alla fine

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Alla fine la morte è sempre la stessa, se la canti, se la filmi, se la racconti. È quando la vedi addosso agli altri, ma gli altri quelli più stretti, che tutto ti si concentra in un unico groviglio di una materia schifida e indefinibile, te lo ritrovi tra le mani e speri che si consumi da sé, così come si è formato.

per brevità chiamato

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Di fronte a un’intervista a Julian Schnabel trasmessa in tv ci si sofferma anche solo per il piacere di vedere qualcosa di diverso, benché talvolta i set di domande del programma in questione siano un po’ deludenti per chi del personaggio ospite vorrebbe saperne di più. Una leggerezza tutto sommato sostenibile, il pour parler del momento del caffè dopo cena, quando la tv è accesa per caso e ti capita l’occhio lì. Mia figlia mi chiede chi sia, non Fabio Fazio, l’altro. Hai voglia a fare una sintesi di Schnabel. Un regista, un fotografo, un pittore, tante cose tutte insieme, possiamo dire un artista e le risparmio la locuzione a trecentosessantagradi perché per mia figlia è arabo, non ha nemmeno finito le tabelline. Ma vedo che non ha capito e temo la domanda. Papà, mi chiede, ma in realtà questo sgnabel di lavoro cosa fa? L’artista mica è un lavoro. E allora non so che risposta darle. Come non è un lavoro? Ma non si risponde a una domanda con un’altra domanda, tanto meno a un bambino. Mi rendo conto che non ha tutti i torti, però, e che quello che non ha capito sono io.

un velato accento

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Mi ha scritto una amica insegnante di Matematica, una vecchia conoscente che ha voluto mettermi al corrente di una situazione esilarante. Dal 2006, se non erro, è di ruolo in un liceo scientifico e, quest’anno, ha avuto un incarico presso una prima. L’impatto, però, non è stato dei più incoraggianti, non tanto per il materiale umano che le è stato affidato da iniziare alla scuola superiore, quanto da un aspetto marginale, diciamo di folklore, che lei definisce un “segno dei tempi”.

È la prima ora di Matematica del primo giorno di scuola di una prima, il battesimo dei ragazzi nella nuova tappa del loro percorso scolastico, forse la più difficile considerando la maturità emotiva e l’entità del lavoro che i ragazzini si approcciano a svolgere. La prof, che chiamerò Paola, si siede alla cattedra, si presenta, quindi con l’intento di rompere il ghiaccio legge l’elenco dei suoi alunni, fa l’appello, per così dire, tante individualità una via l’altra, scritte in ordine alfabetico sul registro. Un nome, una faccia da memorizzare, una coordinata per localizzarla tra i banchi. Paola mi confessa che ogni volta riuscire a ricordarsi di tutti è un calvario, ques’anno poi la classe in questione raggiunge le trenta unità, la sfida sarà ancora più complessa. La lista scorre fino Colombo (cognome fittizio) Elena (nome vero), che dalla seconda fila alza la mano, sussurra un “presente!” e mentre Paola le sorride, la ragazza molto educatamente le fa notare che “non so come sia scritto sul registro, ma il mio nome in realtà si pronuncia Elèna, e non Èlena“. “Ah Elèna“, risponde sorpresa Paola “che vezzo di originalità”, anche se so che avrà dovuto trattenere un ghigno ironico. Di certo Elèna le è rimasto impresso, non se la dimenticherà facilmente.

L’appello prosegue senza pause sino a Rossi (cognome fittizio) Maria (nome vero), una stanga in ultimo banco, probabilmente una pallavolista, una sportivona, che con una voce decisa interrompe la prof avvisando che “le sembrerà uno scherzo, ma anche il mio nome si pronuncia diversamente, e cioè Mària e non Marìa“. A quel punto la scolaresca scoppia in una risata, Elèna e Mària nella stessa aula sembra davvero una burla di chi ha curato la composizione le classi. “Ammetto di essere arrossita“, scrive Paola, “perché in un certo senso quella risata era rivolta a me, all’istituzione che rappresento, ai processi automatizzati che non tengono conto dell’eccezione umana, quella che fa coesistere nello stesso insieme le uniche due stringhe di testo con l’accento diverso rispetto all’uso comune“. Uso comune, penso io, chi può dirlo: si fa presto ad aggirare la convenzione. Sta di fatto che a questo punto Paola dice di essere terrorizzata da nuove possibili gaffe, continua l’elenco con molta cautela, anche se più di due anomalie sui nomi di trenta alunni sono già tante, troppe. La statistica, lei stessa la insegna, non è così aleatoria.

Invece no, ecco l’ultimo livello, quello che può essere fatale. Paola sa già che il cognome che sta per leggere scatenerà l’esplosione dell’uditorio, ma è consapevole del fatto che non può sottrarvisi. Chissà, quello che le è capitato oggi pregiudicherà tutto l’anno scolastico? “È meglio mettere in pre-allarme i miei colleghi in modo da risparmiare loro la brutta figura, o esporli in eguale modo al ludibrio scolastico, in modo da non diventare lo zimbello del corpo docente”? Ci sono pochi secondi, una pausa prolungata può far diventare quello che sta per succedere ancora più deflagrante, meglio accelerare per sdrammatizzare ciò che i suoi nuovi alunni stanno già subdolando. E l’interessata, in primissima fila nel banco lì davanti, si gode già il suo momento di rivalsa per la prima volta, visto che il suo cognome è stato sempre oggetto di beffe anche pesanti da parte di amici ed ex compagni di classe. “Troia Francesca, ma suppongo si dica Troìa, giusto?“.

esta indecisión me molesta

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La Bicocca, sapete meglio di me, è un’area di Milano che è stata completamente rimessa a nuovo fino a formare un quartiere, di quelli un po’ borderline: operoso e vitale nei giorni feriali per la presenza dell’omonima università e di molte sedi di uffici, a tratti spettrale nei giorni festivi. Ciò non toglie che sia una zona ricca di scorci incantevoli di architettura moderna, di quelli che piacciono a me: freddi e imponenti, degni del razionalismo sovietico. Prendete la sede della Siemens, per esempio, con quella specie di piazza interna e l’accesso che sembra un arco imponente. Potrebbe essere tranquillamente la location di uno spot pubblicitario. Anzi, secondo me qualcuno ci ha già pensato.

C’è il quartier generale di una azienda farmaceutica cliente dell’agenzia in cui lavoro io, proprio lì a fianco. Ogni tanto mi capita una visita in loco, per loro realizziamo video aziendali, house organ, insomma ci tocca ogni tanto qualche riunione con il responsabile marketing. Stavo prendendo un caffè con un paio di colleghi giusto qualche giorno fa in un bar a metà strada tra gli uffici a cui ero diretto e l’ingresso principale della Siemens. Era poco prima delle nove, tutto intorno un viavai di impiegati al galoppo e studenti assonnati, molte matricole, gente comune. Anche il bar era piuttosto gremito, ma mi stavo comunque godendo il riparo dall’ultimo caldo della stagione. Caffè, aria condizionata, solito intrattenimento radiofonico da locale pubblico, una emittente commerciale che, dopo il consueto report sul traffico delle tangenziali, fa partire “Should I stay or should I go” dei Clash.

Yeah, penso dentro di me, altro che caffè, ecco quello che dà la carica al mattino. Un paio di queste per iniziare la giornata e vai di rendita fino a sera. C’è qualcosa di stano però, ma non me ne accorgo immediatamente. Colgo con la coda dell’occhio che tutti, ma proprio tutti, hanno espressioni molto amichevoli gli uni con gli altri, parlano in maniera piuttosto cordiale, anzi troppo, come se fossero tutti amici che si sono incontrati in quel bar per caso dopo non so quanti anni. Ex compagni di classe, ex colleghi, ex coppie. Il tutto mentre scorre via liscia la prima strofa. Avete presente il pezzo, no? Un classico giro blues, la strofa che si ripete due volte. Io poi ho la pessima abitudine di raccogliere lo zucchero in fondo alla tazzina con il cucchiaino, e proprio mentre porto alla bocca quel po’ di dolcezza prima di pagare per tutti, tutti quelli che erano con me, naturalmente, la seconda strofa finisce. “So you gotta let me know/Should I stay or should I go?”, quindi si chiude il riff di chitarra è c’è lo stop. Mi seguite?

Bene. A quel punto sto per cantarmi il ritornello mentre succhio il contenuto del cucchiaino, ma il ritornello non parte. Lo stop diventa una pausa di un quarto, poi di due quarti, poi una battuta intera. Mi rendo conto dell’anomalia, ripongo il cucchiaino nel silenzio più assoluto, mi guardo intorno e vedo che tutti mi osservano. Il barista, i gruppetti di impiegati in giacca e cravatta che hanno preso cappuccio e brioches, le tre studentesse al bancone, poco più in la, con la loro attrezzatura da aspiranti architetti. Tutti mi guardano, anche in modo tutt’altro che accomodante, e il pezzo non riparte. Ma che succede?

Poso la tazzina, mi prende il panico, ma oltre le vetrine, sulla strada, vedo che anche fuori è così. Tutti si sono fermati, guardano me, poi si squadrano tra di loro con gli occhi pieni di sfida. Ecco, una sfida. Tutti contro tutti. Ma una sfida di che? Esco fuori terrorizzato e, incredibilmente, ecco che riparte il ritornello. Con il tempo raddoppiato, avete presente, l’avrete ballato chissà quante volte anche voi. Dal blues al rock’n’roll puro. E immediatamente scatta il pogo generale. Lavoratori, docenti e ricercatori dell’Università, imprenditori, passanti, tutti si inseguono e iniziano a spintonarsi in un immenso delirio punk, proprio in quella piazza.

Quindi l’apoteosi, perché il pezzo curiosamente salta la terza strofa e il bridge strumentale, e continua con l’ultimo ritornello, si tratta di un radio-edit particolare, penso. Un gruppo ben nutrito di persone mi corre incontro, decisissimo a pogare contro di me. Scappo. Corro sempre più veloce, vedo un portone che è rimasto aperto e in un lampo di lucidità mi ci butto dentro e mi chiudo lì. Gli scalmanati che mi avevano puntato, però, quasi in trance, si riversano contro un altro crocchio di persone, più numeroso, e poi tutti insieme ad accanirsi di pogo, donne e uomini, ventiquattrore che volano in aria, tacchi di scarpe di marca spezzati, fogli e documenti stracciati.

La canzone si avvia verso la fine e io, tirando un sospiro di sollievo, assisto alla scena finale al riparo in quell’androne. Il pezzo si conclude, torna dimezzato, Should I stay or should I go, l’ultimo verso accompagnato da chitarra, basso e batteria tutti con la stessa metrica. Quelle comparse di non so che incubo materializzatosi si fermano dovo sono. E a quel punto, sulla scena, appare in in bianco una headline: “Silvergold Assicurazioni. Ogni imprevisto ha un’alternativa. La nostra è sempre la più vicina”.

cosa c’è di peggio di un suv?

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Un Suv bianco.

luce dei miei occhi

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In sala ho una lampada bellissima, un pezzo di autentico modernariato vecchio quanto il matrimonio dei miei genitori, cinquantun’anni più un periodo non quantificabile tra il momento in cui è stato conteggiato in una lista nozze e la sua vera data di fabbricazione. Ha una linea anni cinquanta, addirittura c’è una leggenda famigliare che lo vuole disegnato da un architetto famoso, si mormora addirittura Castiglioni. Ma non si ha la prova di tutto ciò se non una notizia senza fonti che avevo trovato su un sito specializzato in forniture d’epoca, memorizzato tra i segnalibri del browser di sistema di almeno tre computer fa, prova poi evaporata con tutti gli altri dati virtuali di quegli hard disk primitivi.

La lampada bellissima è composta da uno ovale in teak di circa centoventi centimetri su cui sono posizionate tre lampade rettangolari in vetro opaco. Il tutto è montato su un’asta di ferro nero fissata su una piantana tonda di marmo, per un totale di un metro e ottanta circa di altezza. È una lampada a cui sono affezionatissimo, intanto perché serve a mantenere nitide le poche reminiscenze del primo soggiorno dei miei, composto da divano e poltrone in velluto blu con un set di mobili in teak, libreria, tavolino e la lampada, appunto, gli unici pezzi sopravvissuti.  Si tratta di ricordi vaghi, non privi delle interferenze di alcune foto che hanno come sfondo quelle delizie vintage, mio papà con mia sorella in braccio e simili.

Poi la lampada si ruppe, probabilmente, e in un momento in cui tutto ciò che era considerato obsoleto veniva fatto vittima di ostracismo in favore di complementi d’arredo più eighties, finì in soffitta, miracolosamente fasciata con carta di giornale e, quindi, protetta dai segni del tempo e dagli urti a cui sono spesso esposti i mobili nei ripostigli. Una volta resomi indipendente, in un guizzo di amarcord mi ritornò in mente la lampada, proprio perché, in pieno boom del design d’epoca, girellavo mercatini dell’usato e discariche alla ricerca di chicche vittime dell’arbitrario oscurantismo e dell’ignoranza altrui. Ho una lampada di valore, pensai, chissà se funziona ancora. La portai da un elettricista che la rimise in sesto, e da allora la lampada ha accompagnato prima un divano e due poltrone anni sessanta in sky verde, provenienti direttamente dalla sala d’aspetto di un dentista e pagate un prezzo a dir tanto irrisorio; quindi l’attuale soggiorno, moderno e minimale, della casa in cui vivo, a prova del fatto che la linea del pseudo-Castiglioni sta bene proprio con tutto.

Ora però la lampada si è guastata, probabilmente un semplice cavo che trasporta la corrente a intermittenza, a seconda del posizionamento della piantana. E il guaio è duplice. Intanto occorre muoverla, e ogni volta che la si sposta, si tratta comunque di un oggetto di mezzo secolo fa, c’è il rischio di scalfirne il corpo di legno. Ma il vero problema è trovare chi sia in grado di ripararla. Anche l’elettricista del paese, che mi conosce perché gli faccio sempre le richieste più assurde come sostituire uno spinotto ormai fuori produzione di un giradischi con una coppia di rca standard o il jack della vecchia cuffia Pioneer, ha messo in dubbio la fattibilità dell’opera. Dovresti trovare un pensionato appassionato di queste cose, mi dice, ci vorranno almeno due ore, io non ho tempo. Ecco, l’elettricista non ha tempo. Ha un negozio al dettaglio di piccoli elettrodomestici che sta per essere spazzato via dalla grande distribuzione e lavora solo sui vecchietti che portano a riparare le radioline per ascoltare le partite, le signore anziane che cercano prese e adattori non più a norma altrimenti dovrebbero sostituire tutte le spine di casa, e gli amanti delle cianfrusaglie come il sottoscritto. Eppure non ha tempo, nemmeno lui. E mi dice che comunque non ne varrebbe la pena, il costo della manodopera sarebbe troppo alto per un oggetto così vecchio.

Allora sto per raccontargli la storia di quella lampada, per fargli capire che oltre all’inestimabile valore affettivo, quel pezzo unico che lui ha l’onore di riportare agli antichi fasti non stonerebbe in una vetrina del centro di Milano, con una bella targhetta sotto con su scritto un migliaio di euro, come minimo. Ma è troppo tardi, entra un signore sulla settantina con un parrucchino arancione e un lettore mp3 in mano di una marca sconosciuta. Chiede se lì vendono le pile.

grande vento nella notte calda si alzerà

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Ricordate la prima cosa che vi ha turbato nella vostra vita, nel senso che vi ha fatto supporre che i corpi umani sono qualcosa in più che semplici vettori o apparati dedicati al gioco, allo studio e al riposo? Io no, ma ho quasi la certezza che sia accaduto a una festa per il conseguimento della maggiore età di una ragazza inglese durante un temporaneo soggiorno in Malesia, precisamente a Labuan. Una festa a cui non ero stato invitato, ma che mi è stato permesso di seguire in tv a non ricordo quanti anni, credo una decina. Lei, di nome Marianna, fece l’ingresso d’onore nel clou della festa, vestita con un costume locale anziché in tradizionali abiti britannici, suscitando le ire dello zio ma, come ricorderete, accendendo la passione di Sandokan/Kabir Bedi. Ma non è stato l’unico, e a quanto ricordo dalle discussioni con i compagni di classe, non fui nemmeno io il solo, da questa parte dello schermo in bianco e nero. Nel mio precoce realismo, non ero affatto geloso di condividere i miei turbamenti con così tanti coetanei. Ma questa sera si è chiuso un cerchio. Finita la cena, abbiamo rivisto con piacere, mia moglie, mia figlia e io, proprio quell’episodio, dopo che le avventure della Tigre della Malesia avevano stimolato la curiosità della piccola e non solo: la componente maggiorenne della famiglia era curiosa di ripercorrere quello che fu uno dei maggiori successi televisivi della nostra infanzia. E onestamente non ha deluso le aspettative. A parte la bravura di attori del calibro di Adolfo Celi, ho rivisto a più di trent’anni di distanza l’ombelico scoperto di Carol Andrè, scena di cui avevo pure la figurina appiccicata sul diario e sulla quale stavo ore a rimuginare, spinto da elucubrazioni sul perché esistano individui così diversi della stessa specie animale. Non ho ben chiaro il finale della storia e, quindi, dello sceneggiato, vedremo le ultime puntate domani sera, ma se non ricordo male, le cose per l’oggetto dei miei desideri di allora non si mettono molto bene, dopo l’epidemia di colera. Non so se resisterò a seguirne ancora la triste uscita di scena, e a dover sopportare, una seconda volta, lo stesso trauma.

pacco dono

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I giochi e gli oggetti regalo per i bimbi in età prescolare si dividono tra quelli che piacciono ai bambini e quelli che piacciono ai genitori. Articoli molto belli a vedersi che catturano l’interesse dell’adulto per vari aspetti. L’estetica, per esempio. Libri fantastici con illustrazioni raffinatissime, ne ho sfogliati a migliaia in biblioteca. Disegni che non sfigurerebbero incorniciati e appesi alle pareti di un salotto. Poi li fai vedere al target cui sarebbero indirizzati, i più piccoli, ed è un attimo a perdere la loro attenzione, che ritorna sulla Pimpa o affini.

Un altro elemento che fa gola è la provenienza, e qui si fa leva sul senso etico e responsabile del consumatore adulto. Giochi dai paesi degli altri mondi costruiti dai coetanei dei nostri figli per i nostri figli con materiali così naturali che i nativi della civiltà della plastica a fatica considerano persino complementi d’arredo. Poi i giochi intelligenti dei paesi del nord, loro sono bravi a educare i più piccoli con le cose in legno. Le bici in legno, le casette delle bambole in legno, trenini e camion e automobiline. E quando li vedo, in estate, divertirsi sulla sabbia con quegli oggetti bellissimi, coloratissimi, ecologicissimi e costosissimi, li invidio un po’, come tutti. Per i nostri figli, che crescono con le marche, le cineserie e i coloranti venefici, il legno è un materiale alieno, il derivato di una pianta che cresce su Giove, il cui calore trasmette un eccesso di cura da dedicarvi e al quale, nel nostro mondo usa e getta, i bimbi non sono per nulla avvezzi. Ricordo uno xilofono tutto colorato come un arcobaleno che ho comprato io stesso per mia figlia, su cui mi divertivo a riprodurre il riff di Change dei Tears for Fears. Ma su di lei non ha avuto presa. E i giochi da tavolo? Se ne ricevono una marea, è il classico dono impersonale che si fa a chi si conosce mica troppo, ma si tratta di passatempi che vanno stretti ai bambini. Non sono giocattoli da indossare, da scavalcare, da lanciare o da entrarci dentro. Rimangono entità separate, non so come spiegare, distanti, un’appendice per un gruppo di amichetti che sono troppo in confidenza per tenere una passione in comune sulla punta delle dita. Le tessere da girare che poi restano inermi sul tavolo, o sul tappeto, i dadi con quei puntini che è così bello usare come biglie anziché come regola per procedere con il proprio segnaposto lungo un percorso di caselle numerate. Tutto troppo strutturato.

Ci sono negozi che sono stracolmi di giochi che quando li regali ai bambini, l’unico divertimento è strappare via la carta e sintonizzarsi sulla sorpresa degli adulti che stanno lì intorno, che si complimentano per la scelta, per i colori, per il rispetto dell’ambiente, e anche per il gusto. Poi il regalo resta per qualche mese sugli scaffali in bella vista in cameretta, prima di tornare nella scatola e da lì in cantina. Se proprio si vuole tornare alla materia viva, sarebbe bello poter regalare gli elementi fondamentali: la terra, l’acqua e l’aria (il fuoco meglio di no). Costano poco e ho visto essere molto graditi.

siamo solo di passaggio

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Da quando lavoro qui ho i miei riti. Conservo tutte le email, per esempio, inviate e ricevute, ho gli archivi ordinati su backup dal 2002 ad oggi, mese per mese. Un approccio maniacale ma che, almeno un paio di volte, ha tolto da situazioni imbarazzanti me e qualche collega. Ma la cosa a cui tengo di più è la mia collezione di, come li chiamo io, Ricariche Temporizzate per Fornitori in Visita. Nulla di pericoloso, sia chiaro, è solo un gioco che mi sono inventato e suppongo nemmeno così originale, ma che mi piace immaginare essere frutto di una condizione reale, un meccanismo tutto sommato credibile nel mondo del lavoro odierno, fatto di soldi che sempre meno circolano, di offerta di gran lunga superiore alla domanda, di solidarietà latente tra lavoratori della stessa società, e figurarsi tra individui di società diverse. Vi spiego.

Quando vado in visita da uno dei miei principali clienti, mi registro presso la reception che, dopo così tanti anni, mi conosce perfettamente, così perfettamente che mi viene chiesto sempre il nome, o le ragazze di turno provano a indovinare il cognome storpiandolo un po’. Comunque il mio nominativo è lì da molto tempo. Il sistema lo pesca, estrae tutti i field del mio record dal CRM e stampa un pass adesivo da appiccicare sul petto. Ecco, questa è una Ricarica Temporizzata per Fornitori in Visita. Su questa sorta di etichetta di riconoscimento, da ostentare nei corridoi e nelle sale riunioni della sede multipiano tra le centinaia di dipendenti che sfrecciano indaffarati su e giù per il palazzo tutto di vetro, ci sono i miei dati. Così in ascensore, per esempio, c’è chi li guarda e mi può dire “ah ma tu sei Plus1gmt, ci siamo scritti mail sai quante volte” e io vorrei dirgli “certo, lo so, le ho anche tutte backuppate in ufficio, sai, non si sa mai” ma mi sembra poco carino, io sono lì per prendere un lavoro, non voglio spaventare nessuno con i miei riti professionali. Ma non è questo il punto.

La suddetta Ricarica Temporizzata per Fornitori in Visita, sotto lo strato superficiale in cui sono stampati i miei dati di riconoscimento, contiene un cerchio nascosto tra l’etichetta e la parte adesiva. Questo cerchio, man mano che trascorre il tempo in visita, acquista colore, diventa lentamente rosso, e fa comparire in superficie l’inquietante monito “expired”, ripetuto. Una texture di expired che mette in risalto il fatto che la mia presenza lì lentamente si trasforma in illegale, non gradita, clandestina. La ricarica si sta esaurendo, fornitore fai attenzione: hai i minuti contati.

E fortunatamente non ho mai trascorso più di mezza giornata lì, nel palazzo di vetro con la mia Ricarica appiccicata sul petto. Non so dirvi se, una volta raggiunta la colorazione massima, la toppa adesiva inietti qualcosa attraverso l’epidermide causando conseguenze nefaste, tipo desiderio di proporre sconti esagerati sul progetto motivo della mia visita, oppure semplice senso di soffocamento e induzione a scappare via, accelerando la riunione il più possibile per liberare lo spazio nella sala meeting prenotata per me. O il contrario: appena la metti su ti spara una sostanza sconosciuta, di cui solo il Facility Manager conosce la composizione, un liquido che fa effetto solo dopo il tempo programmato. L’unico antidoto è rimuovere l’adesivo, firmare il registro in reception, e uscire da lì.

Ma ogni volta, alla fine, rientro sano e salvo in ufficio, a testimonianza del fatto che la Ricarica Temporizzata per Fornitori in Visita è innocua, e attacco l’ennesima figurina adesiva ormai tutta rossa di “expired” sul mio album, e dentro di me, e per il bene di tutti, spero che la collezione sia ritirata dal commercio il più tardi possibile.

c’era una volta la vita

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Le domande scomode che ci fanno i bambini sono a dir poco proverbiali, e vi dirò che quelle inerenti il sesso o l’attualità sono tra le meno difficili. Al primo posto metto i quesiti di matematica e le regolette di grammatica, capita che talvolta, prima di definire una proprietà o un concetto che nel suo uso quotidiano diamo per scontato, debba prendere tempo e “accendere” Google. Già, aiutare i figli nello svolgimento dei compiti può essere complicato. Non vi dico quanto io tema, in futuro, materie come chimica e fisica.

In seconda posizione, ma solo per la frequenza più blanda con cui se ne parla, ci sono vecchiaia e morte. Per un po’ ho tamponato la curiosità con la scusa del “hai tantissimo tempo davanti prima di diventare come la nonna”. Poi mi è venuto in soccorso un cartone animato, uno di quelli di tanti anni fa, che non ho visto perché ero già grande ma che ho trovato grazie a un caso fortuito. Da lì all’hard disk, come potete immaginare, il passo è stato brevissimo. Si tratta di un episodio della serie “Esplorando il corpo umano”, o “Siamo fatti così”, avete capito a cosa mi riferisco e qui trovate tutti i dettagli. C’è un signore molto vecchio che rassicura i suoi figli e nipoti del fatto che il suo ruolo, come di chiunque altro, è di fare da catena tra chi lo ha preceduto e chi prenderà il suo posto, tramandando i suoi cromosomi come in un passaggio di testimone. Quindi li conforta, non siate tristi, c’è qualcosa di me in voi, ci sarà qualcosa di voi nei vostri figli. Inevitabilmente esala l’ultimo respiro al cospetto dei parenti in atteggiamento piuttosto statico, malgrado sia un cartone animato, in totale neutralità espressiva e senza il minimo coinvolgimento emotivo. E ho apprezzato quella volontà di non drammatizzare, tanto che la sceneggiatura sbrigativamente sposta dopo pochi secondi la scena su un neonato, il nuovo esemplare della specie umana che prende il posto lasciato libero da quel nonno immaginario. La vita ricomincia in un altro anello della catena, l’essere umano che raccoglie il testimone e continua il suo viaggio. Il concetto elementare della staffetta esistenziale ha colpito nel segno, placando, immagino temporaneamente, la sete di curiosità di una bimba di quasi otto anni. Fino a quando subentrerà l’esperienza diretta con le sue difficoltà e le prove sul campo, che, passatemi l’ulteriore metafora sportiva, sarà la prima manche di una corsa a ostacoli.