gods of metal

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Scoop: secondo il Vatican Insider, Alice Cooper non è più satanista e si converte al bene.

Sì, è vero – ha dichiarato Cooper – sono un “cristiano rinato”. Ma ogni credente in Cristo vive una vita nuova, ha un approccio diverso rispetto alla propria esistenza. Non è come Scientology dove tutto è fondato sulle tue forze, sulle tue capacità, sul tuo sforzo di migliorarti. Il cristianesimo, invece, è un rapporto personale con Cristo: non è una questione di regole o di tecniche…». Quanto alla questione su come faccia un credente a lavorare da performer selvaggio, Cooper ha spiegato: «Nella Bibbia non c’è scritto da nessuna parte che una rock star non può essere cristiana. Quanti cristiani sono magari dei cecchini, dei boxer o qualsiasi altra cosa? Il cristianesimo può passare attraverso tutti i tipi di mestieri, forse quello della rock star è il meno peggio….

Niente a che vedere con Ferretti che scrive sull’Avvenire, tuttavia anche questa è una notizia di un certo peso. Non c’è davvero più religione.

piano pianissimo

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Non è per niente male l’ultimo lavoro di Meshell Ndegeocello, intitolato “Weather”, segnalatomi da una delle mie principali pusher di materiale d’ascolto. Colpiscono soprattutto, oltre la traccia qui sotto, alcuni brani di una lentezza travolgente, cose al limite della suonabilità soprattutto per chi sta dietro ai tamburi che mi hanno riportato alla mente un gioco per addetti ai lavori. Un nonsense per musicisti stolti che consisteva nel rallentare a bpm impossibili canzoni già di per sé estreme per la loro staticità, una su tutte la cover – da eseguire a scopi mercenari, a sottolineare il fatto che altrimenti mai e poi mai avrei pensato di suonarla – di una ballad come “If you don’t know me by now” dei Simply Red, la cui esecuzione poteva anche protrarsi per pomeriggi interi, interrompersi alla fine delle prove per essere poi ripresa all’appuntamento successivo. Tornando a noi, “Rapid fire”, che linko in calce a questa segnalazione comprensiva di amarcord, è senza dubbio l’episodio più originale della tracklist dell’album.

parole note

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A dimostrare quanto le recensioni musicali siano superflue ci viene in aiuto Frank Zappa, grazie a uno dei suoi ipse dixit più celebri, quel “parlare di musica è come danzare di architettura” quasi al confine del nonsense e che vale soprattutto quando le parole vogliono essere messe per iscritto e date in pasto ai lettori. Si tratta di una forma di narrazione che è di per sè un paradosso. Come si fa a raccontare un pezzo di musica? L’espressione artistica che più di ogni altra non può essere contemplata staticamente, un divenire continuo che, anche alla fine del brano e alla ritorno del silenzio, non consente la sua visione completa. Nel momento in cui se ne afferra un istante, ci si trova già alla misura successiva e così via. Per raccontarlo battuta per battuta, tanto vale cantarlo e suonarlo, e a quel punto tanto vale riprodurne la versione originale. Per di più la fruizione di insieme è impossibile, non si può descrivere un brano come si descrive un quadro. Anche un libro, la lettura stessa è un divenire. Ma implica un operato attivo dei sensi, attraverso il quale chi legge può fermarsi, tornare indietro e ripartire quando vuole senza perderne la visione di insieme, a differenza di chi ascolta. Per non parlare del maggiore sforzo e impegno necessario alla fruizione. La musica è accessibile in tempo reale  mentre la lettura implica il filtro della comprensione.

Ma supponiamo che, una volta che il pezzo sia finito, io possa raccontartelo. Ok. Posso dirti il tono, l’andamento, il timbro (sempre più difficile). Posso parlare del ritmo e del tempo. Bello, brutto, mi piace, mi repelle? Siamo nell’ambito del  giudizio. Ma non ho descritto il brano. Posso parlare del testo, ma allora siamo nel campo della critica letteraria. Posso mettere in ballo tutta la mia competenza musicale cercando gli echi di altri compositori o di altri gruppi nel brano in questione, ma sto facendo critica comparata. Posso elencare con saccenza tutti i generi che conosco e in cui quel particolare brano rientra, ma sto facendo una banale categorizzazione, né più né meno che la catalogazione di un libro propedeutica alla sua archiviazione biblioteconomica. E dato il carattere evocativo, specifico della musica, posso trovare in ogni brano, misura per misura, richiami a decine di altri brani che richiamano centinaia di sensazioni che richiamano migliaia di esperienze della mia vita. Ma allora sto scrivendo un’autobiografia, oppure sto facendo una trasposizione istantanea multidisciplinare, dalla musica alla prosa o alla poesia. O, più banalmente, non faccio altro che dire tizio assomiglia a caio, con un po’ di sempronio nel periodo in cui suonava come pompeo (mi mancava il quarto nome e sono andato a caso). In passato ho riempito fogli – virtuali e non – di parole e critiche in tutta la gamma del giudizio per questo o quell’altro cd novità che una ormai defunta webzine online mi spediva a casa da commentare, e andare oltre il comunicato stampa era piuttosto problematico, tanto più che si trattava di gruppi italiani esordienti, riguardo ai quali c’era ben poco da dire. Ma mi sembrava l’unico modo per mettere insieme due passioni, la musica e la scrittura. Poi ho gettato la spugna per manifesta inferiorità, e allo stesso modo sto alla larga dalle recensioni altrui. Un ascolto vale più di consiglio, anche quando se ne riesce a cogliere il significato.

bombay bicycle club – bad timing

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se c’è un motivo

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Il processo creativo corale in musica, mi riferisco ancora a quella deformazione della personalità che i più definiscono con l’avere una band, è un fenomeno che non ha eguali in nessun altro campo artistico. Lo ammetto. Questo senza tener conto del risultato e della qualità del prodotto. L’atto in sé del comporre è uno spurgo di stati d’animo individuali senza precedenti e stupisce sempre il loro amalgamarsi con facilità con quelli altrui, sia in stato di comprensione o empatia dei musicisti con cui ci si accompagna che in quello di fraintendimento o mera versatilità da un’indole “di mestiere” e commerciale di un produttore dietro al software da home studio di turno. Gli spunti possono nascere ognuno imbracciando il proprio strumento in sala prove, l’alchimia della scintilla che genera il capolavoro è possibile ma non così semplice. In questo è di fondamentale importanza l’ambiente in cui si crea, non dico che occorrerebbe disporsi con gli strumenti secondo il feng shui, di certo più si è a proprio agio, come in tutte le attività, più piacevole sarà il lavoro. Nella mia ultima esperienza di esecuzioni collettive, la sala prove era un box rettangolare e in cinque eravamo costretti praticamente in fila indiana. Senza contare l’insonorizzazione solo parziale e il gruppo reggae nel box a fianco che si percepiva distintamente tra un pezzo e l’altro, annientando quella piacevolezza che si prova con il silenzio dopo aver suonato una canzone nel migliore dei modi. Non è durato a lungo.

Più frequente la condivisione delle proprie bozze, che ciascuno leviga e struttura apportando il proprio valore aggiunto fino all’opera compiuta, a volte specchio della prima release, a volte completamente stravolta. Il rischio è quello di pensare l’ensemble a disposizione a propria immagine, avere già ben delineato in mente il risultato finale di cosa si va a proporre e di respingere i tentativi di ciascuno di fare propria l’idea altrui. Qui gioca un ruolo decisivo la personalità di ciascun elemento e la predisposizione alla condivisione delle proprie produzioni, che è come dare in pasto se stessi agli altri. In questo occorre essere pronti alla vita in comune e il feeling deve essere a livelli elevatissimi. Se suonate lo sapete meglio di me, avere un gruppo è come avere una famiglia. Ci sono le stesse dinamiche, possessione, gelosia, inclinazione a far soffrire o a sacrificarsi, voler comandare, parlare senza far nulla eccetera eccetera. E per chi come me ha smesso, ogni tanto qualche nostalgia emerge pur nella accertata soddisfazione dell’aver realizzato l’impossibilità oggettiva di portare avanti coerentemente un progetto musicale. Ho appena letto un’intervista ai The National qui (via Slowshow, naturalmente) circa lo stato già avanzato del materiale per il loro prossimo album. Matt Berninger, fornendo qualche dettaglio sul loro modo di  far nascere le nuove canzoni, mi ha permesso di ricordare quella rara sensazione, che nella mia lunga esperienza mi è capitata solo una volta, di serenità nel confronto tra teste diverse e, soprattutto, adulte. “Aaron has given me about 10 ideas so far. He seems to be in some sort of really weird creative space. He recently had a baby, so maybe it’s a lack of sleep. He’s wired differently. The songs he’s given me are much less cerebral and academic and much more immediate and visceral than usual. I’m in love with them. I just spent all night listening over and over to some things he sent. I think they’re some of the best things he’s ever written. And I think it might be because he’s not thinking about it that much. He isn’t putting everything through the filter of Important Music as he has in the past. The music just seems to be working on a pure gut level“.

ho lasciato l’Alabama per venire fin quaggiù

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Una pattuglia di agenti della polizia locale sta rimproverando in modo concitato qualcuno, si sente anche da qui. Incalzati da un crocchio di gente piuttosto inviperita, due bambini nomadi afferrano quel che possono della filippica con cui il più alto in grado degli addetti al traffico gli si sta scagliando contro. Poco prima, un giovane alla moda distratto dalla conversazione amorosa con il suo smartphone in cui era immerso anima e corpo, camminando per strada, ha avvertito qualcosa di strano alle sue spalle. Voltandosi ha scoperto i due ladruncoli con le mani nel sacco, anzi nella borsa, una specie di tascapane militare di marca portato a tracolla sotto il culo. E probabilmente i due, cresciuti e formatisi attraverso test eseguiti su stuntman di ben altre fattezze e armonie fisiche, modelli di elasticità abituati a un tempismo al millisecondo – un istante di ritardo e il trapezio torna indietro e per l’acrobata non resta che la rete dell’infamia – e alla destrezza assoluta indispensabile per arrampicarsi sulle grondaie, dicevo i due non hanno considerato l’inferiorità del genere umano occidentale, fiaccato già in giovane età da disturbi della postura dovuti a posizioni innaturali come le borse al ginocchio e i pantaloni a metà natica. La scoliosi induce a un andamento irregolare fuori dai canoni classici dell’animale in posizione eretta, e probabilmente è stata l’asimmetria della vittima del tentato furto a essere decisiva: una mano del malintenzionato ha urtato la borsa e il colpo è andato in fumo.

Il più scaltro dei due guarda in malo modo il compare, forse è stato lui la causa di tutto. L’agente dai modi più bruschi gli toglie lo zainetto dalle spalle e ne rovescia il contenuto sul cofano di una berlina parcheggiata a fianco. Il valore totale della refurtiva sembra irrisorio, ancor più in contrasto con la vernice lustra di quella macchina. Qualche banconota da cinque e dieci euro spiegazzata, un paio di modelli di cellulari così superati che nessuno ne rivendicherebbe la proprietà, e un cofanetto rettangolare in velluto porpora. “E questa dove l’hai rubata?”, chiede una signora che si fa largo nella calca non appena un agente apre la scatola e ne estrae una armonica a bocca cromatica Hohner. “Questa è mia”, si difende il ragazzino, “la uso per suonare in metropolitana”. Il capo degli agenti lo incalza con le sue obiezioni, probabilmente suona o comunque sa che quel modello costa almeno duecento euro e dubita che un bambino di umili origini possa disporre di uno strumento musicale da ricchi. Così gli lancia la sfida: “Allora fammi sentire se è vero che tua”.

Quello, lo stesso che poco prima spaventato dai passanti che lo stavano bloccando dopo essere stato scoperto ha rischiato di finire sotto un taxi per scappare, strappa di mano l’armonica al vigile e la porta alla bocca. Malgrado il periodo natalizio, che più di ogni altro impone scalette monografiche, malgrado la cultura dell’est Europa sia tutt’altro che limitrofa al blues, il ragazzino si lancia in un ispirato medley composto da un motivetto dixieland americano, qualche svisa, un accenno a un classico come “Oh when the saints” per finire con una galoppante “Oh Susanna”. Mica male, gli astanti si guardano tutti stupiti e il ragazzino ne approfitta per godersi la vittoria della sfida e pulire con la sciarpa lisa l’armonica. Ma Corso Buenos Aires non è Manhattan, non siamo sulla Quinta Strada, il negozio più esclusivo qui è H&M e il pubblico non sembra ammettere il lieto fine alla storia. L’agente gli ordina di rimettere l’armonica nello zainetto insieme al resto degli oggetti rimasti sul cofano, nel frattempo è arrivato un furgone delle forze dell’ordine e i due nomadi, con la pattuglia, salgono alla volta del commissariato più vicino. Il concerto è finito, nessuno ha chiesto un bis.

let’s dance to manovra

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E giusto per sdrammatizzare, stamane tra un taglio di qui e una tassa di là si parlava con alcuni amici dei pezzi più divertenti da ballare della storia del dancefloor, un argomento vasto tanto quanto l’intera produzione musicale. Perché voi mi insegnate che qualunque cosa può essere ballabilissima e interpretabile attraverso un corpo dotato da almeno un quarto di mobilità, che il ritmo è nel sangue indipendentemente dal colore della pelle perché è soggetto solo al modo in cui ciascuno ascolta la musica e la trasferisce alle proprie membra. Sono partiti fischi con “One step” dei Kissing the pink proposta dall’ala “oneshot”, un po’ ingiustamente, forse i più critici non l’avevano mai ascoltata in precedenza. Ma come dar loro torto, basta con ‘sti anni ottanta, diamine. Così, onde evitare provocazioni, abbiamo ristretto il campo: almeno dal 1990 in poi, niente rock perché non si parla di saltelli sul posto o di spintoni a casaccio, niente classiconi da discoteca tipo Rythm is a dancer o What is love?, niente ska e reggae. Ecco, i pezzi più ballabili tra quelli mediamente commerciali, mediamente conosciuti, mediamente cool, oggettivamente ritmati, brani grazie ai quali in situazioni più o meno critiche da tasso alcolico fuori controllo abbiamo passato tre minuti di puro divertimento fisico, da soli o in compagnia, muovendoci come forsennati al chiuso di un club o all’aperto di un party estivo, in entrambi i casi soggetti a smodate sudorazioni. Nessuno dei miei due candidati ha vinto la competizione, non si sono nemmeno classificati dignitosamente, quindi ho pensato di rimetterli al vostro giudizio. Sono graditi like e apprezzamenti in cambio del buon umore che ricaverete dall’ascolto delle canzoni qui sotto. Sapete quanto mi piace quando dite che ho ragione, soprattutto in ambito musicale. Pronti?



non nelle mie corde

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Una volta esisteva una tipologia di nerd musicofilo, passatemi il termine, ben definita con gusti ben precisi. Quelli che in macchina, un’automobile solitamente sportiva con tutti quegli ammennicoli che non saprei definire, quegli optional che ne facevano un mezzo tendente alla vettura da rally o comunque differente dalla media, avevano un portacassette in cui non era difficile trovare artisti e gruppi tipo i Toto, Pat Metheny, gli Eagles, Gary Moore e, soprattutto, le favolose schitarrate di Carlos Santana. La confortevole fragranza dell’arbre magique alla vaniglia faceva da teatro sinestesico a quella specie di – come definirlo? –  soft hard rock melodico, tutto guitar-based, che il proprietario ascoltava con le mani ben salde sul volante da competizione, il capello un po’ lungo e ondulato sul collo, lo sguardo sognante a un tramonto dal quale speravano prima o poi di veder sorgere un fiore di luna. Ecco, dove siete ora? Che ne è stato di voi? Che musica ascoltate?

che crea falsi miti di progresso

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I Subsonica hanno pubblicato una nuova edizione del loro ultimo lavoro, Eden, in cui hanno incluso anche la loro rivisitazione di “Up patriots to arms”, un pezzo che non ha bisogno di presentazione alcuna e che fa parte di una delle migliori produzioni musicali italiane del secolo scorso che è l’album Patriots di Franco Battiato. La band torinese ne propone la cover da un po’ di tempo, recentemente era compresa in un medley con “L’ultima risposta” ed oggi, finalmente, è stata registrata in studio con tutti i crismi, voce di Battiato compresa. Chiaro che stiamo parlando di una di quelle canzoni così intense e belle che è quasi impossibile eseguirla male, puoi anche rivoltarla come un calzino ma conserva comunque il suo fascino. Quindi grazie a Rael che mi ha dato l’ispirazione, e qui sotto trovate riunite l’originale, la prima cover che io ricordi che risale addirittura ai Disciplinatha, una versione rockettara dei Negrita e la più recente di Samuel e soci (in qualità meno che disdicevole, ma è quanto passa per ora il convento).

andate a lavorare, capelloni

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The Smiths, ovvero gente comune, quella che incontri in ufficio. Via Rael.