il danno

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Non so se si tratti di un modo di dire comune, ma dalle mie parti – almeno quando ero ragazzo io – si usava il termine “rovinarsi” nel senso di trovare ogni modo lecito e non per distanziarsi il più possibile dalla realtà. C’erano quelli che si rovinavano di alcolici, quelli che si rovinavano di canne, ci si rovinava di più mescolando le sostanze. Una volta ho chiamato al telefono un amico a casa sua, i cellulari non esistevano ancora, e mi ha risposto dicendomi che era in acido ed era rovinatissimo. Io me lo immaginavo in casa, abitava ovviamente con i genitori vista l’età, al telefono nel corridoio come me che lo avevo chiamato per una questione qualsiasi, forse per chiedergli di fare qualcosa insieme, un film o un salto in birreria, e mi guardavo allo specchio mentre gli parlavo e mi immaginavo lui che faceva la stessa cosa ma rovinatissimo e in acido e mi chiedevo come si poteva vedere in quell’altro specchio a casa sua. Qualche giorno fa mi è tornata in mente quella conversazione strampalata tra me e quell’amico in acido, e ho pensato che si usa il verbo rovinarsi in un senso azzeccatissimo, perché a bombardarsi di quelle cose lì poi alla fine ci si rovina davvero. Si rovinano parti del corpo, magari i polmoni o il fegato, si rovina la testa, a volte addirittura capita che qualcosa si guasta e non si può più aggiustare.

nati liberi

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Io che sono a tutti gli effetti un uomo del novecento considero la mia naturale collocazione storica come metro di giudizio per distinguere ciò che ritengo friendly e ciò che ritengo apocalittico, l’opzione che non a caso tra me e me definisco da fine del mondo, una cosa che facevo anche prima di venire a conoscenza dei Maya e delle scie chimiche che lasciano al loro passaggio. Da sempre ci sono gli uomini più pavidi che temono l’avvento delle modernità, quindi evitate di biasimarmi perché so di essere in buona compagnia. Vi faccio qualche esempio. Un ambiente di lavoro grande quando il mondo, fatto di persone che parlano una lingua straniera individuata come lingua comune dove chi la sa meglio occupa i posti migliori e sa farsi abbindolare di meno, questo che è un aspetto che i più considerano friendly io dal basso della mia piccolezza lo vivo come un elemento della fine del mondo. E mi viene in mente qualche giorno fa quando ho visto una coppia di rumeni, padre e figlio, che si sono fatti beccare dai Carabinieri del paesello in cui vivo perché sono entrati nella discarica comunale scavalcando il cancello in orari di chiusura per rifornirsi, suppongo, di pezzi di elettronica di consumo di ricambio, magari da rivendere in qualche modo. E si sono fatti beccare perché all’ingresso c’è un cartello grande come una casa con su scritto in italiano che l’area è sorvegliata tramite telecamere, così quando li ho visti con l’espressione di chi non si capacita di una macchina così efficiente come quella della sicurezza pubblica, ho pensato che probabilmente non conoscessero bene la nostra lingua. Se avessero letto, avrebbero capito e non si sarebbero esposti a un rischio così grossolano. Questo per dire che nella società globalizzata non è scontato capirsi, se non ci si capisce non si concludono affari, l’economia ne risente, addirittura perdi il lavoro e l’indiano che ti dà supporto al telefono sul database centralizzato che utilizzi dall’Italia difficilmente sposerà la tua causa, ammesso che capisca il tuo inglese. Nemmeno sa chi sei.

Per non parlare della tecnologia che permette tutto questo, una piattaforma in cui si parla dentro a microfoni, ascoltandosi tramite cuffiette da call center e ci si vede tutti nei sistemi di videoconferenza e il giorno che non paghi la bolletta e ti staccano la linea del telefono o la corrente elettrica stessa che non puoi nemmeno ricaricare la batteria puoi dire addio a tutto questo. Non oso pensare a come reagirei se capitasse a me. Ma non è solo questo. Ci sono le complessità che sono sempre più pressanti e che se non ti sai adeguare sei fuori dai giochi. Saper scegliere tra i contratti, i prodotti, i servizi, oggi che la moltitudine di offerta e di persone impegnate nella vendita è a dir poco invasiva, questa è una componente della nostra vita tutt’altro che friendly. Perché bisognerebbe fare calcoli e simulazioni, leggere pagine su pagine di note e modulistica e disclaimer, il tutto quando hai già un lavoro che ti impegna e ti stressa e poi arrivi a casa e c’è tutto il resto delle cose quotidiane da gestire. E poi ancora tutti i servizi informatizzati, che sono a metà tra il friendly e l’apocalittico. Il check-in tramite Internet e il pagamento del F24 sullo smartcoso, i primi due esempi che mi vengono in mente, sono friendly se tutto va in porto ma se c’è un bug o qualcosa non ti fa concludere l’operazione da che punto devi ripartire? Poi c’è il call center, un altro indiano, e si ritorna alla casistica di cui sopra. Anche imparare a pilotare aerei di linea per poi schiantarsi su un grattacielo è un modo di pensare la cattiveria da fine del mondo, oltre a progettare l’apocalisse tout court. Anche gli annunci di ricerca personale pubblicati da aziende come Google non sono da meno.

Addirittura sono riuscito a individuare musica da fine del mondo, armonie e arrangiamenti talmente moderni che davvero sembrano non di questa era e uno si chiede da dove possano giungere ispirazioni del genere se non da luoghi e tempi a noi sconosciuti, e quelli un po’ ignoranti come me che fanno fatica a misurare l’incommensurabile (che invece è commensurabile visto che ci sono tag e categorie per ogni cosa anche se ci sforziamo a non crederci) mettono tutto nel calderone dell’apocalisse, come nel medioevo si liquidava con roghi e scomuniche tutto ciò che non era interpretabile con la fede e tramite le scritture. Ma questo è un gioco rischioso, questo della paura di ciò che non si conosce appieno, e noi professionisti di media cultura occidentali dovremmo assumerci la nostra responsabilità e illuminare le zone d’ombra che il progresso lascia sotto di sé. Una amica, che lavora presso un’agenzia di assicurazioni, mi ha riferito di un suo cliente senegalese convinto che i terremoti siano opera di Allah indispettito dal fatto che il progresso comprenda anche la possibilità che uomini vogliano accoppiarsi con altri uomini. E non so dove voglio arrivare, non ho una teoria e una boutade per concludere questa riflessione con ironia. È solo che non potendo coprire l’esigenza di fare chiarezza con l’ignoto con una fede o una superstizione, non so proprio come procedere. Ditemi voi, sono aperto a consigli. Ah, dimenticavo, una colonna sonora da fine del mondo potrebbe essere questa qui.

in erba

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Il pomeriggio trascorso al saggio di una scuola di musica nell’attesa della performance di mia nipote che se l’è cavata egregiamente al piano è servito per riconfermarmi il concetto che i genitori dovrebbero accorgersi in tempo quando la loro prole non ci azzecca per nulla con l’hobby che hanno designato per occupare il loro tempo libero. Violinisti fuori tono, batteristi fuori tempo si sono alternati nell’esecuzione dei loro compitini che è chiaro, a ragazzini delle medie non si può chiedere più di tanto. Ma se uno è portato lo si capisce già nei primi anni di studio, e gli insegnanti (come gli allenatori) dovrebbero mettere le famiglie di fronte ai limiti dei loro figli. Tutto così, fino a quando un tizio smilzo e dinoccolato di 12 anni si è seduto al pianoforte e ci ha lasciato di gesso suonando Maple Leaf Rag in versione integrale e non facilitata. Chapeau.

quando mancano le figure

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Con i figli l’utilizzo di un minimo di psicologia è un fattore decisivo. Dicono che la facilità con cui si riesce a raggirarli è proverbiale ma mica tanto perché raramente, esplicitando direttamente il proprio obiettivo, li si riesce a convincere con le buone su una determinata cosa. Aggiungo che anche con lo zucchero la pillola non va sempre giù e alla fine, quando ci sembra di aver perso troppo tempo in una modalità di confronto che a noi adulti sembra del tutto irrazionale e a un bambino tutt’altro, si opta per l’imposizione, cose tipo conto fino a tre con la voce grossa. Perché non sempre prendere alla lontana una comunicazione antipatica, indirizzarli verso un loro dovere o semplicemente suggerire loro un qualcosa che, una volta provato, siamo sicuri che gli piacerà è una metodologia che va a buon fine. Ogni bambino, come noi del resto, è irremovibile su qualche aspetto. Ma, a differenza nostra, non credo si tratti di pigrizia mentale, ignoranza o cocciutaggine fine a sé stessa. Mia figlia, per esempio, non ne vuole sapere di uscire di casa, un classico dei fine settimana, e questo indipendentemente da quanto la controproposta sia allettante o meno e comprenda ricompense materiali o no. Questo per dire che a volte anche facendo proposte ricche di divertimento in modo intelligente e subdolo, cioè senza chiedere il suo parere e dando per scontato che la cosa per cui ora ci prepariamo e usciamo si farà e la messa ai voti è fuori discussione, si ottiene un pugno di mosche in cambio e si passa al piano B, più grossolano ma di sicura efficacia anche a discapito dell’umore e dell’armonia del gruppo.

Ma c’è un ambito in cui mia moglie ed io non dobbiamo fare il minimo sforzo per avere il suo consenso, e dico per fortuna perché si tratta di una risorsa impagabile che fa sì che nostra figlia non si annoi mai (non credo di aver mai sentito dire da lei parole come non so cosa fare), e questo è fondamentale, soprattutto essendo figlia unica. Mi riferisco al momento della lettura. Leggere libri e fumetti è una delle sue attività preferite, si muove perfettamente a suo agio in biblioteca e sceglie i titoli e gli autori per l’infanzia che preferisce. Il lato più piacevole di tutto questo è che si fida di noi e dei libri che le proponiamo, difficilmente si rifiuta di iniziare una storia per partito preso e altrettanto raramente le lascia a metà, anche se talvolta è scettica sulle edizioni completamente prive di illustrazioni. I disegni hanno un forte appeal sui bambini, consentono di amplificare la loro fantasia fornendo spunti visuali per le sceneggiature mentali che costruiscono procedendo nelle trame più intricate. Ma anche qui abbiamo a che fare, talvolta, con atteggiamenti del tutto incomprensibili per i genitori. Con mio grande rammarico, non sono ancora riuscito a farle leggere Marcovaldo di Italo Calvino, uno dei testi più divertenti per l’infanzia che ricordi. E questo perché sono in possesso di una edizione economica e solo testo dell’opera, e tutte le volte in cui ho provato a sottoporgliela ho avuto solo ritorni negativi. Ho cercato di descriverle la ricchezza dei racconti e la figura stessa del protagonista, ma senza successo. Nessuna strategia di persuasione ha funzionato, mi sono offerto anche di leggerlo a voce alta ma niente. Un’opportunità guastata da un tascabile da due lire, senza nemmeno un disegno. E qui con la psicologia c’è poco da fare, non c’è strategia che tenga, e non è possibile imporre nulla con l’autorità. Quel libro di sole parole stampate non l’ha mai convinta a priori, e il guaio è che non riesco a recuperare in nessun modo. Un semplice “non sai cosa ti perdi” non è assolutamente sufficiente.

politiche familiari

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Ci sono i dialoghi che si fanno solo al sabato mattina tra moglie e marito quando l’atmosfera è perfetta per lasciarsi crogiolare nella sicurezza del primo giorno festivo, consapevoli che ce n’è ancora uno dopo. Che poi è il ragionamento che facciamo tutti, per illuderci che quei due giorni che l’economia ormai ci ha persuaso essere meri separatori della settimana lavorativa siano tre o quattro. Fuori è tutto grigio, sul piatto (per modo di dire) c’è l’ultimo dei Sigur Ros, la bambina si gode ancora il sonno del primo giorno di vacanza, e entrambi conveniamo che quando si parla di tutela della famiglia, al di là della sua composizione, quando si pensa alle agevolazioni economiche per ogni figlio, quando si dice che è bene incentivare i giovani a rendersi indipendenti e a creare la propria, si sposta il vero nocciolo della questione: uno sceglie con la massima accuratezza la persona con cui passare la propria vita e poi è costretto a trascorrere otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana con gente di cui non gliene frega un cazzo. Per non parlare dei contratti del commercio e della babele di turni degli esercizi commerciali, quelli che il sabato e la domenica se la passano dietro una cassa con la pistola RFID in mano. Il fatto è, e credo di interpretare i desideri di molti, che non vogliamo più soldi, non vogliamo incentivi e non vogliamo agevolazioni, tantomeno recuperi. Vogliamo solo più tempo da trascorrere insieme, più mattine da dedicarci, più pomeriggi per giocare con i nostri figli, più serate per vedere film insieme senza l’assillo del doversi svegliare alle sei la mattina seguente per andare in ufficio. E fa sorridere l’enfasi delle iniziative istituzionali dedicate alla cura dei nuclei famigliari, quelli che si chiamano pure “family day” come se il giorno per noi e i nostri cari fosse una sorta di animale in via d’estinzione. Il giorno della famiglia, o della coppia in tutte le sue varianti, il giorno da trascorrere con chi amiamo dovrebbe essere ogni giorno in cui ne abbiamo bisogno. Che la sostenibilità parta da qui, da questo divano, dall’armonia tra noi e i nostri simili. Un programma così vincerebbe qualunque elezione.

superiori

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Facciamo fatica, io e il mio collega, a tenere il passo del prof di telecomunicazioni e il suo assistente che percorrono a veloci e ampie falcate i corridoi dell’istituto professionale che stiamo visitando con l’obiettivo di intervistare il gruppo di docenti protagonista dell’allestimento di un vera e propria palestra per giovani smanettoni e esperti di networking. Di questi tempi, viste le risorse della scuola pubblica, gli insegnanti che mettono del proprio extra sono encomiabili, noi cerchiamo di dar loro un minimo di gratificazione per lo sforzo di catalizzare l’interesse dei ragazzi verso la tecnologia e instradarlo verso finalità professionali. Internet non è solo gioco, entertainment e pornografia.

L’assistente regge un portatile sulla mano destra come i camerieri portano i vassoi colmi di bicchieri da cocktail ai tavoli, mi stupisce il fenomenale mix di forze fisiche ed equilibrio tra corpi per cui la velocità di avanzamento + inclinazione del corpo = attrito dello schermo del laptop tanto che malgrado il passo dinoccolato e altalenante il pc non sembra proprio inclinarsi di un millimetro. Lo scopo di quella volata è dimostrarmi la potenza del segnale wireless in ogni parte dell’edificio scolastico, cortile compreso. A nulla è valso l’essermi dimostrato piacevolmente stupito. Il prof ha anche sentito il bisogno di farmi toccare con mano l’efficacia del roaming: appena si esce dalla copertura di un access point si passa automaticante alla zona di competenza di quello adiacente senza perdere la connessione. Davvero impressionante, nel 2012 (spero traspaia l’ironia). E la cosa che mi colpisce infatti non è certo la componente tecnologica.

Mentre avanziamo per i corridoi, è l’ora dell’intervallo, i ragazzi non si sottraggono a qualche battuta con il prof, lo salutano e scherzano e lui risponde sempre a tono, fa le battute, canzona questo e finge di rimproverare quell’altro. Alcuni si accodano formando una sorta di processione che celebra l’Internet gratuita in un istituto scolastico e i sistemi open source di gestione del tutto, nessun brand che sponsorizza l’iniziativa, nessun sistema operativo che impone aggiornamenti costosi e vincolanti, solo la buona volontà di docenti, studenti e personale amministrativo che hanno dedicato il loro tempo libero alla causa comune. I ragazzi che si trovano di loro spontanea volontà anche nelle ore pomeridiane e sfruttano le risorse della scuola. La tecnologia pubblica per il bene di tutti.

Così rimango stupito del fatto che il prof, terminato il tour della connessione permanente, mi dice che siamo fortunati noi della comunicazione, che facciamo un bel lavoro. Io gli dico che farei cambio immediatamente con il suo, di mestiere. Mi limito a ricordargli la ricchezza umana che hanno intorno, l’entusiasmo che nessun ministro o nessuna riforma potranno mai soffocare in una struttura così vivace, e che sono loro, gli insegnanti e la loro proattività, una delle poche speranze che questo paese abbia un futuro. Di ritorno il prof e il suo assistente mi guardano e sorridono a metà perché un po’ lo sanno, e un po’ sanno che non glielo ricorda mai nessuno.

il giorno, più lungo

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Eppure non è molto che ho scritto questa cosa qui ma si sa, a fare i giochi del mi sembra ieri si finisce a ritroso alle generazioni che ci hanno preceduto, gli avi al tempo del Risorgimento, il medioevo e l’australopiteco. Il solito esagerato. Ma diamine la data è quella e un altro anno scolastico si è chiuso, un po’ a fatica per via delle maestre che hanno preso il posto delle precedenti e poi le supplenti tanto che la rappresentazione grafica della continuità didattica ricalca l’esempio di linea spezzata che hai disegnato sul quaderno di geometria, il profilo di una catena montuosa a fianco di rette e curve. Ti prometto che questa volta farò di tutto per fermare questa invida aetas che anche mentre scrivo sarà già fuggita e chissà perché c’è sempre tutta questa fretta che non puoi stare fermo nemmeno un secondo sul secondo che stai vivendo che già c’è quello dopo e carpe diem suona più come una bestemmia storpiata perché non si può sempre continuare così. Quest’estate sarà diversa. Da stasera, che è la prima sera di vacanza, tutto durerà il doppio. Puoi scommetterci.

donne nude

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È che se ho del tempo libero vado avanti con il libro che sto leggendo, e già mi sento in colpa a penalizzare la saggistica ma il desiderio di un buon romanzo alla fine prevale. Mi piacerebbe e sono certo che mi consentirebbe di imparare qualcosa anziché condividere empaticamente gioie e dolori dei protagonisti di questa o quella storia, ma ogni volta, quando sono a poche pagine dalla conclusione e posso sbizzarrirmi nella scelta un degno sostituto, ho il dovere morale di andare sul sicuro, e “narrativa” è la prima tra le chiavi di ricerca per la selezione del titolo successivo.

Questo per dire che è passato tanto tempo dall’ultima volta in cui ho acquistato una rivista in edicola. Sono anni, ne sono certo. E pensare che per buona parte della mia vita la lettura dei magazine musicali ha costituito la principale fonte di informazione e aggiornamento. Ho investito da ragazzo paghe e paghette in cose tipo Rockerilla, Ciao 2001, Mucchio Selvaggio e Rockstar, nella soffitta della casa dei miei genitori ci sono ancora annate intere di pubblicazioni. Inutile sottolineare che, nel mio caso ma so di non essere l’unico, Internet ha soppiantato anche la consultazione dei periodici di settore. Oddio, la mia passione per la musica per fortuna è diversa dall’idolatria tipica dell’adolescenza, posso dire che si è evoluta e certa letteratura sul pop oggi mi interessa poco o niente (è chiaro che sto mentendo). Ma da quando c’è la rete sappiamo tutti come sono andate le cose.

Stesso discorso per settimanali e mensili di attualità. D’altronde, se non si vuole ricorrere a una emeroteca pubblica fornita e comoda, è anche difficile scegliere tra i prodotti da acquistare in edicola. L’Espresso, Internazionale, Diario per dirne alcuni, il budget è quello che è e poi si ritorna al peccato originale, ovvero il tempo a disposizione da dedicarvi. Non ce la farei a leggere tutto. Occorre fare un discorso a parte per l’editoria tipicamente femminile che comunque mi pare aver ancora un suo perché, almeno da quello che vedo durante i miei percorsi quotidiani in treno. Qualche “pendolaressa” con Vanity Fair o Donna Moderna la incrocio sempre, per non parlare dei periodici dedicati al gossip che sono gli unici a contendere alla cartaccia free press la leadership tra le carrozze.

Questa mattina invece mi è capitato di condividere gli angusti e temporanei spazi di viaggio con un tizio che sfogliava una copia di Max, una pubblicazione che a dirla tutta non pensavo nemmeno fosse ancora in commercio. Una rivista che non stona mentre si è in attesa del proprio turno per lo shampoo nella bottega di un coiffeur e che con altre perle soft-core come GQ svetta su pile di editoria per veri intenditori a coprire altre riviste sotto, dalle copertine e dal contenuto inconfondibile. E sono rimasto colpito dalla concentrazione con cui l’uomo leggeva l’articolo dedicato alla playmate del mese, che non si chiama playmate ma piuttosto maxmate o boh, magari non la chiamano nemmeno tanto l’importante non è certo il naming della rubrica. Dicevo della concentrazione. Riga per riga, assorto in non so cosa il redattore potesse dire a corollario di foto talmente esplicite. Nulla di scabroso, anzi un soggetto oltremodo corroborante da quello che riuscivo a vedere, cercando di non passare per uno che importuna gli altri. Un bel modo di iniziare la giornata.

A quel punto ho pensato che, una volta terminata la parte redazionale, il servizio includesse anche il paginone centrale fatto di tre ante con la foto completa della ragazza di copertina in deshabillé. Questo lo ho solo immaginato, non dovete pensare che io legga cose del genere, nemmeno dal parrucchiere. Ma, quando il tizio ha voltato la pagina, ha sollevato la copia di Max verso di sé orientandola verticalmente con l’obiettivo di avere la vista completa a colpo d’occhio del corpo scoperto che ivi era ritratto (e aggiungo probabilmente, non dovete pensare che io conosca per certo la percentuale di parti del corpo scoperte delle foto di cantanti e attrici e fotomodelle “intervistate” su Max) precludendone così la condivisione con gli astanti che stavano mostrando una palese curiosità, verso i quali per onestà intellettuale mi astengo da ogni tipo di giudizio. Ma il modo con cui il lettore ha alzato le sopracciglia è stato più che esplicito. Tanto che ha bruscamente deciso di interrompere la lettura, ha ricomposto l’ordine delle pagine e ha riposto la pubblicazione in borsa. Evidentemente per oggi ne aveva avuto abbastanza. Lui.

cocorosie – we are on fire

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aspetto che si libera

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Credimi, ti capisco. Capisco quanto sia alienante stare seduto tutto il giorno in un ufficio in centro davanti a un Macbook Pro a scrivere cose nelle quali non credi perché fare comunicazione è principalmente una finzione. Lo so, nessuno è convinto che tu abbia interiorizzato così tuoi i prodotti dei quali esalti le caratteristiche, non per questo quando il tuo lavoro che ormai è industrializzato quanto la produzione di un’automobile arriva a destinazione, le persone e le aziende che leggono quello che ti sei inventato decidono grazie a te che compreranno quello che consigli tu ed è questo che conta. Ma tra gli addetti ai lavori è chiaro che il tuo ruolo è pari a quello di un attore che a seconda del copione recita la sua parte. Il che, come dici tu, è oltremodo avvilente. Per questo sono convinto che sia ovvio che dopo tutti questi anni tu sia giunto al capolinea, che i clienti e i loro product manager ti abbiano spremuto a sufficienza. E sempre per questo quando mi dici che basta, che vuoi licenziarti da un impiego a tempo indeterminato per metterti in proprio, io sono orgoglioso di te e non posso che ammettere che tu stia facendo la cosa migliore. Davvero. Avrai facoltà di scelta, avrai pieno controllo della tua vita professionale che per un errore che è tutto nostro coincide sempre più con quella personale, potrai dire si o no a quello che i clienti ti proporranno. Finalmente libero. È giusto che sia così: dai le dimissioni, intraprendi la tua strada, sii artefice del tuo futuro. E avvertimi quando lo farai, così potrò inviare il mio curriculum e candidarmi al tuo posto.