una giornata da dimenticare

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Se mi fate sapere cosa è successo cerchiamo di capire tutti insieme perché quella di ieri è stata una giornata da dimenticare. Raccontatemi le vostre esperienze e cerchiamo di scoprirne il motivo, se dopo il caso del blue monday (avete letto, vero, che la settimana scorsa è stato il più triste lunedì dell’anno) si può parlare di una sunday-qualcosa in cui si manifestano le congiunture più nefaste per cui va male più o meno a tutti.

A uno gli è morto il nonno d’infarto, una storiaccia, la nonna non è sposata e quindi non avrà nemmeno diritto alla pensione di reversibilità. A un’altra le sono stati infranti i sogni di avere un figlio calciatore famoso, troppi candidati per lo stesso ruolo e qualcuno deve per forza accomodarsi in panchina e aspettare che il titolare si faccia male. Come darle torto? Poi ce ne sono un paio che sostengono di non sopportare più il loro amico, con cui hanno trascorso il weekend, che proprio non ci riesce a pronunciare due consonanti vicine. Apnea, opzione, tecnica, cose così. Il problema che entrambi i detrattori di questo fenomeno della fonetica non è che siano dei linguisti. Da una parte sostengono che se la nostra lingua si è evoluta con così tante parole con le doppie è proprio perché noi italiani siamo talmente pigri da semplificare anche una cosa così entusiasmante come la pronuncia di due consonanti ravvicinate. Il loro amico invece ha preso il vezzo di separarle con delle vocali di circostanza, per dare respiro alla parola. Potrebbe trattarsi di un caso di superamento della balbuzie, mi verrebbe da dare il mio apporto così alla discussione, ho visto quel film del re che tartagliava e uno degli accorgimenti per superare il problema era quello.

Comunque voglio contribuire in prima persona a questa domenica da dimenticare, perché non so il motivo ma stamattina mi son svegliato e ho braccia e gambe indolenzite e mi fa pure male la caviglia sinistra, forse ho esagerato nella corsa e nei saldi, che è una pratica ben più impegnativa di qualunque sport dilettantistico. Allora facciamo così, facciamo che tutti ce ne dimentichiamo. In prossimità della giornata della memoria vi presento il 25 gennaio, il primo vero giorno candidato per una ricorrenza dell’oblio.

nelle piccole cose

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Ci bastano i libri, i film e i dischi? Ci basta la salute, un lavoro sufficientemente remunerativo, un amore corrisposto? Ci bastano figli responsabili e diligenti, sani e sportivi, intelligenti e curiosi? Ci bastano città da scoprire e ambienti naturali da visitare una manciata di giorni l’anno, come dimensioni parallele ai tragitti quotidiani del nostro equilibrio? Ci basta una tessera di partito, una spilla di un’associazione di categoria appuntata sulla giacca o una preghiera recitata all’unisono la domenica prima di pranzo? Non è a me che dovete chiederlo, non ho nessuna risposta da darvi e se siete qui per questo avete sbagliato numero. Ma provate a fare a meno di uno di questi punti fermi della vostra vita, una delle sporgenze su cui ci assicuriamo la spinta per il passo successivo, e poi ditemi come vi sentite.

la primavera del terziario avanzato, a pochi giorni dall’inizio dell’inverno

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Il miracolo a Milano che è accaduto questa mattina risulta ben più difficile da credersi di quell’altra arcinota storia neorealista di un gruppo di disadattati che rubano le scope agli operatori ecologici per prendere il volo verso un mondo immaginario. Oggi sembrano essersi verificati decine di episodi di impiegati che sono stati visti uscire di casa tenendosi tutti per mano, un gesto concreto di solidarietà per affrontare il rientro verso un lavoro per il quale si sentono sprecati tutti quanti, dopo almeno una ventina di giorni di chiusura aziendale. Persino qui, al mio paesello, un borgo post-moderno della periferia nord colonizzato da una popolazione di cafoni irriverenti, presuntuosi e poco istruiti a giudicare da quello specchio della società in cui viviamo che è la pagina Facebook “Sei di pincopallo se…”, che appunto nel caso del mio paesello è caratterizzata da commenti vergognosi e indegni per il genere umano tanto che ho provato a sbirciare in altre pagine Facebook omologhe e vi assicuro che nessun’altra è così indecorosa. Dicevo che persino qui, al mio paesello, di catene di auto-aiuto verso la stazione ferroviaria e verso la fermata della metro che è all’altro capo se ne sono viste numerosissime. Tutto sembra essere nato proprio da un esse-o-esse lanciato nel tardo pomeriggio di ieri, quando la morsa della responsabilità del mantenimento dei propri cari con la costrizione alla copertura della propria posizione produttiva si faceva sentire in tutto il suo bruciore allo stomaco a milioni di persone, in quello strascico di piacere sull’orlo del baratro esistenziale che è la festa della befana. Una iper-domenica in cui la sigla della Domenica Sportiva, anche se è solo immaginaria come è stato ieri perché ieri era martedì, squarcia i silenzi della nostra consapevolezza che non abbiamo scampo amplificata all’ennesima potenza, a sancire il termine ultimo della proroga per i migliori propositi di tornare al lavoro con la testa, magari unita alla promessa di una dieta o a un fioretto di non bere più birra almeno per un mese. E stamani tutti gli impiegati poi hanno percorso ancora per mano gli ultimi metri prima dell’ingresso delle aziende che li vedono ricoprire le stesse posizioni da almeno dieci anni accompagnandosi a vicenda, come quella gag dei due ubriachi che prima uno accompagna l’amico a casa, poi l’amico però preferisce tornare indietro con il primo verso casa sua per non lasciarlo solo, e l’altro pensa di riaccompagnare ancora l’amico per tenergli compagnia e così ad libitum. Non so dirvi come è finita, ma questa cosa del tenersi per mano tutti al rientro dalle vacanze di Natale anche se non ci si conosce sta dando il via a una vera e propria rivoluzione, da queste parti. Tenetemi aggiornato su quello che sta succedendo nelle vostre città.

primi dolori

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Tesoro, se mai ti capiterà di leggere queste righe sappi che l’amicizia è un fattore forse più imprevedibile dell’amore perché spesso è a fondo perduto mentre se c’è un legame fisico di mezzo subentrano altre modalità di darsi l’un l’altro. Tu non lo puoi sapere, hai solo undici anni, ma le persone si dichiarano amici al prossimo per i motivi più strampalati, anche solo per l’invidia, per calcoli strumentali all’interno di dinamiche di gruppo in una sorta di atteggiamento kamikaze: sacrifico me stesso e mi sistemo al tuo fianco pur ti metterti i bastoni tra le ruote. Non ci crederai ma ci sono pure tipi così e, se te la devo dire tutta, è proprio quello che ti è capitato. Ci sono individui subdoli e dannosi che rilasciano il loro sentimento corrosivo che ti imbriglia in uno stallo dal quale so benissimo che è difficile tirarsi fuori finché il veleno non ha fatto tutto il suo effetto. Come uno psicofarmaco che induce alla sonnolenza ci si sente incapaci alla reazione e ci si lascia andare inerti nel torpore della comodità relazionale. Sono consapevole del fatto che l’entità dei turbamenti ha tutta una sua proporzionalità distorta a seconda dell’età, e quello che a noi adulti sembra alla portata di un preadolescente può essere in grado di approfittare della tua vulnerabilità anche se si tratta di cose su cui, tempo un paio di anni, farai delle grasse risate insieme ai nuovi coetanei con cui trascorrerai il tuo tempo. Quindi piangi pure se hai scoperto che una che si ostina a definirsi tua amica ti ha spiazzato con l’affronto che hai raccontato a tua madre – giusta complicità femminile – e io ne sono venuto a conoscenza solo di rimando, e qui nota pure una punta di stizza ma è temporanea e assolutamente secondaria alla gravità della cosa. Sei piena di amiche, di compagne di classe e di compagne di squadra che ti stimano, ti rispettano e ti vogliono bene. Puoi tranquillamente permetterti di cancellare una persona inutile dalla rubrica di Whatsapp e dalla tua vita, è molto più facile di quanto sembri anche alla tua età.

lo sportello per iscriversi al corso avanzato è questo, vero?

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D’altronde lo sapevamo che non sarebbe stata una passeggiata, o almeno avremmo dovuto prevederlo quando abbiamo scelto di nascere in provincia che sarebbe stato complicato riuscire a soddisfare i nostri appetiti professionali e culturali in un ambiente arido se non sterile di sollecitazioni e di opportunità, e che ci sarebbero state distanze da percorrere per ottenere margini più ampi di manovra, complesse poi da compiere a ritroso per le visite alla componente affettiva abbandonata là, se non impossibili da essere contemplati in un’ipotesi di ritorno di qualunque tipo. Ma ancora prima eravamo consapevoli che decidendo per una specializzazione di qualunque forma a scapito di un livello inferiore ma più alla portata si sarebbe presentata la necessità di doverci allontanare, isolati nelle nostre velleità di salire a un piano più alto in grado di soddisfare una discutibile sete di prospettiva più ampia, allo stesso modo in cui prima di scattare una foto a un monumento qualsiasi si cerca di posizionarsi in modo da evitare il più possibile le brutture davanti che ne intralciano l’integrità. Così anche il campo stesso in cui insistere quando abbiamo dovuto prendere la madre di tutte le decisioni, quella tra le più ricche di conseguenze, e tutto per uno stimolo assolutamente contestuale a una fase di affermazione individuale cieca e tutt’altro che lungimirante, anziché valutare non dico tutti ma almeno due o tre futuri possibili e opportunità alternative. L’opzione stessa di fermarsi un passo prima, c’era comunque ancora qualche buona sistemazione disponibile e ancora qualche conoscenza in grado di darci una mano per intraprendere carriere locali o occupare semplici posizioni senza pretese ma di tutto rispetto, l’abbiamo scartata e lasciata libera per altri. Per non parlare poi delle attitudini e delle passioni. Lo sapevamo che stradine e viuzze parallele secondarie sarebbero state alla lunga faticose da essere percorse sebbene più ricche di suggestioni e spunti di approfondimento, rispetto ai percorsi consigliati delle grandi arterie esistenziali e consigliate da tutte le pubblicazioni ufficiali. Muoversi sempre seguendo guide ancora più di nicchia di quelle Routard per suggerimenti su come accontentarsi il meno possibile circa l’offerta culturale, artistica e umana a disposizione, sapevamo che poteva lasciarci senza fiato alla meta, pur fieri degli scorci da intenditori raggiunti grazie alla nostra curiosità fuori dal comune. Sapevamo infine che il destino più comune per la nostra specie evoluta, quello di accoppiarci e moltiplicarci e riprodurci senza farci troppe domande sul senso della cosa in sé, non sarebbe stato privo di difficoltà per gente come noi che è sempre lì a chiedersi cos’è più o meno opportuno, a cercare ragioni e a confrontare fonti prima di darsi delle risposte, e che il fatto di indicare modi e metodi a persone nel pieno del loro sviluppo, secondo la nostra visione delle cose già di per sé parziale, viziata da dubbi, incongruenze e contraddizioni a trecentosessanta gradi se non di più, se ne esistessero, non sarebbe stato privo di un aumento della gravità di quel peso che ci portiamo appresso, e che probabilmente siamo stati noi a decidere di caricarci sulle spalle in un momento non ben definito e di difficile collocazione in tutta questa sistemazione cronologica degli avvenimenti. Un qualcosa che sono pronto a scommettere che dev’essere accaduto prima, prima di non so quale evento fondamentale e gravido di conseguenze che abbiamo affrontato ma che non sappiamo dirvi né dove né come e né se eravamo tutti insieme lì a raccontarcela su di come sarebbe stato bello e audace fare tutto così, perché se ci ricordassimo probabilmente oggi consiglieremmo senza ombra di dubbio che quel giorno lì, prima di venire al mondo, in cui si deve presentare il project planning delle nostre vite, ecco quel giorno lì ovunque uno si trovi è davvero più opportuno spegnere la sveglia, girarsi sull’altro lato, tirare su la coperta e riaddormentarsi senza indugio alcuno.

vi presento il direttore dei lavori

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Non tutti gli ambienti di lavoro sono come i nostri dove siamo tutti più o meno laureati o diplomati o X, dove X sta per i nuovi cosi triennali che vanno di moda oggi per tenere i figli lontani dalla disoccupazione, un pareggio tra l’illusione di un posto credibile e la consapevolezza che è meglio tirarla alle lunghe per stare sereni. Da noi più o meno siamo tutti educati e al massimo senti smadonnare quando si bomba il pc e non avevi salvato, o qualcuno che manda a cagare il cliente ma solo dopo essersi accertato che la telefonata è definitivamente chiusa, al massimo ci sono tipi un po’ caratteriali che si prendono a brute parole reciprocamente, poi così sono condannati all’ostracismo relazionale e finiscono per assalire di conversazioni compulsive i malcapitati che gli passano nei pressi all’ora di pranzo, con tirate sull’umidità nell’abitacolo della macchina, il bacia mano della Camusso o il pc rubato con dentro il romanzo della vita in fase di chiusura. Voglio dire, provate a incontrare un vecchio compagno delle superiori in un cantiere edile, uno che fa l’ingegnere ma non stona nella babele di lingue dell’est e del nordafrica, in mezzo a ordini e avvertimenti impartiti con grida nel fracasso di gru, betoniere, frese, mazze e trapani in una sorta di esperanto tecnico che un giorno, se si imporrà sulla nostra debole civiltà del terziario e dei social network, darà agli studiosi una visione distorta della nostra società, che sarà interpretata erroneamente come un’era di uomini di tutte le razze mescolati per il bene comune della cementificazione. A vederlo bardato con l’armatura di protezione mi veniva da fermare tutto e raccontare, a quell’underground umano a cottimo, della sua vita di piccole menzogne culminata con il plagio di una canzone altrui (leggi mia) che non sarebbe stato in grado di comporre nemmeno sotto acido lisergico, e solo per farsi bello con il flirt della vacanza in Sardegna. O anche, tempo prima, della smania di tenere l’esercito nazista dei soldatini Atlantic e di considerare la mia idea di una pizzata per tutte le truppe coinvolte nel gioco – indiani, americani, giapponesi, inglesi – poco opportuna tra ambienti così ostili. E con tutto quel baccano a malapena ho capito a cosa ti riferivi (posso darti del tu, vero?) quando mi hai chiesto se avevo concluso poi quella ricerca di scienze, che nel codice di allora significava come era finita la lettura del numero di Playboy con Nastassja Kinski, e solo quella specie di tragedia personale mista alla casualità dell’essere capitata proprio in quell’istante, noi che ci siamo incontrati dopo così tanti anni, mi ha impedito di rilanciare con la tua ossessione per il rapporto causa effetto tra l’auto-erotismo e i voti di Latino e i sensi di colpa per la media che derivava dalla pratica del sesso in autogestione. Non ci vedevamo da una vita e ci siamo visti poco prima di essere avvertiti, lì nel cantiere, della figura sotto un ponteggio che non si capiva se fosse umana o no, come quella volta che passando di fianco al cimitero in campagna di notte avevamo visto due mostri incappucciati che poi erano la nonna e la zia che ci stavano cercando perché era tardissimo. Un’ombra che invece è uno dei tuoi, uno slavo disperato per aver scoperto che la pochette piena di soldi che ha trovato (o rubato, chi lo sa) contiene in realtà banconote fac simile di un celebre gioco da tavolo, e la sua reazione è la stessa di me quando avevo intuito, ma ero davvero un bambino, che la macchina fotografica che avevo costruito con i mattoncini (i Lego dei poveri) non avrebbe mai potuto produrre istantanee come le vere Polaroid.

non me la raccontate giusta

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Inutilmente affaticati, d’altronde nessuno si sognerebbe mai di ammettere che il lavoro può essere annoverato tra i sistemi dell’annullamento individuale alla pari dell’alcol, del colesterolo e delle droghe pesanti, troviamo modalità light per illuderci dell’esistenza di realtà parallele di trasgressione, proprio oggi in cui qualunque novità esercitata compulsivamente alla lunga rompe i maroni e quindi uno stimolo verso un’evasione definitiva dev’essere proprio una roba che ci lascia senza parole. Abbiamo visto tutto, no? La frequentazione estrema con i sodali nei social network, l’accessibilità interdisciplinare dei contenuti in rete e persino la pornografia gratis anche all’ora di pranzo, per dire. Credo sia per questo che comunque ci viene voglia di raccontare i sogni, anche se è un po’ la morte dello storytelling. Una dimensione in cui tutto è possibile e ci condiziona a tal punto da credere alle teorie più assurde. Ho sentito persino dire che chi leggiamo essersi suicidato prima di compiere il gesto desse l’impressione ai parenti più vicini di essere morto già altre volte e di sapere quello che faceva. Io mi sfogavo con cose più banali, per esempio, come scorrere il cursore delle onde medie per captare le voci dall’oltretomba o pensare intensamente che mi asciugassero i brufoli sulla fronte in modo da tornare a scuola con una faccia meno soggetta all’ilarità dei pari. Nulla si verificava, manco a dirlo. Ci sono desideri a raggio più corto e chi ha la mentalità imprenditoriale riesce persino a tirarci su un bel gruzzoletto. Sentite qui: una mia amica vorrebbe mettere su un ristorantino in cui servire solo piatti che si intonano con i colori dei vestiti degli avventori. Mica male, vero? Ti presenti con una camicetta bordò e ti fai servire un risotto al radicchio, il pullover marron per un primo con i funghi o il gulash, io ne vado matto. Arriva il cameriere e mette in tavola persino il pane bianco o di segale a seconda degli abiti che indossi e poi ti consiglia. Un posto in cui i nude look sono vietatissimi, ovviamente. Ma alla fine nessuno ci prova veramente, tutte queste velleità sono post it appiccicati con lo sputo, come si dice dalle mie parti per indicare un qualcosa destinato a cadere nell’oblio con una metafora che fa un po’ schifo. Ci restano convinzioni quotidiane più alla nostra portata, come l’illusione che gli alimenti industriali possano essere conservati fuori dalla loro confezione in contenitori generici alla pari di quelli che preparavano le nonne. Ma quanto cazzo si cucinava un tempo? Eliminare ogni traccia di modernità dalla nostra cucina, uniformando la disposizione dei prodotti acquistati al 30% di sconto per tipologia e non per brand, ci trasporta in una dimensione alla quale non apparteniamo più e in cui la soddisfazione del riciclo preventivo di involucri e packaging appaga la coscienza al massimo fino al successivo ritiro programmato dell’immondizia.

sfida accettata

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Mia madre mi dice che il ragazzo nella foto mi somiglia, o per lo meno ricorda me trentacinque fa con il quadruplo dei capelli e una pettinatura fine anni settanta, e che tutte le volte in cui faceva con mia zia il giro settimanale al cimitero la impressionava pensare che ci potessi essere io là sotto. Ma a quei tempi ero vivo quanto ora, aggiungerei fortunatamente e qualche gesto di scongiuro che voi non potete vedere perché comunque mi immaginate mentre scrivo con due mani sulla tastiera.

E probabilmente si tratta dello stesso periodo in cui avevo indovinato il tragitto che seguiva Maria per raggiungere il capolinea dell’autobus all’uscita da scuola. La stessa Maria che poi ho scoperto che in realtà non era proprio quello il suo nome ma una specie di versione in ebraico che un ignorante come me potrebbe anche scambiare quasi per un anagramma. Comunque io la precedevo intelligentemente per qualche scorciatoia per scoprire se lei, scorgendomi avanti, era interessata a raggiungermi e a percorrere l’ultima parte della strada insieme. Una volta poi è successo, ho sentito qualcuno correre e poi mi è arrivata una pacca sulla schiena con la forza di chi non riesce a tenerla sotto controllo, soprattutto in quella fase della vita in cui le attenzioni alle persone che ci interessano le rivolgiamo anche con modi piuttosto grossolani, perché non abbiamo ancora ben chiaro che cosa significhino l’amore o il sesso. E se non ricordo male quella volta è stata l’unica, lei aveva una giacca gialla e io avevo allungato la strada per tornare a casa con una distanza irragionevole.

Maria non la incontro da quell’anno lì e sono certo che quella sia stata anche l’unica occasione in cui ci siamo trovati così vicini, quindi se anche lei ora vedesse quella foto sulla lapide che impressiona ancora oggi mia mamma forse avrebbe qualche reminiscenza, ma lo dico solo per qualche grado in più di sdolcinatezza perché so benissimo che Maria già aveva poco slancio nei miei confronti allora, figuriamoci nella ricorrenza del giorno dei morti del 2014, il primo anno in cui sono a trovare mio papà dall’altra parte della barricata, avete capito cosa intendo.

Mi soffermo solo ancora su due aspetti degni di nota di questa visita al cimitero. Poco più avanti dalla tomba di mio papà c’è un suo zio morto negli anni 30 che è identico a lui, e anche di questa foto mia mamma commenta la familiarità. D’altronde in quel borgo dell’appennino c’è pieno di gente che ha il mio stesso cognome, veniamo tutti da lì. Un fattore che diverte tantissimo mia figlia,  il cognome è anche il suo e nel posto in cui viviamo costituisce invece una rarità. Si mette a passare in rassegna tutto lo schieramento di defunti provenienti dallo stesso ceppo e la cosa cambia tutta la prospettiva con cui approccio quella visita.

Anche la foto che mia madre ha scelto come ricordo ultimo di mio papà appartiene a un passato che fatico a riconoscere, figuratevi mia figlia che l’ha visto solo negli ultimi undici anni. Probabilmente anche per lui, come per lo zio morto negli anni trenta o per il mio sosia fine anni 70 è stata identificata una fisionomia ideale da attribuire all’anima con lo scopo di riconoscimento per quella che viene definita la vita eterna. Una procedura che poi non è così strana perché funziona anche per i vivi, e se avete una certa età come me non potrete negarlo. Se mi chiedete di mostrarvi l’aspetto di tizio o caio, persone che conosco dai tempi di Maria e della sua giacca gialla, o che magari ho perso per strada perché abitiamo a 300 km di distanza quindi è impossibile frequentarsi con assiduità, se mi chiedete di descriverveli vi disegnerei un ritratto di quello che è il loro momento di massima forma, mica trenta chili in più o senza denti o fiaccati da qualche grave malanno o zoppi a causa di un incidente di lavoro. E lo farei perché questa pratica delle figurine con il ritratto che poi valgono per sempre è una banale e ovvia tecnica di conservazione del sé, egoismo allo stato puro, una feroce foto di gruppo dove ci si tiene tutti stretti quel po’ di vita con cui si vorrebbe restare per sempre.

ogni mondo è palese

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Il solito elenco della minchia delle 10 cose più eccetera eccetera questa volta inizia con un frase tipo starsene sotto le lenzuola al caldo mentre fuori il rumore della pioggia è coperto a tratti dai vicini che chiudono la porta e vanno al lavoro. Ne deduco che tu sia un benestante, o almeno in quell’interstizio in cui uno prende la residenza quando ha vinto una bella somma a qualche lotteria o ha accumulato facili quattrini con attività illecite. Ma è curioso che a nessuno venga in mente che magari si tratta di uno che fa o si è occupato in passato di qualche mestiere redditizio, o ha imbroccato una hit o il format di un programma tv di successo, non si può mai sapere. Mi piace pensare comunque che ti sei trasferito in questo paesino dell’entroterra dove nessuno sceglierebbe di vivere a meno di non essere un impiegato del municipio o per occuparsi di attività come l’insegnante della scuola media in cui probabilmente c’è un’unica classe, considerando a quanto ammonta la popolazione, dicevo che ti sei trasferito qui per una sorta di performance situazionista, sicuramente consentita dall’agiatezza, una rappresentazione del non fare un cazzo se non sopravvivere. Nessuno può trovare un lavoro in questo posto, perché in questo posto non c’è niente, quindi resta il tempo da trascorrere. Il bianco mosso all’unico bar prima di pranzo. L’approvvigionamento nei due o tre negozietti del paese, che in inverno è freddo e deserto mentre in estate qualche centinaio di amanti della vacanza solitaria vivacizza un po’ l’unica via del centro. Restano i pasti principali e il coricarsi la sera. Basta. Uno stile di vita su cui comunque metterei la firma rispetto a quelli che passano settimane a Francoforte, a Shanghai o a Denver per quelle fiere internazionali di settore in cui tutta la tua vita che è fatta di lavoro ma anche di passioni che coltivi a casa – a partire da qualche legame sentimentale con una moglie e dei figli – si deve trapiantare all’estero in posti dove poi ci sono tessere magnetiche di camere d’albergo da riporre in uno degli slot del portafogli dedicato alle carte e asciugamani che non sono quelli che profumano dell’ammorbidente che si usa a casa, nel buio perpetuo artificiale della notte dietro tende così spesse che altrove avrebbero solo la funzione di paramento per lugubri feretri. Per il resto nemmeno una sillaba, nemmeno l’abbaiare dei cani che ti inseguono se provi a farti una passeggiata al buio nelle poche ore libere ha un che di familiare. Subentrano però tutti i malesseri dell’alimentazione provvisoria, quella della trasferta con i condimenti trasgressivi e le verdure di circostanza, un mix che va ad espandersi nello stomaco gonfiato dall’illusorio ristoro dell’alcool amico per un massa in crescita come unico souvenir che poi ci si riporta di ritorno a casa, fino al rientro dall’aeroporto a casa fatto rischiosamente in terza corsia – quella di sinistra – accelerando forte per lasciarsi tutto il più indietro possibile.

due mesi a Natale oggi: ecco cosa cambia nell’edizione 2014

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Oggi che mancano precisamente due mesi a Natale posso anticiparvi che per il primo anno non ci sarà nessuna messinscena dell’arrivo di Babbo Natale. Mia figlia, pur con un anno di anticipo, è in prima media e qualcuno dal dicembre scorso deve essersela cantata. C’era già stata qualche avvisaglia perché nei giorni precedenti l’ultima edizione – lo scorso anno – mia figlia aveva interrotto le domande con le quali già da qualche settimana chiedeva spiegazioni su quell’evento incredibile, anche se credo più per colpa di qualche compagno di classe nostalgico delle beate ingenuità dell’infanzia piuttosto che per mettere in riga alcune incongruenze scientifiche, fisiche e macro-economiche. Come fa un solo uomo a raggiungere tutti i bambini del mondo in una notte? Come fa un mezzo di trasporto tipicamente terrestre a volare? Dove li prende i soldi per tutti quei giochi? E forse proprio nel timore della conferma di una teoria amara in fase di maturazione, la cosa era caduta. Quindi… sopresa! Anche quest’anno ci sono i doni sotto l’albero!

Qualche giorno fa invece ne abbiamo parlato con molta serenità, mi detto di sapere ormai da un po’ che facevamo tutto noi, e la mia paura era che potesse rimproverarci di averle fatto credere a storie che non stanno né in cielo né in terra e di averle fatto provare vergogna con coetanei già smaliziati per aver tirato per le lunghe quella tradizione così infantile. Tutt’altro. Intanto ha apprezzato lo sforzo di aver inseguito ogni anno la sua soddisfazione, andando incontro il più possibile ai suoi desideri, aspetto che inoltre ha influito sul ridimensionamento delle richieste per le feste imminenti. Poi ha riconosciuto la magia di quelle attese e la gioia del risveglio con i pacchi colorati sotto l’albero. Devo ammettere che un tale compiacimento – che davvero non mi aspettavo – ha reso meno doloroso il distacco da quello che ormai era un piacere più per i genitori che per lei. Tenere duro fino a notte fonda, posizionare i regali in un allestimento scenografico, far sparire il bicchiere di latte e i biscotti simulandone l’avvenuto consumo, liberare finalmente i gatti rinchiusi appositamente per evitare il loro contatto con l’offerta votiva alimentare, tornare a letto e lì ripetere ancora una volta una conversazione su quante occasioni ci sarebbero state concesse ancora per assaporare quella gioia senza eguali. Ma è sempre così, lo sapete. Anche se si può prevedere, è difficile sapere quando una volta è proprio l’ultima, senza occasione di ritorno.