano certi passaggi particolari con la gestualità tipica della nostra cultura, che c’era chi chiacchierava durante i brani e faceva la spola con il bar e che quasi tutti hanno scattato foto e ripreso video con lo smartphone per tutto il concerto che poi non vedranno mai. Il concerto, comunque, è stato davvero molto bello. Loro sono bravissimi, io conoscevo tutti i pezzi e dal vivo non mi aspettavo una resa così coinvolgente.

Oltre alla faccenda dell’interruzione dello sciopero, avrete anche letto sui giornali che di Colapesce e Dimartino, oltre alla musica, mi piacciono molto proprio i testi ed è un dettaglio che ha dell’incredibile. Amo molto anche la loro sicilianità ed è un aspetto che si è consolidato quest’anno proprio durante le vacanze estive che ho trascorso in Sicilia. Il primo disco di Colapesce Dimartino (il nuovo è uscito solo a novembre) è stata la colonna sonora del viaggio e si è prestato molto perché i richiami alla Sicilia sono assai frequenti. Se lo conoscete, per esempio c’è una delle tracce più famose – si intitola “Luna araba” – e vede il featuring di Carmen Consoli. Il testo è centrato proprio sul fascino che esercita la Sicilia sui turisti, sui suoi abitanti alle prese con i turisti (che sono sempre di più) e anche sulle contraddizioni di quella meravigliosa terra. C’è poi un passaggio che trovo molto toccante. C’è un verso che dice

Dove sei rimasta ad aspettarmi tu
Sicuro c’era il mare

Non so quale immagine volessero trasmetterci i due autori ma l’idea che mi sono fatto io è che quei versi cantati con quella specifica melodia siano stati scritti pensando ai numerosissimi giovanissimi siciliani che vengono a lavorare al nord – ce ne sono svariati tra i miei colleghi a scuola – e che lasciano nella loro terra i loro affetti e devono attendere per tutto l’inverno le vacanze estive per riabbracciarli, magari proprio in un posto di mare come quello della canzone.

Questo mi fa riflettere sul legame indissolubile che abbiamo con la terra in cui siamo nati e il ritorno alla quale, se ce ne priviamo, aneliamo per tutta la vita. Anch’io, nel mio piccolo, sono emigrato anche se solo di 150 km. Potrei tornare in Liguria ogni fine settimana, se volessi e se non lo facessero simultaneamente milioni di milanesi, che poi tornano simultaneamente a casa il giorno successivo. Per anni addirittura tornavo ogni sera pur lavorando a Milano. Con una manciata di altri folli come me praticavo il pendolarismo estremo e quotidiano sparandomi Genova – Milano andata e ritorno in giornata in treno tutti i santi giorni, pur di non trasferirmi quassù e rientrare nella mia casetta di Castelletto.

Che poi in realtà io sono nato a Savona, città che da qui ci si mette qualcosa di più per raggiungerla e alla quale invece mi sento un po’ meno legato perché è piuttosto deprivata e deprimente. Nonostante il rapporto amore-odio che mi lega a lei, ne seguo comunque le vicende sui social in quei gruppi che vanno per la maggiore in cui si parla di parcheggi, merde dei cani, microcriminalità locale, dileggio del PD e foto amatoriali a scorci discutibili con suv in primo piano. È proprio da una di queste pagine che ho appreso che Savona, seguendo un trend piuttosto diffuso in Italia, ha addobbato le proprie vie in occasione del Natale con quella tecnica di creare luminarie contenenti versi tratti dai testi di brani di cittadini illustri divenuti pop star nazionali grazie alle loro canzoni. A Savona le luminarie riprendono frasi delle canzoni di Annalisa, a dimostrazione che è proprio vero che ogni città ha il Lucio Dalla che si merita.

che palle

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L’essenza del Natale, nella sua accezione laica – ammesso che ne abbia una – è che gli sforzi dell’umanità, almeno di chi può festeggiarlo, si concentrano intorno a un palinsesto dedicato ad alcuni temi che negli altri periodi dell’anno non ci è possibile seguire per svariati motivi: la nostra natura, il lavoro che facciamo, il clima stesso, i fatti di attualità e il solito tran tran. Fino quando poi sopraggiunge dicembre – che, non so se avete notato, è lì che ci aspetta puntuale sin dal giorno in cui rientriamo dalle ferie estive – e tutti ci sintonizziamo più o meno sullo stesso canale e ci impegniamo a favorire le condizioni per cui l’unico scopo e il solo pensiero siano finalizzati a un motivo conduttore condiviso che, banalizzando, è riconducibile a far di tutto per fare stare bene il prossimo e, di riflesso, esporci in modo tale che il prossimo faccia stare bene noi, una versione con renne e slitte e festoni e canti ad hoc della strategia win-win, quella in cui tutti hanno la percezione di aver raggiunto gli obiettivi inizialmente prefissati.

Ed è impossibile sottrarsi a questa narrazione a meno che non viviate nella striscia di Gaza, in qualche paese del terzo mondo, nei territori in guerra o in qualunque area del pianeta devastata da una catastrofe naturale. Probabilmente la scansione del tempo – che a volte ci sembra una convenzione sociale ma poi, studiando rotazione e rivoluzione terrestre in scienze ci sono ben chiari i motivi per cui non dipende da noi – è stata pensata proprio per consumare fino al loro esaurimento i pattern ricorrenti (giorni, mesi, stagioni e anni e mi fermo qui, dai secoli in poi è tutto ampiamente fuori dalla nostra portata) intorno ai quali conduciamo la nostra esistenza. Se a sera ci addormentiamo sul divano al tg di Mentana, se non arriviamo alla fine del mese con lo stipendio e se a dicembre giungiamo stremati ci sarà un motivo. Voglio dire, probabilmente la natura ci dà il suo clic in cuffia, proprio come succede negli studi di registrazione, e noi viviamo seguendo quel ritmo. Questo per dire che siamo tutti uguali di fronte all’albero di Natale addobbato e ci abbandoniamo a quel mix agrodolce di pensieri che poi sublimiamo – alcuni la sera della vigilia, altri al pranzo del 25, ecco, in questo siamo diversi – nel convivio con gli appartenenti alla nostra specie più prossimi al nostro vissuto. Il punto è: è nato prima il natale o prima l’insieme di tradizioni che seguiamo rigorosamente ogni anno seguendo una check list consolidata da secoli? Prima dell’anno zero, a natale come passavate il tempo?

In casa, per le strade, alla tele, nei centri commerciali è impossibile sottrarsi allo stato d’animo diffuso. A scuola, poi, che è un concentrato di bambini che, del natale, costituiscono il core business, non ne parliamo, ed è sconsigliatissimo adottare deterrenti a questa sorta di pensiero unico. Quest’anno il consueto lavoretto di natale che purtroppo non posso decidere in autonomia ma è di competenza della collega più brillante in ambito bricolage e fai-da-te (se potessi decidere io farei un’infografica con Canva) consiste in una casetta costruita con le palette per spalmare la cera, che poi se le cercate su Amazon scoprirete che fungono anche da abbassalingua, spero non prima di averle lavate. Io, che con le attività manuali sono una frana, ho trasmesso tutte le mie perplessità sul tempo perso a realizzare male qualcosa che poi finirà nella spazzatura a feste finite ai miei alunni che, di conseguenza, a parte i soliti primi della classe che approcciano qualunque proposta con lo stesso invidiabile eccesso di zelo, è venuto una merda.

C’è poi Leonardo, che quest’anno è davvero al centro delle attenzioni di tutti, a cui invece il natale fa l’effetto opposto. Odia tutto e tutti molto più di quanto non esprima per il resto delle stagioni e l’insieme dei cambiamenti volti all’omologazione generale verso l’estetica e l’etica delle festività lo mandano in bestia con una frequenza maggiore del solito. Ogni pretesto è buono per far volare banchi e sedie in aria e, davvero, non sappiamo più che pesci prendere. Ci sono poi le colleghe che mi vogliono bene perché, alla fine, riesco a collegare sempre le loro stampanti di classe al pc dopo gli aggiornamenti che lasciano partire involontariamente, o anche solo perché hanno messo il cavo usb nella presa di rete del portatile. Sanno che mi piace il genepì e così, a dicembre, mi faccio la scorta per tutto l’anno.

Tra i membri del team dell’interclasse ci facciamo sempre un pensierino, una candela, un segnalibro o qualche altro oggetto originale acquistato ai mercatini di natale. Il primo anno in cui ho preso servizio non lo sapevo, venivo da un ambiente professionale in cui il fattore umano non era certo al primo posto, e così sono stato l’unico a presentarsi a mani vuote ma, per fortuna, l’appartenenza al genere maschile mi ha sollevato dalla figura di merda. Sei un uomo, non ti preoccupare, mi ha detto la mia collega di classe. Da allora ogni anno mobilito mia moglie per supportarmi nella scelta delle cose più adatte da acquistare per il consueto scambio dei doni all’ultima riunione di programmazione di interclasse prima della pausa natalizia. Non che io non sia in grado di scegliere, ma solo perché vivo nella convinzione che, se acquistati da una donna, i regalini possano corrispondere di più all’idea che le mie colleghe hanno di me, un uomo che si affida a una donna per le cose da donna.

Bleach Lab – Lost in a Rush of Emptiness

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Quello dei Bleach Lab è uno splendido dream pop basato sulla chitarra di un chitarrista che, a ridosso della pubblicazione dell’album di esordio della band (il disco di cui sto scrivendo) ha mollato il colpo.

Ve lo dico perché avevo appena sistemato l’attacco per questa sorta di recensione e faceva più o meno così: Jenna Kyle e Frank Wates dei Bleach Lab passeranno alla storia come una di quelle coppie voce e chitarra che il destino ha voluto far incontrare apposta per rendere immortale la reciproca complementarità. Stavo addirittura per tirare in ballo Morrissey e Johnny Marr, o Elizabeth Fraser e Robin Guthrie. Poi (è stato per puro caso) mi hanno insospettito delle riprese di un live dei giorni scorsi, pubblicate su Youtube, e una foto promozionale che accompagna il disco: le facce dei chitarristi sono oggettivamente diverse.

È stata sufficiente una ricerca sul loro profilo Facebook per recuperare il post dell’annuncio della separazione, risalente ai primi di ottobre, a farmi riflettere sul fatto che il prossimo disco sarà più che una prova del nove per questa talentuosa band londinese. Mi chiedo infatti quanto sia stato determinante lo stile dell’ormai ex-chitarrista Frank Wates per il suono nativo che mi ha catturato così tanto da farmi innamorare di loro e per il valore che ha aggiunto ai Bleach Lab. Se il futuro secondo trentatrè giri dei Bleach Lab funzionerà allo stesso modo di Lost in a Rush of Emptiness, e ce lo auguriamo con tutto il cuore, e il chitarrista che lo rimpiazzerà sarà più di un mero turnista, significa che ci troviamo al cospetto di un band con una personalità incredibile e sufficientemente forte e matura a prescindere dalle individualità al netto di Jenna Kyle, la cantante, che, forte del suo ruolo, ha più voce in capitolo di tutti.

Ma, almeno per ora, godiamoceli così. I componenti dei due classici della musica che ho citato poco fa non sono stati tirati in ballo a caso e non solo per lo stile in sé. I Bleach Lab sono veri maestri nel restituirci (con sobrietà e poesia) emozioni catturate con una sensibilità che rimanda ai The Smiths nella loro versione più sommessa e trascurabile e ai Cocteau Twins meno intransigenti e più alla mano (quindi a glossolalia rottamata) di Heaven or Las Vegas. Due riferimenti colti nella loro dimensione da b-side (un richiamo alle rispettive hit suonerebbe stucchevole) attraverso rimandi accennati e riscritti secondo i canoni della percezione della musica da vecchi che ha la generazione millennial. Che poi non è proprio così: la storia del dream jangle indie pop è piena di chitarrine pulite e riverberate a fare da culla a voci eteree femminili in ogni decennio, lascio a voi (dai The Sundays ai Mazzy Stars ai Daughter) il piacere della speculazione nelle similitudini.

E il bello di Lost in a Rush of Emptiness, titolo riconducibile alle liriche postume di Leonard Cohen, va individuato nella sfida a smarrirsi per non ritrovarsi lungo il confine impreciso in cui si amalgamano proprio canto e accompagnamento musicale, quello spazio in cui l’uno si confonde egregiamente nell’altro e viceversa. Un aspetto sorprendentemente convincente (e molto più a fuoco di quello che lascerebbero intendere dalla foto di copertina del disco) per una band agli inizi come i Bleach Lab. Sono proprio loro, nelle interviste a supporto dell’uscita del disco di debutto, a dichiarare di aver lavorato meticolosamente e con professionalità alla sua realizzazione.

Non a caso Lost in a Rush of Emptiness suona come una bomboniera artigianale da prima comunione se paragonato al clamore dei chiassosi cotillon musicali a cui siamo sempre più esposti, aspetto che si intuisce sin dalle prime note di “All Night”, il brano introduttivo del disco: nessun incipit d’effetto o crescendo mozzafiato, ma solo un fill di tamburi da prima settimana di lezioni di batteria. Essenziale ma efficace, la prova della mancanza di spazio per gli individualismi in un progetto di questo tipo, a tutto vantaggio delle loro composizioni.

E a marcare la differenza con le tematiche mainstream, l’approccio in punta di piedi dei Bleach Lab è una boccata d’aria fresca. La gentilezza e la sensibilità come linguaggio prestato a tradurre in canzone disfunzioni intime, a partire dalle relazioni claustrofobiche e velenose, il dolore e le angosce d’amore, l’isolamento, la dipendenza dall’alcol e persino un tema urgente come quello delle molestie sessuali. Una tracklist colma di spleen in cui è prevista la redenzione finale, un brano in cui la band canta con pochissima convinzione che “Life Gets Better”, la vita migliora. Ma chi volete prendere in giro, con quei suoni e quel mood lì? Lost in a Rush of Emptiness è l’ennesima prova del fatto che non ha senso ascoltare musica che non sia deprimente.

E, da questo punto di vista, è davvero difficile trovare un difetto in un disco come questo. Il pop shoegaze dei Bleach Lab impone tempi dilatati alle canzoni e, di conseguenza, ci lascia tutto lo spazio per bearci della malinconia e del disagio, sentimento del quale, anche nei momenti più di successo della nostra vita, un po’ di scorta abbiamo sempre da qualche parte. Un disco che raccoglie gli insegnamenti di un filone perfetto per crogiolarsi nel malessere e continuare a far finta, almeno per l’ascolto dell’album, che lo stiamo accettando, ci stiamo convivendo e stiamo provando (“guarda un po’”, raccontiamo a noi stessi) a trovare persino una via d’uscita. Ed è una fortuna (l’unica) che dischi come questo durino poco.

giardino

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Sono in molti a chiedermi cosa si prova alla conclusione di un ciclo. Io rispondo che non lo so, questa è la prima volta che accompagno una classe fino alla quinta, e che ne riparleremo a giugno. Anzi, non rispondo proprio perché ho il sentore che sarà complicato. Se rivolgete la stessa domanda alla mia collega, che invece è una veterana, lei ha la mia età ma fa questo lavoro da quando aveva diciannove anni (io a diciannove anni mi conciavo come Robert Smith e volevo fare il musicista new wave) vi sentirete rispondere che è un aspetto del nostro lavoro, che siamo di passaggio nella vita dei bambini, che poi si riprende con un’altra prima e i nostri ex alunni, tempo qualche mese, non si ricorderanno più chi siamo e così via. Se lavori con le persone, le persone nella vita vanno e vengono e affezionarsi non è tanto che non bisogna farlo quanto che è controproducente, un po’ come per i dottori, gli psicologi, gli allenatori sportivi. E, a pensarci bene, gli insegnanti sono un po’ tutte queste figure insieme ma anche di più. C’è qualche volta in cui non vedo l’ora di lasciarli perché, ora che sono grandi, non li sopporto più. Ma è un po’ come le dinamiche in famiglia: la sovraesposizione alle persone genera mostri relazionali. Abbandonereste mai il vostro partner, i vostri figli, i vostri gatti solo perché qualche volta vi fanno arrabbiare? Ecco, anche tra maestri e alunni funziona allo stesso modo. Sanno essere adorabili e insopportabili, a volte anche simultaneamente. La cosa che ho imparato è che si possono fare delle sfuriate e mettere tutte le note sul diario del mondo ma la mattina dopo, suonata la campanella, i bambini non se lo ricordano più e sono pronti a ripartire da zero, senza risentimento alcuno. A parte qualche eccezione, la mia classe andrà alla secondaria dello stesso istituto comprensivo. Si trova dall’altra parte del giardino e condividiamo la stessa palestra. Ogni tanto li vedo passare, di ritorno dall’ultima ora di motoria, o mentre giocano nel campo di basket in cui ci mettiamo noi nell’intervallo lungo perché il docente è assente e l’insegnante di sostegno li porta a pascolare fuori. Li osservo comportarsi da adolescenti e mi chiedo che cosa c’entrino con il materiale umano che mi trovo sottomano. Non ce li vedo, i miei alunni, in quei corpi sviluppati, i maschi con la peluria sul viso, le femmine con il seno. Un paio di notti fa ho sognato il mio ACD cinese che mi parlava nel modo in cui si rivolge a me dalla prima, con le sue frasi senza senso in un italiano da linguaggio macchina. Nel sogno pensavo che non sarebbe stato poi così male non essere più importunato dalle sue domande sgrammaticate e sparate a raffica, sentirmi libero dall’essere il suo unico punto di riferimento e il primo a cui dire che ha mangiato al Burger King o che suo fratellino lo ha svegliato alle sei e trentotto. Nel sogno eravamo in giardino, lui mi stava accozzato come ha fatto ogni giorno, sin dalla prima a oggi,  a disturbarmi in quella mezz’oretta di relax, mentre tutti gli altri giocavano a calcio nel campetto da basket, e poi, non chiedetemi il perché, ma nel sogno pensavo a lui come farà il prossimo anno e mi mettevo a piangere e singhiozzare proprio come fanno loro, maledetti ingrati che andranno alle medie senza di me.

Egyptian Blue – A Living Commodity

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Stare dietro alle nuove uscite di dischi post-punk e distinguere quelle di reale qualità, di questi tempi, è un’impresa. Il rischio per i militanti del genere, soprattutto se emergenti, è quello di rincorrere l’affermazione affiliandosi a uno dei generi del momento senza una visione a lungo termine. Ogni nuova uscita è bene prenderla con riserva. Molto meglio aspettare il secondo disco, per verificare se si ha a che fare con un progetto da una botta e via o c’è invece dietro della sostanza in grado di garantire la crescita e la definizione di uno stile più personale.

In questo scenario, possiamo considerare gli Egyptian Blue un’eccezione a tutti gli effetti. Il loro debutto a trentatré giri dal titolo A Living Commodity suona già come una conferma e un traguardo di maturità compositiva.

Sarà che la band pubblica singoli e EP dal 2019 e che (sopravvissuti alla selezione naturale artistica imposta dal lockdown) sono stati chiamati a condividere il palco con gruppi della portata degli Idles e dei Foals nei loro tour. I rispettivi leader, Joe Talbot e Yannis Philippakis, si sono dichiarati sostenitori entusiasti di questo quartetto originario di Colchester, poi cresciuto musicalmente a Brighton. Non a caso, se vogliamo dare delle coordinate, gli Egyptian Blue professano influenze indie-rock anni 2000 (che grazie a loro acquisisce lo status di classico a tutti gli effetti) più che dall’onnipresente famedio degli anni ’80.

Il nucleo fondante di questa nuova promessa del post-punk è capitanato dal ticket Andy Buss e Leith Ambrose, entrambi chitarristi e cantanti che si frequentano musicalmente dall’adolescenza, e completato dalla potente propulsione ritmica di Luke Phelps al basso e Isaac Ide alla batteria.

Il quartetto è artefice di un suono che rielabora gli standard specifici del genere con un inconfondibile piglio personale, caratterizzato da riff graffianti che sconfinano nel math-punk, spesso in tempi dispari, ripetuti in loop, e destinati a incastrarsi brutalmente in basi quadrate e martellanti, sulle quali si normalizzano straordinariamente in un andamento regolare e ipnotico. Nell’insieme, un suono elettrico e pulito basato sulle chitarre, veloce e a forte impatto, con tracce essenziali e compatte che concentrano, in tre minuti o poco più, tutto quello che c’è da dire.

Il disco suona nervosissimo dal primo all’ultimo brano, sia nelle tracce in cui l’intransigenza post-punk non ammette compromessi, come “Matador”, “Nylon Wire”, “To Be Felt” e “Contain It”, sia nei brani in cui la voracità esecutiva lascia spazio all’introspezione e all’atmosfera, è il caso della titletrack, di “Apparent Cause” e di “Suit Of Lights”, sia negli episodi più riusciti del disco, in cui la rabbiosa scrittura della band è mediata dalle incursioni in trovate ritmiche scomode ma gestite con grande perizia, grazie alla tecnica esecutivo dei quattro. È infatti in canzoni come “Belgrade Shade”, “Skin”, “In My Condition”, “Geisha” che A Living Commodity risalta nella sua eccezionalità, grazie a uno stile fuori dagli schemi che ci auguriamo che la band – sicuramente una delle più convincenti promesse della più recente scena anglosassone – abbia l’intenzione di approfondire.

Di certo, l’esordio degli Egyptian Blue, perfezionato lungo varie scritture e riscritture e pubblicato da YALA! Records, etichetta co-fondata dall’ex componente dei Maccabee Felix White, è uno dei più freschi debutti sulla piazza. Un’opera prima ambiziosa di una band destinata a lasciare il segno