compagni di viaggio

Standard

Al proprietario di un telefono del genere non dovrebbe essere consentito di provare in sequenza e in “profilo normale”, quindi a volume medio-alto, tutte le suonerie di cui il dispositivo è dotato, vero? E se te lo ritrovi a fianco nel tragitto del ritorno mentre stai valutando se sia meglio proseguire con la lettura o schiacciare un pisolino per una manciata di stazioni, e al terzo o quarto squillo realizzi che non sta ricevendo telefonate ma si sta solo trastullando con un passatempo ormai superato da almeno quindici anni, a nulla vale fargli notare che no, non è un comportamento corretto. Se tutti facessero come lui, che babele di suonerie sarebbe questa carrozza che già si distingue dal resto dell’ambiente per la temperatura interna vicina allo zero. Spero che tu abbia trovato la musichetta più consona alla tua personalità, una scelta tra “beep beep” o “bip-bi-bi-bip-bi-bi-bip” o l’immancabile fuga di Bach o il volo del calabrone. Mi spiace aver perso il finale della tua performance, sono certo che chi mi ha sostituito al tuo fianco abbia apprezzato quanto me.

la società liquida

Standard

Ora, Bauman può pensarla come vuole e chi sono io per affermare il contrario. Dico solo che in presenza di un certo tipo di contenuti fluidi occorre utilizzare contenitori adeguati. Perché poi capita di trovarsi in prossimità del bifolco di turno che si presenta all’accettazione del laboratorio analisi con una bottiglia piena fino all’orlo di un inequivocabile liquido giallognolo. Avete letto bene: una di quelle bottiglie con il tappo a molla, lo stesso tipo che mia nonna utilizzava per preparare l’idrolitina meglio nota nel lessico famigliare come acqua di Vichy. Ma tornando in fila nel nostro ambulatorio, io ho il numero 21 quindi ho giusto il tempo per raccogliere queste impressioni, questo tizio è palesemente sorpreso del fatto che l’impiegata dietro lo sportello con tanto di protezione profilattica in plexiglass lo stia riprendendo. Metta via quel coso, gli dice. Ci vogliono i recipienti asettici e soprattutto non occorre raccogliere così tanta urina. Come ha fatto a riempire una bottiglia, gli chiede. Ho bevuto tutto ieri sera e stanotte mi sono alzato più volte, il bifolco rassicura così l’addetta al pagamento del ticket dall’altra parte e se stesso di qui, tra il pubblico ludibrio che si dipana oltre la linea gialla, e rinfodera i suoi effluvi nella borsa blu della spesa, un modello di sacchetto peraltro a oggi fuorilegge.

Ma non è tutto, perché mentre accade tutto questo poco più in là ecco invece uno stolto che, volendo estrarre il libro dalla borsa per ingannare il tempo di attesa, si accorge che malgrado abbia utilizzato un contenitore omologato e conforme a differenza del bifolco che stava compatendo, questo non ha retto il percorso in bicicletta, o molto più facilmente lo stolto – che guarda caso ha anch’egli il numero 21 proprio come me, che combinazione – non ha assicurato bene la chiusura ermetica, pubblicizzata anche sulla confezione ora ridotta a una fase intermedia di cartapesta. Stamane non c’è proprio di che annoiarsi, in coda al laboratorio analisi. E per fortuna ne è rimasta un po’ dentro, pensa tra sé lo stolto maledicendo se stesso e cercando la commiserazione di chi è immerso nelle proprie, di preoccupazioni, chissà se più urgenti o meno. Dettagli impossibili da sapersi, ognuno occulta come può l’impegnativa del medico per tutelare al meglio la propria privacy, come se la missione dell’umanità fosse quella di spiare i valori del colesterolo altrui o risalire a quale disturbo possa soffrire qualcuno in base alla presenza nella lista dei test da effettuare di transaminasi o billirubina. A malapena siamo in grado di raccogliere la nostra pipì. E per scrupolo, non conoscendo la quantità necessaria per il corretto svolgimento dell’esame, il nostro numero 21, giunto il suo momento, mette al corrente l’infermiera dell’incidente di percorso per rompere il ghiaccio mentre lei con fare esperto cerca di trovare una vena sufficientemente visibile e adatta allo scopo. L’infermiera butta un occhio sul livello del liquido e tranquillizza il paziente con un più che eloquente “ciumbia!”.

la fortezza

Standard

C’è quasi buio e fa caldo ma solo da una parte e io lo so il perché, stiamo salendo e alla nostra destra c’è il muro che ha assorbito i raggi del sole fino a meno di un’ora fa e ora lo caccia fuori tutto. Così abbiamo il vento che tutto sommato è fresco sul viso e questa irradiazione di calore sulla spalla e sulla gamba e sulla guancia destra, così mi hai detto prova ad appoggiare la schiena, prova ad abbandonarti sul muro e a sentire quello che sentiremo anche domani. Ci sono gruppi di turisti che scendono dalla cima così ti prendo per mano e ti spingo di fianco a me, a guardare la gente che torna giù e guarda noi che non sappiamo nemmeno se continueremo su o se ne avremo abbastanza, ma intanto ci sono queste mura roventi che ogni giorno da mille anni a questa parte traggono in inganno pellegrini antichi e moderni, catturano l’estate e la rilasciano di notte a chi si appoggia, come un’illusione. Da sotto si sente uno di quei pezzi che ogni bella stagione vanno per la maggiore e che si ballano qualunque sia l’arrangiamento, ti potrei cantare anche una decina di versioni differenti e soprattutto la più brutta che era pure una pubblicità di qualche cosa, sicuramente telefoni con comici discutibili come testimonial. Ma questa non è male, un po’ jazz e un po’ afro, la cantante può prenderla alta e farsi bella con la sua estensione vocale. Le luci in quel punto sono basse e ora non si vede quasi più nulla, i passanti sono molto abbronzati e non percepiamo nemmeno i lineamenti, per fortuna vestono quasi tutti di bianco, alcuni hanno anche il cappello a tesa larga. Possiamo spostarci ora, andiamo dove c’è un po’ di chiaro, se proseguiamo fino in cima corriamo il rischio di non sentire più nulla, solo la salita nelle gambe e le mani strette per la paura di perdersi.

ed è un peccato perché c’erano tutti i presupposti, ma si sa come vanno le cose

Standard

Erano una coppia di quelle che non avresti definito felice, ma era anche difficile affermare il contrario. Lui era stato tutta la vita un capostazione quando le divise di chi lavorava in ferrovia erano tutte blu e si vede che non si sentiva a proprio agio con altri colori addosso. Oramai in pensione, per lavorare nell’orto o per sistemare tutti i piccoli problemi che una casa in campagna genera ogni giorno – c’è sempre qualcosa da fare – usava una tuta blu di quelle da meccanico. Per andare in paese la mattina presto a scegliere il pesce migliore per pranzo o per passare dal ferramenta a comprare i tasselli o il filo o i chiodi si metteva pantaloni, giubbotto e cappello con la visiera blu. Per questo quelli che lo incontravano lo salutavano quasi militarmente, buongiorno signor capostazione, anche se non lo era più da anni.

Ma il fatto che sorridesse di rado era solo un’impressione. Portava i baffi perché aveva la parte superiore del labbro enorme – le figlie un po’ lo prendevano in giro per questo – e finiva che i baffoni neri gli coprivano quasi tutta la bocca e non sapevi che smorfie facesse, nemmeno quando parlava si vedeva qualcosa muoversi, quindi era difficile percepire il suo stato d’animo. Aveva anche delle mani smisurate, era di corporatura grande ma la mani quelle erano davvero gigantesche, che tutti si chiedevano cosa ci facesse con quelle mani lì. Malgrado l’ingombro, era in grado di eseguire lavoretti di fino e di precisione, per esempio lavorare le esche prima di andare a pesca o infilare il filo nella cruna dell’ago al primo colpo. Ma con la moglie parlava poco, e peccato perché lei era davvero una chiacchierona.

Lei aveva quell’espressione stampata sul viso di chi sembra che ti sta prendendo in giro, quella con la bocca piegata solo da un lato, farei un disegno se potessi per farvi capire meglio, parlava solo con metà labbra lasciando l’altra metà ferma come se fosse stata colpita da un’emiparesi. Per fortuna non era il suo caso, perché la sorte già era stata poco bonaria con lei. Per colpa di un tumore le era stato asportato un seno, cosa che lei raccontava con la soddisfazione ampiamente comprensibile di chi ha vinto una battaglia o di chi ha ucciso un animale feroce durante una battuta di caccia. E si lamentava solo di due cose. Ce l’aveva con la sfortuna, e per descrivere la propria condizione in dialetto diceva una frase piuttosto popolare, a proposito di falli che vagano nell’aria e vanno a colpire bersagli poco nobili anche a distanza di centinaia di chilometri, il cui significato è tutto sommato condivisibile. E ce l’aveva un po’ con le figlie che, già grandi, non le avevano fino ad allora dato la soddisfazione sperata, ciò che una madre a più di sessant’anni vorrebbe per essere un po’ meno mamma e diventare un po’ di più nonna.

Per questo vedeva di buon occhio i potenziali generi che si alternavano al fianco delle due figlie e ogni volta sperava che fosse quella decisiva. Non so il suo vero nome perché tutti la chiamavano Lilli. Io la conoscevo perché faceva le pulizie nell’appartamento vicino al mio. Una mattina, al bar sotto casa l’avevo vista particolarmente di buon umore e in cambio di un caffè l’avevo convinta a raccontarmi il motivo di tanta serenità mattutina, malgrado quello che si apprestava a fare per le ore successive, voglio dire passare in rassegna la biancheria zozza di uno scapolo non è il massimo della vita. Il fidanzato della figlia minore, per il compleanno della ragazza che avevano celebrato a cena tutti insieme la sera prima, le aveva regalato un set completo per dipingere. I colori a olio, la tavolozza, i pennelli e persino il reggi tela da pittore. Quando la figlia aveva strappato la carta dalla gioia aveva gettato le braccia al collo del suo ragazzo e mentre si stringevano e si baciavano la Lilli si era addirittura messa a piangere perché aveva pensato che quei due si volevano davvero bene.

come si intitola quel pezzo di quel gruppo che incomincia con quel riff di sintetizzatore

Standard

A una certa età la maggior parte delle discussioni sono introdotte da domande di questo tipo, non si fornisce all’interlocutore nessun indizio perché nella propria memoria c’è il vuoto e si pretende dagli altri una risposta immediata come se fosse semplice cercare tra i file in cantina della nostra mente. Cose come “hai visto quel film di quel regista con quell’attore” o “hai letto quel libro di quello scrittore che aveva fatto anche la sceneggiatura di quell’altro film che aveva la colonna sonora di quel gruppo” sono all’ordine del giorno ed è per questo che invito voi lettori delle giovani generazioni a non avercela con noi persone di mezza età che a fatica siamo in grado di affermare con cosa abbiamo fatto colazione questa mattina. Questo per dire che erano settimane che avevo in testa un riff di sintetizzatore che chissà come mi era venuto in mente e non riuscivo a trovare nessuna collocazione. Lo cantavo agli altri ma nulla, addirittura uno sbarbatello era certo si trattasse degli Europe, ma ti sembra che uno come me possa avere una eco di un pezzo di quei tamarri lì in testa. Non avete idea di quanto abbia sofferto. Poi giusto questo weekend con gli ennemila canali video di Sky a disposizione dei miei genitori, che vi ricordo poi passano il tempo su Tele Padre Pio o sui programmi di esibizioni delle orchestre di liscio piemontesi, per puro caso si è manifestato questo pezzo e così finalmente la sinapsi si è accesa. Roba del 1978 che non ricordo di aver mai più ascoltato da allora, da quando cioè canticchiavo la chitarra elettrica facendo versi di distorsione e mimando con la mano sulla borchia della cintura dei jeans a ritmo, ma che mi aveva colpito proprio per la parte iniziale di tastiere che, a parte essere ripresa a metà pezzo, non c’entra nulla con il resto del brano. Così, direttamente dalle mie elucubrazioni sonore, ecco a voi gli Sweet con “Love is like oxygen”.

il giorno in cui la differenza di età si riduce

Standard

Non c’è molto da dire e questo è un vero peccato. Per me che ho la certezza che il tempo non debba mai essere utilizzato standosene zitti si tratta una vera disdetta, così continuo a fare domande e a ottenere risposte fino a quando il dialogo si estingue perché il gioco passa di mano e toccherebbe a me essere l’oggetto dell’interrogatorio, ma a quel punto gli argomenti si sono esauriti. C’è una frattura lunga venti, addirittura trent’anni dopodiché l’interesse dello scambio tra adulti, quando ci sono adulti anziani genitori da una parte e adulti figli di mezza età dall’altra, si limita a cose molto contingenti e lo stare insieme si riduce a un pranzo e una cena e poi un pranzo ancora, e in mezzo un sonnellino perché è un diritto di chi ha una certa età, lo so, e poi c’è la notte e dopo si parte per ritornare. Ci sono molte cose sottintese, forse, ma a me piacerebbe che qualcuno me le sbattesse sul muso, una volta per tutte, possibilmente almeno prima della penultima visita, così da avere un po’ di margine per rifletterci su e dedicare l’ultima a tutto quello su cui ci sarà da ridere insieme.

diritto di smog

Standard

Si fumava in camera da letto, anche prima di addormentarsi, magari in inverno e con la finestra chiusa. Qualche pagina di libro o la recensione di un disco sulla rivista preferita accompagnata dall’ultima sigaretta del giorno, da spegnere nel posacenere a fianco con la réclame di una nota marca di pastis e il mozzicone che rimaneva lì, molto spesso insieme agli altri, fino alla mattina dopo, come minimo. Così ci si coricava nella nebbia, persino le tende si impregnavano delle esalazioni del tabacco spesso irrimediabilmente, tanto al primo lavaggio si decideva per cambiarle del tutto, non sempre il giallo nicotina si abbina con il resto dei mobili e il colore delle pareti. Si collezionavano addirittura pacchetti di sigarette vuoti con i quali si creavano le più ardite costruzioni da esporre in bella mostra. Altre volte li si svuotavano alla ricerca di rimasugli di tabacco nei momenti in cui di sigarette in casa non ce n’era nemmeno una. Sembra una pratica inutile e ridicola, ma se replicata su centinaia di confezioni vuote alla fine qualche tiro ci scappava sempre.

E si fumava in bagno, leggendo il giornale, facile indovinare facendo cosa, buttando il mozzicone con lo sciacquone e ogni volta ricordando la leggenda metropolitana dello stolto che aveva fatto lo stesso gettando prima batuffoli di cotone imbevuti di alcol. Si fumava nei club e ai concerti, ed è per questo che era sempre consigliato un abbigliamento da mettere a lavare poi il giorno successivo. La puzza di fumo che impregnava i vestiti era proverbiale anche sui treni quando addirittura la percentuale di spazi per i fumatori e i non fumatori era più o meno uguale, tanto che anche i pendolari non fumatori puzzavano tanto quanto gli altri. Ci si accendeva la prima sigaretta del primo pacchetto sul locale delle sette e trenta, il secondo lo si inaugurava a metà pomeriggio, aspettando il treno del ritorno dopo l’ultima lezione in facoltà. Ma si fumava anche in ufficio, ambienti in cui il nervosismo portava a un consumo in eccesso e, in prossimità dei computer usati dalle fumatrici, la quota rosa di cicche spente si distingueva per il rossetto sul filtro. C’erano anche aziende in cui qualcuno si rollava sigarette “rinforzate”, nella mia carriera ho collaborato con almeno un paio.

Tra gli ambienti privati uno dei luoghi preferiti dai tabagisti era senz’altro l’abitacolo dell’automobile, e non c’era arbre magique che tenesse. C’erano quelli che riempivano di mozziconi tutti gli spazi adibiti, ricordo addirittura un tizio che si rifiutò di spostare l’auto di un mio amico che gli ostruiva il parcheggio. Entrò nel bar e disse che l’avrebbe spostata lui senza disturbarlo, ma aveva aperto la portiera e aveva visto la montagna di sigarette spente e dal forte odore di fumo, lui che non fumava, si era sentito male. E anche se oggi ci sembra un’abitudine assurda, si fumava e tanto anche nei bar e nei ristoranti, dopo il caffè o a metà pasto e fa sorridere che se non ci fossero stati incendi e tragedie ci sarebbe anche sembrato normale fumare senza sosta al cinema e a teatro. Si faceva colazione tutti insieme con il cappuccio e il cornetto al tavolino, e poi in molti pronti a suggellare il rito del completamento dell’opera, l’ingrediente segreto a sancire la digestione parziale o totale. Me ne offri una, hai d’accendere, queste erano le cose che si sentiva dire più spesso. Ma seduto a fianco c’era sempre chi manifestava insofferenza più o meno palesemente, e il fumatore poteva anche indispettirsi – quella era la vera cultura antiproibizionista – e  rispondere che non era vietato e che comunque esercitava il suo diritto di smog. Diritto di smog un cazzo.

più di due anni di lavoro

Standard

È appena terminato un programma mattutino su Rai Uno dedicato alle automobili, una vetrina patinata delle prove su strada, virtù, confort e optional delle vetture attualmente in commercio con tanto di analisi comparata. Tralascio il motivo per cui il vostro sia stato sottoposto alla visione e perché mi trovassi in presenza di un apparecchio televisivo acceso alle 8:30 del mattino, non vogliatemene, non sono a casa mia. In realtà l’escamotage per lasciar passare in secondo piano quello che mi ha spinto a una riflessione terra a terra, quelle che ti vengono appena sveglio e confuso dal metterti in moto – è proprio il caso di dirlo – per la nuova giornata anche se è un giorno festivo, dicevo l’escamotage pensato dagli autori del programma è mostrare borghi e paesi incantevoli, oggi eravamo in Toscana, lungo lei cui strade e vie i conduttori al volante ci espongono la loro recensione. Potete immaginare l’oggetto della mia riflessione terra a terra, ovvero il costo della Fiat Freelander, della Range Rover o dell’Audi e non ricordo l’auto oggetto del test, prezzi a partire da 30 mila o 35 mila euro ma che per il modello utilizzato per la trasmissione, con tutti i crismi e gli accessori del calibro del filtro anti-polline, arrivano a 50 mila euro. La conduttrice snocciola le cifre da listino come se fosse una cosa normale, e magari poi lo è, ditemi voi, e addirittura pronunciando 50 mila euro mi ha fatto pure l’occhiolino, ne sono sicuro. No, perché poi passi dalle immagini del programma alla splendida cornice, quella che contiene le immagini e cioè la tv, oltre la quale ci sono ambienti modesti e persone con stipendi normali, allarghi il quadro e passi al dettaglio della prima pagina di un quotidiano sul tavolo che dice che un italiano su tre taglia le vacanze. Continuiamo questo gioco di immaginarci con una telecamera in mano, e zoomiano fino a fuori di qui, e riprendiamo edifici più o meno popolari abitati da famiglie con figli già grandi e impiegati in questo o quello stage a quattro o cinquecento euro al mese. Mentre dentro la splendida cornice, sempre quella della tv, siamo riusciti a catturare un fermo immagine, quello in cui una cifra, 50 mila euro, campeggia su un’automobile di lusso lanciata lungo le strade della campagna toscana. Ora va bene che uno accende la tv proprio per allontanarsi il più possibile dalla vita di tutti i giorni, che poi non è vero perché ci sono quelli che usano il mezzo per avere maggiore contatto con quello che succede, ma mi sembra che il distacco dalla realtà ora sia davvero incolmabile. Forse è solo perché è Rai Uno, chissà.

Justice – New Lands

Standard

bravo, bis

Standard

Diciamo NO a chi balla fuori tempo ai concerti, muoversi non rispettando il ritmo può essere deleterio e causare scontri involontari con chi invece segue la canzone con gli stessi battiti, questo indipendentemente dalla propria coreografia. Non devi essere Nureyev per non schiacciare i piedi o spalmare il sudore addosso a chi ti sta vicino. Diciamo NO a chi acquista i biglietti ma va solo per accompagnare l’amata/o con il solo scopo di limonare il più possibile, prima dell’inizio, durante il gruppo di supporto e dopo l’inizio vero e proprio. Già il fatto che un gruppo come gli Stadio abbia dedicato una canzone al fare l’amore durante un concerto rock è significativo circa l’inopportunità di tale pratica. Diciamo NO anche ai gruppi di supporto, che a parte i Bloc Party prima degli Interpol non ricordo di aver mai ascoltato con pazienza la band apripista della serata per la quale ho pagato fior fior di quattrini. Soprattutto in ambito locale: se già trovare un concerto di un artista italiano valido è una rarità, figuriamoci se chi apre la serata è all’altezza. Per esempio, ieri sera al concerto di Caparezza a Sesto S. Giovanni, che già pur con il bene che gli voglio si è trattato di un momento artistico di qualità ma comunque sempre molto calato nel nostro metro quadro di italianità, non vi dico l’inutilità dei Rezophonic dei quali pur apprezzando il valore dell’iniziativa, musicalmente sono abbastanza una merda che ti sembrano i gruppetti di cover nei quali hai smesso di suonare a vent’anni. Diciamo NO a quelli che non conoscono i pezzi e che tutto sommato non gliene fotte niente nel concerto, ci vanno perché ci devono andare e assistere a Sting o a Biagio Antonacci è la stessa cosa. Ne parla il web e allora devono presenziare. Poi si mettono fermi come statue e passano il tempo a chiedersi che cosa ci fanno lì e a rispondersi che comunque devono divertirsi. Diciamo NO a quelli che conoscono i pezzi e li cantano ma sbagliano le strofe e le parole, un classico che a trovarseli di fianco ti viene da farti rimborsare il biglietto. Diciamo NO anche a chi ti fuma vicino anche se il concerto è all’aperto, e soprattutto a chi ti fuma vicino e non offre. Diciamo NO ai forzati del pogo, così chiudiamo il cerchio con quelli che ballano male e fuori tempo. Quelli che pogano a ogni bpm, sia che il gruppo sul palco stia suonando un pezzo a media velocità che un brano velocissimo. Il pogo per loro è una forma mentis, esprimere il corpo con il movimento è solo spintonare i presenti nel proprio raggio di azione, complice il tasso alcolico. E diciamo NO ai concerti dopo i 40 anni, va. Che a vedere tutti ‘sti nemmeno ventenni che si divertono senza tanti problemi uno si rovina anche la serata.