comunicazione d’impresa

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Un addetto alla distribuzione di volantini pubblicitari si aggirava questa mattina tra i condomini per esercitare la sua mansione, giovane e insufficientemente attrezzato per il clima polare di questi giorni. Lo ho notato solo perché stava approfittando della presenza, fuori sul marciapiede, dei contenitori per la raccolta differenziata della carta, essendo oggi giorno di presa. Il collega – in molti siti di offerte di lavoro tale profilo viene fatto rientrare nella mia stessa categoria di operatore marketing, giustamente – afferrava corpose manciate di depliant di un noto megastore di elettronica della zona e li riponeva direttamente lì, alla fine del ciclo di vita di quei prodotti pubblicitari, accorciandone la durata già di per sé molto breve. La sua intenzione era probabilmente quella di liquidare il più in fretta possibile il compito quotidiano, viste le condizioni climatiche. O forse, ingannato dalla presenza in quei contenitori di altri volantini dei principali competitor del suo datore di lavoro, magari era il suo primo giorno e non aveva ricevuto sufficiente affiancamento, ha pensato che quello fosse il posto giusto in cui riporli. Tutti gli abitanti della zona, ogni sera, aprono quel bidone e scelgono i suggerimenti per gli acquisti, in effetti è un processo che non fa una grinza. E sicuramente meglio lì dentro che nei cestini in cui si getta la spazzatura indifferenziata. Ma, in un caso o nell’altro, e anche considerando che il gesto ha anticipato solo di qualche ora il mio e quello dei miei vicini di casa, tutto ciò è la dimostrazione che c’è qualcosa che non va nell’economia mondiale, da qualunque parte la si osservi.

proust e contro

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Non ho fatto in tempo a tirar fuori il libro che stavo leggendo e ad aprirlo che la ragazza seduta di fronte a me mi ha salutato con un ampio sorriso e ha esclamato “Hei!”, mostrandomi il dorso del suo, che la coincidenza ha voluto si trattasse dello stesso. E giuro che non l’avevo nemmeno notata. Il treno l’avevo preso per un pelo, quello delle 19.10 che mi avrebbe riportato a casa a seguito di più o meno due ore di viaggio come ogni giorno, il cervello ancora in pappa e tutti i file aperti del lavoro che traboccavano dallo spirito di responsabilità, in aggiunta all’aggravante dello sprint finale da centometrista. Potrebbe essere l’inizio di un film, oppure di una storia d’amore, non trovate?

Fatto sta che il caso ha voluto che ci trovassimo uno dinanzi all’altra, entrambi con una copia della Recherche proustiana in mano. In verità lei aveva un’edizione piuttosto elegante, copertina cartonata e sovracopertina, il primo di due tomi in cui sono raccolte tutte le parti dell’opera. Il mio era un Mondadori d’epoca che avevo trovato in un negozio di libri usati con la copertina viola un po’ malconcia, malgrado ciò conservava perfettamente il suo fascino vintage ed era in abbinamento perfetto con il contesto di appartenenza. Avevo strappato per poche migliaia di lire, il che vi permette di collocare anche cronologicamente l’accaduto, l’intera raccolta suddivisa in più volumi, di certo più maneggevole e, non nutro alcun dubbio su questo vantaggio, sicuramente più adatta alle esigenze di flessibilità di un pendolare. Anche qui si potrebbe prendere spunto per un film di successo, chissà perché a me viene in mente l’incipit della “Carica dei 101”, lei tutta perfettina e lui un po’ sgangherato perché molto artista inside, ma alla fine l’amore trionfa anche oltre le classi sociali. Sempre.

Ma, giusto per sgomberare ogni dubbio e soddisfare ogni curiosità, la cosa è finita alle rispettive stazioni d’arrivo: ai tempi io ero single, lei tutt’altro. Il viaggio è trascorso comunque con due piacevoli ore di chiacchierate letterarie, poi qualche scambio di informazioni sulle rispettive vite, il suo bizzarro portafoglio quando è stato il momento di mostrare il biglietto, il mio telefono che vibrava ogni tanto agli strascichi di una lavorazione in chiusura che mi ero lasciato alle spalle. Fine della storia.

Senonché stamane ho preso posto ancora casualmente di fronte a una affascinante pendolare intenta nella lettura, questa volta si trattava di uno degli ennemila best seller di Fabio Volo. Il che rientra in una statistica piuttosto certa. Fatto il 20% di persone sui mezzi pubblici che trascorrono la tratta leggendo, di questa percentuale almeno il 60% si diletta nella comprensione delle opere del noto show man. E non voglio assolutamente rimarcare con piglio da pseudo-intellettuale la superiorità morale di chi legge le vicissitudini di Swann rispetto alle cronache autobiografiche o meno dell’ex panettiere di mtv. Non è questo il punto. Colgo l’occasione solo per dare un piccolo suggerimento, i miei cinque cent ai miei cinque lettori. Amici, è difficilissimo puntare sul caso per trovare l’anima gemella – o anche solo rimorchiare – leggendo “All’ombra delle fanciulle in fiore”. Portate con voi una copia di “È una vita che ti aspetto”, poggiatevelo in grembo in bella mostra con il titolo in evidenza, e mettetevi in modalità “attesa” anche voi, se ritenete che un giorno potreste trovarvi in affanno ancora alla ricerca del tempo perduto.

difficoltà di concentramento

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Si avvicina il Giorno della Memoria, che come ogni anno cercherò di celebrare rileggendo “Se questo è un uomo” e “La tregua” (almeno spero). La commemorazione è rispettata ovviamente anche dalle scuole, la terza di mia figlia seguirà la proiezione de “La vita è bella”, un film di cui conosce già il contenuto, sua cugina più grande le ha fatto vedere qualche scena in rete e le ha anticipato l’elemento narrativo dell’equivoco intorno al quale si sviluppa la trama. Oltre al film di Benigni, mia figlia arriva al suo primo appuntamento “serio” con le ricorrenze e il relativo approccio della scuola con un’altra opera cinematografica, di cui la prima volta è stata spettatrice assolutamente casuale. Il film in questione è “Il grande dittatore”, a cui si appassionata immediatamente tanto da, in pochi giorni, ripeterne la visione più volte. Sapete come sono i bambini e quanto amino la reiterazione degli stimoli che li solleticano di più.

Il problema è che la microvacanza che abbiamo già pianifcato in primavera a Berlino ora ha un ostacolo. Ho paura che ci siano ancora i figli degli amici di Hitler, mi dice dall’alto della sua ingenuità. Cara, le faccio notare, purtroppo i figli e i nipoti e i pronipoti degli amici di Hitler, ce ne sono stati e ce ne sono tuttora tanti anche qui in Italia, troppi da giustificare se si ripercorre tutto quello che è successo. Ma come non corriamo alcun pericolo, qui, questo è un vantaggio della democrazia, a maggior ragione i Tedeschi oggi non sono più come quelli descritti sul grande schermo da Charlie Chaplin. Nessuno giocherebbe con il mondo in quel modo facendolo scoppiare. Ecco, forse questo non avrei dovuto dirlo, già mentre chiudevo la frase mi sono reso conto di quanto fossi poco convincente, lei non ha detto nulla ma ha percepito che si trattava di un’accelerazione per chiudere il discorso, convincerla sull’infondatezza dei suoi timori e mettere in salvo i biglietti del volo già acquistati. E allora le ho promesso che, una volta in Germania, cercheremo insieme un barbiere che si prenda cura dei clienti così.

oi supereroi

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Era da troppo tempo che non si sentiva più un sample da “O Superman”, il capolavoro minimalista di Laurie Anderson che qui in Italia ricordiamo di più per essere stato utilizzato come colonna sonora di una campagna di prevenzione dall’AIDS a fine anni 80. Le più celebri sillabe della musica filtrate a regola d’arte da un harmonizer d’epoca, il pezzo risale al 1981, libere da ritmo o da altri suoni sono così nude e arrendevoli ad essere rubate e riciclate quanto così caratterizzanti che poi, alla fine, fai come questi due sbarbatelli inglesi e ci costruisci su un pezzo con lo stesso titolo. Niente di che, giusto per ricordarsi dell’originale, quello vero, sotto il discutibile ma orecchiabile tributo.


quanto costa

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Quelle navi lì, quelle che da un paio di giorni sono su tutte le prime pagine a causa di un evento luttuoso, io le vedo ogni volta in cui vado a trovare i miei genitori. Loro vivono in una città nel cui porto le imbarcazioni da crociera fanno scalo periodicamente. Ne avevo già accennato qui: fa un po’ impressione costeggiare il porto e passare a fianco di vettori così sproporzionati, grandi quando un quartiere, giganteschi animali marini meccanici pronti a sbarcare e a raccogliere i turisti che hanno scelto una vacanza così lontana dalla mia idea di viaggio. Un tour che tocca vere perle del Mediterraneo come la città in questione (immaginate qui una faccina ironica), centinaia di persone che poi percorrono le vie del centro fermandosi dinanzi alle vetrine di artigianato cinese, o scattando foto ai monumenti dall’intonaco incrostato di salsedine o al vecchio ospedale desueto e in rovina da quindici anni proprio nel mezzo della città. Nell’insieme sembra davvero una tragedia low budget e scusatemi, non voglio fare del cinismo gratuito. Metto in linea il format, le tappe in città da seconda divisione, il finale anacronistico come un naufragio nel Mar Mediterraneo e nel 2012 causato dalla volontà di rispettare una tradizione, e chissà perché mi vengono in mente Pinocchio e Geppetto che fuggono a cavallo del tonno dalla pancia dello squalo balena, nell’adattamento televisivo di Comencini. A loro sì che era stata data una seconda possibilità.

stanze di vita quotidiana

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È uno di quei in posti in cui non andrei mai da solo, non credo sarei in grado di orientarmi senza una guida. Non lo trovo un percorso strutturato e chissà perché non mi ricordo mai di guardare in basso e seguire le frecce sul sentiero colorato. Credo che il problema sia legato al fatto che si tratta di una simulazione domestica, l’impressione è quella di passeggiare in case altrui, una stanza dopo l’altra, il che costituisce la prima anormalità. Perché di norma nelle case degli altri entri solo se invitato, hai un ingresso – i genovesi in questo sono maestri, hanno l’ingresso con dignità di salotto quasi per limitare l’accesso agli ospiti in una porzione di appartamento minuscola ma attrezzata – e poi un corridoio, una cucina che dà sull’area living. Invece qui ti ritrovi – se non ti perdi – in una serie di soggiorni, quindi la sfilza di cucine, poi le camere da letto, poi addirittura gli uffici, le camerette. Il tutto arredato e sistemato con una maestria mai vista altrove.

Sono proprio bravi, quelli lì, si vede che gli insegnano il marketing e la cura degli interni in Svezia. Perché vedi ambienti in cui ti fermeresti subito, io mi metterei il pigiama e mi sdraierei nella mia cameretta preferita – fossi un ragazzino, eh, non crediate che lo farei adesso da grande – quella con il soppalco, è il mio sogno che non sono riuscito a trasferire a mia moglie. Rifare i letti là sopra non è il massimo, ha ragione lei. Ma la cosa paradossale è che ti ritrovi in queste stanze perfette e pronte all’uso e che magari hanno pure una finestra vera ed ecco dov’è l’errore, ecco dove gli svedesi non sono arrivati. Il contrasto tra la perfezione degli arredi e lo squallore là fuori, solitamente quelle show room sono immerse nel nulla a contorno di centri commerciali, nel migliore dei casi. Aree dismesse, detriti, accozzaglia di scorci suburbani nella normalità: a quello non hanno pensato, dall’alto del loro ingegno. Una razionalità la cui sintesi, una delle tante, si manifesta in quello strumento di tortura per vegetali grazie al quale sistemi una mela su una guida, schiacci quel disco comprensivo di lamelle e il frutto meccanicamente si trasforma in una gustosa pietanza pronta da servire ai tuoi ospiti, che staccano gli spicchi – tutti perfettamente equivalenti – uno per uno con lo stupore negli occhi e il massimo rispetto per la razza che detiene il primato del senso pratico e la supremazia di quello commerciale.

Ma questo non basta per essere indulgenti, perché anche acquistando in blocco quello che vedi in un minuscolo surrogato di abitazione in cui è stato ricreato l’habitat medio dell’uomo contemporaneo e poi la trasli nella stanza che devi arredare, alla fine stai certo che il risultato non sarà così. Sarà l’illuminazione? Saranno le stampe alle pareti? E non vi perdono neppure la spietatezza con cui inducete migliaia di persone ogni giorno a deambulare lenti e mesti uno appiccicato all’altro in quel labirinto di presunto feng shui, i maschi con le batterie semiesaurite che spingono carrelli e portano borsoni a tracolla colmi di bicchieri colorati e altri ammennicoli, le femmine inesauribili che si fermano ogni metro, valutano prezzi, compiono astrazioni, immaginano proiezioni del reale nel proprio bagno che prima o poi convinceranno il marito a cambiare, lo stesso che stanzia dietro di loro, smartphone in mano, rimpiangendo il riposo di cui avrebbe potuto pascersi a casa.  Il tutto tra bambini che si perdono, anziani che effettuano test comparati su tutte le poltrone dell’esposizione con la scusa di riprendere fiato, buontemponi che si sdraiano pure sui letti, si nascondono negli armadi, tentano di accendere uno dei numerosissimi elettrodomestici finti da esposizione o fanno battute su quei curiosi volumi in lingua rilegati, e ti chiedi se anche a casa loro, e non solo in questa specie di loft di tutti e di nessuno, sono così irresistibili.

Poi tutto finisce con il pin del bancomat alla cassa, il tuo bottino di cosucce di cui avresti fatto anche a meno, l’ultimo rigurgito di amore per il nord europa nel reparto dedicato ai prodotti tipici. E fuori il gelo che ti inghiotte, la coda per rientrare in tangenziale, la certezza che nessuno, in Svezia, trascorrerebbe mai una domenica pomeriggio di saldi all’Ikea.

matinée

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AAA è una risata che vi seppellirà

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A una parte di italiani e alla stampa prezzolata che a questa parte vuole dare voce, il presunto sbeffeggiamento pubblico di Sarkozy nei nostri confronti proprio non è andato giù, tanto che il declassamento e conseguente accorpamento della Francia nella categoria dei meno virtuosi suona quasi una resa dei conti degna di una prima pagina vendicativa o di un titolone sul mezzo gaudio da male comune. Ma sono certo che la A in meno ha costituito una fonte subdola di soddisfazione non solo per quello schieramento, vista la tradizionale quanto immotivata e infantile rivalità nei confronti dei nostri vicini. E peggio di essere surclassati economicamente (è proprio il caso di dirlo) dai francesi c’è solo la sconfitta in una partita di calcio tra le nazionali, magari nel corso di una competizione europea o mondiale, casistica che saluto invece con estremo gaudio dal mio profondo disprezzo per il business pallonaro, assai più oppiaceo di qualunque religione riconosciuta. Ma, tornando al casus belli, è chiaro che ad oggi sia per Atene che per Sparta non c’è motivo di essere sereni. E dopo il “ridi pagliaccio” del Giornale, speriamo che un qualsiasi quotidiano francese non debba uscire, un domani, con un veritiero “italiani, non vi resta che piangere”.

il paraocchi

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Ero in macchina, al posto di guida, ed ero in uno di quei momenti in cui tra te e il mezzo che stai conducendo non c’è separazione, l’auto è il prolungamento del tuo corpo e non solo. Il cervello passa in rassegna gli scaffali meno accessibili in una sorta di inventario esistenziale simile a quello che fanno i negozi di abbigliamento dopo le feste, prima di partire coi saldi. La trance era favorita dal buio del tardo pomeriggio, il velo di nebbia fuori e l’anomalo silenzio all’interno dell’abitacolo, malgrado fossimo al completo, mia moglie al mio fianco e la bambina che si era addormentata sui sedili dietro. L’oggetto della riflessione era una banalità come la casualità degli eventi, io che da quel posto remoto che sono i vicoli del centro storico del capoluogo ligure ora sto attraversando il rhodense con un paio di snickers appena comprate per mia figlia nel bagagliaio e sei bottiglie di vetro da riempire con l’acqua del sindaco. E allora ho stretto un po’ gli occhi per ridurre la visibilità laterale e scoprire l’effetto che farebbe essere qui, da solo, se le cose fossero andate diversamente. Senza mia moglie seduta sul sedile alla mia destra e, di conseguenza, nessuno appisolato in quelli posteriori. Ed è stato il panico, giuro. Mi sono immediatamente voltato di lato per assicurarmi che fosse tutto come speravo, e per fortuna era ancora lì. Ti va se compriamo un po’ di carne per cena? le ho chiesto, quindi ci siamo presi per mano, per poco però, il semaforo alla fine del rettilineo era diventato giallo e dovevo scalare per fermarmi.

trailer

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La vita è un film? No, meglio di no, entrano in gioco fattori come il regista, gli attori, i dialoghi e, soprattutto, il montaggio. Perché passi dall’inizio alla fine in meno di due ore e solo con i momenti utili a capire la tua storia tagliando tutto il resto, quelli che in un eccesso di immeritata sottovalutazione vengono chiamati tempi morti. Che invece paradossalmente sono la vita, quella vera, la trama che è bene tenere per sé, tanto non interessa a nessuno a parte quelli in prima fila.