AAA è una risata che vi seppellirà

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A una parte di italiani e alla stampa prezzolata che a questa parte vuole dare voce, il presunto sbeffeggiamento pubblico di Sarkozy nei nostri confronti proprio non è andato giù, tanto che il declassamento e conseguente accorpamento della Francia nella categoria dei meno virtuosi suona quasi una resa dei conti degna di una prima pagina vendicativa o di un titolone sul mezzo gaudio da male comune. Ma sono certo che la A in meno ha costituito una fonte subdola di soddisfazione non solo per quello schieramento, vista la tradizionale quanto immotivata e infantile rivalità nei confronti dei nostri vicini. E peggio di essere surclassati economicamente (è proprio il caso di dirlo) dai francesi c’è solo la sconfitta in una partita di calcio tra le nazionali, magari nel corso di una competizione europea o mondiale, casistica che saluto invece con estremo gaudio dal mio profondo disprezzo per il business pallonaro, assai più oppiaceo di qualunque religione riconosciuta. Ma, tornando al casus belli, è chiaro che ad oggi sia per Atene che per Sparta non c’è motivo di essere sereni. E dopo il “ridi pagliaccio” del Giornale, speriamo che un qualsiasi quotidiano francese non debba uscire, un domani, con un veritiero “italiani, non vi resta che piangere”.

il paraocchi

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Ero in macchina, al posto di guida, ed ero in uno di quei momenti in cui tra te e il mezzo che stai conducendo non c’è separazione, l’auto è il prolungamento del tuo corpo e non solo. Il cervello passa in rassegna gli scaffali meno accessibili in una sorta di inventario esistenziale simile a quello che fanno i negozi di abbigliamento dopo le feste, prima di partire coi saldi. La trance era favorita dal buio del tardo pomeriggio, il velo di nebbia fuori e l’anomalo silenzio all’interno dell’abitacolo, malgrado fossimo al completo, mia moglie al mio fianco e la bambina che si era addormentata sui sedili dietro. L’oggetto della riflessione era una banalità come la casualità degli eventi, io che da quel posto remoto che sono i vicoli del centro storico del capoluogo ligure ora sto attraversando il rhodense con un paio di snickers appena comprate per mia figlia nel bagagliaio e sei bottiglie di vetro da riempire con l’acqua del sindaco. E allora ho stretto un po’ gli occhi per ridurre la visibilità laterale e scoprire l’effetto che farebbe essere qui, da solo, se le cose fossero andate diversamente. Senza mia moglie seduta sul sedile alla mia destra e, di conseguenza, nessuno appisolato in quelli posteriori. Ed è stato il panico, giuro. Mi sono immediatamente voltato di lato per assicurarmi che fosse tutto come speravo, e per fortuna era ancora lì. Ti va se compriamo un po’ di carne per cena? le ho chiesto, quindi ci siamo presi per mano, per poco però, il semaforo alla fine del rettilineo era diventato giallo e dovevo scalare per fermarmi.

trailer

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La vita è un film? No, meglio di no, entrano in gioco fattori come il regista, gli attori, i dialoghi e, soprattutto, il montaggio. Perché passi dall’inizio alla fine in meno di due ore e solo con i momenti utili a capire la tua storia tagliando tutto il resto, quelli che in un eccesso di immeritata sottovalutazione vengono chiamati tempi morti. Che invece paradossalmente sono la vita, quella vera, la trama che è bene tenere per sé, tanto non interessa a nessuno a parte quelli in prima fila.

amore vigliacco

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È impossibile ipotizzare una stima precisa, ma partendo dagli anni ’60 a oggi avere un gruppo rock – genere inteso in senso lato, avrei fatto meglio a scrivere avere una band – e farne una professione è stato un sogno per centinaia di migliaia di ragazzi, giusto per rimanere in Italia. Il problema, se lo vogliamo intendere come tale, è sintetizzato nella celebre massima “uno su mille ce la fa”, e il fatto che a cantarla sia stato Gianni Morandi potrebbe già dare a questo incipit la dignità di aver centrato le cause di una moria di talenti senza precedenti e più o meno a ragione. Può risultare interessante scoprire che ne è stato degli altri novecentonovantanove.

Se volete farvi un’idea di quello che rimane sotto al fortunato che emerge, o nella batteria immediatamente più bassa, a filo con l’acqua – se vogliamo utilizzare la metafora dell’iceberg – e che passa una parte della sua vita in odore di vittoria e che solo una botta di fortuna, in quella posizione, potrebbe farlo emergere. Oppure quelli affogati sul fondo, schiacciati da tutta la massa di aspiranti che li sovrastano senza lasciare lo spazio per tutta una serie di meriti, giustamente. Chi è più bravo, chi è più paraculo, chi ha i contatti giusti, chi ha dei numeri. Ma a qualsiasi livello di questa indagine stratigrafica c’è una qualità trasversale che in taluni casi costituisce l’elemento decisivo, in altri, pur essendo presente in dosi anche elevate, non riesce a fare la differenza. Si tratta dell’impegno, della costanza e della disponibilità al sacrificio di chi ci vuole davvero provare. Un investimento a fondo perduto, nella stragrande maggioranza dei casi.

Si sa, nello spettacolo in genere c’è un elemento, che è il gusto del pubblico – inteso anche come i quattro ubriachi unici ad ascoltarti nel pub di periferia mentre suoni – che ne ingigantisce l’imprevedibilità. No, purtroppo non è un lavoro come gli altri, che già hanno la loro precarietà. Questa è una peculiarità della categoria “saranno famosi”.

Ma chi sono tutti gli altri, i sommersi, quelli che ci provano e non ci riescono? Che fine fanno? Che ne è stato del loro lavoro, delle composizioni, delle demo? Che cosa non ha funzionato, malgrado l’abnegazione? Quando si capisce che arrivato il momento in cui non si può fare altro che mollare il colpo?

S. è stata per quindici anni la cantante dei C., un gruppo ormai sciolto che ha seguito l’iter standard di chi opera in ambito musicale ai tempi del web. Le origini, la fase di costruzione di un’identità, le prime composizioni. Poi la ricerca di locali per concerti, le manifestazioni, la partecipazione a concorsi. Si registrano le demo, gli studi di registrazione pagati da mamma e papà, i cd autoprodotti. Quindi la musica condivisa su tutti gli spazi social più comuni, verticali e non, si diffonde la propria arte, si cercano contatti. Nel frattempo si cresce, e nel momento in cui si deve scegliere che fare della propria vita si sceglie un lavoro sufficientemente flessibile da non ostacolare l’attività musicale. Bisogna essere sempre pronti a partire per suonare magari a 400 chilometri di distanza, quindi si prediligono gli impieghi su turni. Fino a quando ci si rende conto che è tutto vano e si ripiega su una attività più amatoriale, ci si dà lo status di gruppo di nicchia, lo si era anche prima ma si anelava al grande successo. Nel frattempo non è più tempo per una carriera altrove, non è più tempo per una famiglia, magari. E il rock non ha ripagato. Casi di questo tipo sono numerosissimi quanto le varianti. C’è chi non demorde, magari sfrutta un equilibrio con il proprio lavoro vero, e continua imperterrito anche mentre i coetanei spingono le carrozzine dei nipotini al parco.

E c’è infine quel mausoleo che è Internet, un luogo infinito che risuona in ogni dove di band ormai morte e sepolte. Siti o pagine dei social network più diffusi tra gli emergenti che proclamano l’ultimo aggiornamento avvenuto quattro o cinque anni fa. Tonnellate di canzoni caricate su server in ogni dove di cui non se ne farà più nulla, un cimitero della creatività dall’atmosfera spettrale indipendentemente dal genere di appartenenza dei reperti in cui ci si imbatte. Provateci, fate un giro a caso su Myspace, prima che sparisca come la maggior parte dei suoi utenti.

E non credo che nel caso dei ragazzi che non ce l’hanno fatta sia stata una congiura del mondo verso il gruppo in questione. Magari erano proprio scarsi. Non è nemmeno il caso di drammatizzare, forse non è così importante. Ma, ribadisco, può essere comunque un’esperienza edificante sfogliare tutte quelle pagine autocelebrative, immaginando di attraversare i corridoi di quegli immensi stabili adibiti a sale prove, con tutte le porte che si affacciano allineate e dai cui pannelli isolanti si percepiscono i rumori di sogni che si infrangono, sogni di ogni genere (musicale), con distorsore o senza.

p.s. il titolo del post riprende quello di una canzone di gruppo di tantissimi anni fa, una band che si è sciolta quando non solo non c’era ancora Internet, ma non esistevano nemmeno i cd, in cui si parlava proprio di questo. L’amore vigliacco, inutile dirlo, era la musica. Anzi, il rock’n’roll.

la febbre del venerdì pomeriggio

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Le scadenze di consegna lavorazioni alle 18 del venerdì pomeriggio hanno quel vago sentore di presa per il naso, per non dire di peggio. Sanno tanto di capriccio, di bimbi che pestano i piedi alla cassa dell’Esselunga per avere le palline magiche che le lanci e fanno rimbalzi imprevedibili fino all’ultimo, quello che manda in frantumi il vaso prezioso della nonna. Perché è un insulto all’intelligenza di entrambi – cliente e fornitore – l’idea che tu possa trascorrere anche solo un minuto da qui a lunedì mattina sull’attività che mi hai commissionato e controllarne almeno una parola, un pixel, un fotogramma. Ma tu fai finta di nulla, vuoi avere il tuo file lì, pronto per essere azzannato alla ripresa della settimana. Sappi però che lasciarlo incustodito sul tuo pc, durante il weekend, può essere dannoso. Quel file può avariarsi e risultare stantio, puzzare di muffa per aver preso aria nella tua casella di posta. Pensa invece il piacere di scoprirne la fragranza appena sfornato, ancora caldo, con tutte le sue proprietà naturali, come quella pubblicità con Ninetto Davoli che portava i crackers nel cestino della bici. Ecco, lascia che le cose seguano il loro corso. È venerdì. Fammi andare.

è inutile che ti agiti così, sono tutti in sciopero

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a mille ce n’è

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Non c’è favola più spaventosa di quella in cui i genitori contadini o taglialegna ma comunque poveri decidono di sbarazzarsi dei figli accompagnandoli nel bosco e lasciandoli lì perché non hanno sufficiente cibo per tutti e sperano così che se la cavino da soli o, al massimo, si manifesti la legge naturale della selezione per chi è in grado di cavarsela. Non c’è drago, strega o orco che tenga. Una tragedia che si consuma tra i vincoli familiari, anche se pensata ai tempi in cui braccia e gambe in più erano solo cibo in meno per chi lavorava. Oggi non sarebbe credibile, i genitori accompagnano i figli a scuola fino alla terza media e, a parte casi limite, in genere mangiano prima i piccoli, dopo i grandi. Quando ce n’è. Ma, volontà omicida a parte, è la consapevole crudeltà del lasciare uno o più bambini a sé stessi e per di più in ambenti che, ai tempi delle favole, non erano certo posti dove andare a passeggio.

Ci sono così due trame ufficiali che lasciano a bocca aperta piccini, soprattutto, e qualche grande sensibile a certe tematiche. C’è il bambino intelligente che lascia tracce lungo il passaggio per ritrovare la strada al ritorno, con la mollica di pane e con sassi bianchi che riflettono la luce della luna. Questa è la prima. Ci sono poi un fratello e una sorella che non perdono tempo e trovano una casa di marzapane, tutti sappiamo quel che succede lì dentro e quanto vorremmo passarci un weekend.

Ma è l’epilogo che è sconcertante. Qualunque disgrazia succeda, si è sempre pronti a dare una seconda possibilità a una madre e a un padre, che da pentiti lasciano un po’ di sgomento ma fanno spesso pena. C’è chi ha un ricordo remotissimo di sé, lasciato solo e vulnerabile da qualche parte in preda alla disperazione che hanno i bambini quando un punto di riferimento viene coperto da qualcosa o scompare dal campo visivo, e che ha salutato la riapparizione dei genitori come la salvezza, tanto da lasciare che la gioia del lieto fine spazzasse via la rabbia del torto. Poi magari è una macchia di quelle che non vanno più via tanto che resta presente, anche se con tratti ai limiti della definizione ma di cui si è sicuri della veridicità. Però se nella realtà è così, mi chiedo perché nei racconti dovrebbe andare diversamente e che cosa si intenda inculcare con storie più che datate di abbandono. E non è che i bambini si addormentino prima.

scambisti

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No, pensavo che potrebbe essere un’idea – fermatemi se pensate di aver già sentito questa cosa prima – quella un giorno di scambiarci i blog. Non so, io che scrivo un post sul blog di Tizio, Tizio che lo scrive su quello di Caio, Caio su quello di Sempronio eccetera fino a chiudere il cerchio. Si abbinano tramite estrazione gli spazi e gli autori, ognuno si sforza di imitare lo stile e le tematiche del blog che lo ospita, sperando che a me non ne capiti uno di economia. Così, tanto per far qualcosa di originale e guadagnarci in modo diverso i nostri cinquanta centesimi quotidiani, o poco più. Ci sarà anche l’hastag #iblogdeglialtri su twitter, ogni post linkerà a quello dell’altro a formare una catena di buontemponi e ci divertiremo un sacco. Eh? Che ne dite? Lo facciamo strano?

l’ora del tè

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love is the drug, anzi il viagra

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La notizia è che Brian Ferry ha sposato una ex di suo figlio con un gap anagrafico in suo favore di 35 anni, che suona strano come prendere un pezzo dei Roxy Music vecchio come il cucco e dargli nuova linfa facendone un remix. Toh, guarda che coincidenza. Via.