ancora un post sulla strage di Bologna

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Quelli non proprio ricchi, quelli che hanno una casa per le vacanze ma solo perché è la vecchia casa in campagna dei bisnonni, dove ci finisce tutto ciò che nella casa di città non trova più posto. Le cose vecchie, magari rotte e poi aggiustate. I doppioni e le seconde scelte, adatte per la seconda casa. A meno di non avere risorse tali da potersi permettere la massima qualità e il comfort ovunque, e c’è gente che può farlo. Ci si trovano quindi vestiti, lenzuola e coperte, stoviglie, mobili e mobiletti, elettrodomestici che, pur trasferendo un legittimo senso di provvisorietà, finiscono per arredare in modo definitivo i locali in cui si trascorre qualche settimana all’anno o poco di più. Si tratta di cose che con il tempo si impregnano dell’odore di quegli ambienti paralleli alle nostre vite, e se provate a promuovere alla massima divisione questi oggetti di serie B difficilmente lo perderanno, anche in senso lato. Una volta avevo portato in città la mia bicicletta che, per motivi di sicurezza stradale, utilizzavo solo in campagna, ma è successo una volta sola. Sembrava fuori dal suo ambiente, costretta a percorrere asfalto urbano anziché terra battuta mista a pavimentazione rurale. Poi un teppistello mi aveva pure fregato lo specchietto retrovisore, e a dirla tutta non mi trovavo nemmeno così a mio agio nel traffico con quel mezzo a due ruote pensato per il fuoristrada. Ma il caso più eclatante di beni di risulta che di certo non miglioravano l’esperienza di villeggiatura era la tv. La tv della seconda casa, la tv di riserva, era una Magnadyne portatile arancione che oggi fa la sua bella figura con il suo design anni 70 a casa mia, e se non fosse per colpa del digitale terrestre funzionerebbe ancora. Su quel televisore in bianco e nero e a 4 programmi ho assistito a tutti i principali eventi estivi della mia infanzia, a partire dalle olimpiadi e i mondiali di calcio anche se l’estate per me era principalmente all’aria aperta, e a parte qualche appuntamento obbligatorio con cartoni e telefilm trasmessi all’ora di cena la sfruttavo solo nei giorni di pioggia. E da quella scatola arancione sono passate anche le notizie di cronaca, che a cavallo tra i 70 e gli 80 non erano mai piacevoli. Nemmeno in estate c’era un po’ di tregua.

cronache del 32 luglio

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Siamo nella stagione dei saldi più profondi, 50 e 70 per cento e fuori tutto, anche la merce da riproporre ogni anno che non si sa mai. Una madre molto giovane accompagna la sua bimba in un pomeriggio di shopping nell’alternanza tra il caldo torrido fuori e l’aria surgelata dei grandi marchi della moda usa e getta. È la più piccola a esprimere pareri su quello che vorrebbe indossare e ciò che non le piace tra i numerosi capi confezionati da suoi coetanei in un altro emisfero e per ora rimasti invenduti nell’occidente del mondo. La figlia sceglie i vestiti e imitando un modello appreso in parallelo con gli adulti della sua famiglia da ore e ore di esposizione televisiva, estrae l’abbigliamento succinto ancora sugli appendiabiti e lo sovrappone al suo corpo esile chiedendo alla sua versione maxi un parere. La madre, prima di giudicare, getta intelligentemente uno sguardo al prezzo. In alcuni casi dice che è carinissimo, in altri casi, se la convenienza non è sufficiente, cerca di distrarre la bambina offrendole alternative che non sortiranno alcun effetto, vista la determinazione maturata in stagioni di acquisti al ritmo della techno.

Ma di lì a poco c’è ben altro di cui occuparsi. Un ragazzo si lascia cadere sul divanetto e inizia a contorcersi nell’inequivocabile gesto di chi accusa dolori alla pancia, piegandosi in avanti con le mani giunte sul ventre. La giovane fidanzata ripone gli stracci che stava per provare e si siede al suo fianco, accarezzandogli la pettinatura molto di moda e facendo attenzione a non schiacciare il suo borsello di un noto brand Made in Italy. I due attirano l’attenzione dei commessi loro coetanei la cui preparazione professionale non contempla i fondamentali del pronto soccorso e di come ci si comporta con clienti in quel genere di difficoltà. La più intraprendente suggerisce al giovane di andare in bagno, la causa potrebbe essere l’aria condizionata dopo mangiato. Il colore del volto, sarà l’impressione, ma vira verso una tonalità anomala per la stagione in corso.

Qualcuno chiama il responsabile che accorre a decise falcate accompagnato dall’addetto alla sicurezza africano, a cui viene chiesto di tenere d’occhio che nella situazione di emergenza le normali attività commerciali seguano il loro corso. Forse hai mangiato troppa della mia torta, gli va chiedendo nel frattempo la fidanzata che ha ricevuto una salvietta da una commessa per tamponargli il sudore sulla fronte. Qualcuno propone di chiamare un’ambulanza, meglio non sottovalutare la portata del disturbo che sembra intensificarsi.

La madre e la figlia, appurato che la situazione non sembra essere poi così spettacolare, un banale mal di pancia, approfittano del momentaneo diversivo e si dirigono ai camerini con le braccia colme di abiti da teenager.

Gli ho fatto una torta per il suo compleanno, racconta intanto la fidanzata del ragazzo – che sembra stare sempre peggio – alla responsabile, gli ho detto di non mangiarne troppa perché non sapevo come fosse venuta, non sono molto brava a cucinare ma lui l’ha divorata lo stesso, sembrava che gli piacesse. La gente intorno si lascia scappare qualche commento, deve amarla davvero per aver ingurgitato tutte quelle schifezze, dice uno. Un altro, molto cinico, si chiede se avrà voluto avvelenarlo.

Di lì a poco si profila il finale di quel siparietto da letteratura da ombrellone. Due volontari fanno il loro ingresso di gran carriera con una lettiga su cui caricano il giovane che esce nel solleone per essere condotto al pronto soccorso a sirene spiegate. Dentro al grande negozio la situazione torna alla normalità, madre e figlia si avvicinano alle casse, della montagna di abiti provati alla fine ne andavano bene solo un paio e la bimba sembra essere tutt’altro che soddisfatta.

ti faremo sapere

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Ieri a un colloquio qui in agenzia si è presentato un ragazzo che conoscevo e frequentavo saltuariamente almeno vent’anni fa, ora uomo adulto e poco più giovane di me. Il caso ha voluto che ci fossi io dall’altra parte del tavolo insieme a una collega (più in virtù del fatto che sono tutti in ferie che alla mia seniority), e che ci fosse lui di fronte. Non mi ha riconosciuto, però. Vuoi il tempo, vuoi la barba, vuoi il fatto che concentrarsi troppo su sé stessi – cosa che non biasimo se non nelle conseguenze – impedisce di fare propri molti dei dettagli esterni e quando tra i dettagli trascurabili e trascurati dal prossimo ci siamo noi, un po’ la nostra autostima ne risente. E non è un problema di personalità che impressiona o no la pellicola sentimentale altrui. Sono convinto che catturare l’attenzione dipenda solo in parte dal soggetto, mentre subentri spesso la sensibilità dell’oggetto.

Era da qualche giorno che mi rigiravo in mano il suo curriculum e il nome e la foto, oltre alla città di nascita, mi sembravano famigliari. Così quando me lo sono trovato davanti e lui, senza capire chi fossi, è partito con la presentazione standard in ordine cronologico dal liceo all’altro ieri, ho lentamente riordinato tutti i collegamenti e ricostruito una mappatura di esperienze davvero remote perché provate con un corpo e una mente così differenti da quelli che ho in dotazione ora. Lui e i suoi amici artistoidi tiratardi mantenuti e quel modo di vedere il futuro che si è palesato come presente davanti a me, scorrendo la lista delle sue esperienze professionali e raccontate in diretta con un po’ di incespicamenti, il tutto a decretare un fallimento umano se confrontato con il manifesto artistico di allora fatto di provocazioni del calibro di “se non ho successo mi sveno” per uno statuto di norme più che altro estetiche che si vede che con il tempo è stato soggetto a cambiamenti, vista la sua presenza in carne, ossa e liquidi venosi e arteriosi a un metro da me, tutt’altro che avvolto dall’aura della fama. Anzi, messo piuttosto malino.

E io che invece mi ricordo tutto e nei minimi particolari – cose minuscole come la compagna di corso che avvalendosi delle sue canottiere striminzite mi ha estorto il libro di Storia Medievale per dare un esame senza mai restituirmelo o la quantità di mix dei Depeche Mode che una mia ex ha tenuto immeritatamente per sé al momento della separazione dei beni a conclusione del nostro rapporto, quindi fate attenzione a come vi comportate nei miei confronti – sono stato tentato di svelare la mia identità. E lo avrei fatto se man mano che la sua inadeguatezza al profilo qui ricercato, che si andava confermando parola dopo parola, sguardo dopo sguardo, non avesse reso uno spostamento del piano relazionale su un livello più profondo molto pericoloso. Non volevo introdurre elementi tali da rendere poi difficile l’ammissione dell’incompatibilità che si stava profilando. D’altronde sono fatto così, mi sobbarco il lato umano quando invece è importante non lasciarsi coinvolgere. Per esempio poco prima si era presentato un ragazzone che ha dovuto abbandonare gli studi al Politecnico al primo anno per motivi economici e diceva di essere pronto ad accettare qualunque cosa. Se dipendesse da me l’avrei preso subito perché mi ha fatto tenerezza, ma non è così che si conduce un’azienda, non sta a me dispensare ammortizzatori sociali.

E a fatica ce l’ho fatta: sono giunto indenne al “grazie ti avviseremo anche in caso negativo” senza svelare la mia identità, tutti noi presenti a quell’incontro eravamo consapevoli che nulla era andato bene e che non ci saremo rivisti mai più. Così ho pensato a come si è prima, come si diventa dopo, come si cresce durante. E pur avendo dimostrato che è possibile mettere a tacere questa parte di noi solo perché si sta lavorando e si indossa un abito temporaneo professionale, ho pensato che no, l’addetto alle risorse umane non è proprio un mestiere che fa per me.

jaz dove sei?

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“Jaz Coleman, frontman of British post-punk act Killing Joke, is allegedly missing, the Quietus reports. According to posts on the band’s Facebook page, the band pulled out of a tour with the Cult and the Mission, and now other members of the group say Coleman’s whereabouts are unknown.” (via)

città aperta, orario estivo

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Ci si può amare anche se si è poveri, un po’ meno se si è soli. In generale l’essere in due e almeno non proprio entrambi spiantati aiuta, ma pretendere una visura camerale o una dichiarazione dei redditi in fase conoscitiva uccide la passione. Chi si vuole bene e ha le possibilità in questo momento è su una spiaggia della Sardegna o di ritorno da una camminata sulle Dolomiti, è vero ma fino a un certo punto. Così se li vedete per mano in un parchetto di periferia, all’ombra di un gelso che lenisce solo in piccolissima parte l’affanno della canicola, sappiate che ho appena colto uno stralcio della loro conversazione in un italiano usato come campo neutro di confronto, e mi è sembrato proprio di sentir proferire parole d’amore. Entrambi in pausa da un lavoro che nessuno di noi accetterebbe mai di fare, le ore centrali della giornata, quelle più calde, sono il massimo che si possono concedere. Eppure lui osserva compiaciuto il corpo di lei quando lei non vede, lei racconta qualcosa e riesce anche a farlo ridere. Questa è la loro estate perché è la prima che trascorrono insieme, a piccoli sorsi, giorno dopo giorno. Poi raggiungono la fermata del tram, quella con i rivenditori di fiori cingalesi che attendono imperturbabili il primo cliente quotidiano. Due baci sulla guancia che a malapena di sfiorano, forse sussistono implicite barriere etnico-religiose e non possono ancora toccarsi, se non fosse per la globalizzazione del mercato del lavoro provenendo da stati così distanti le probabilità di incontrarsi sarebbero state nulle. Lei sale mostrando il biglietto anche se non è necessario e lui aspetta che il tram riparta. E mi viene in mente la figlia di una signora ucraina che conosco, che da laggiù è emigrata in Svezia, si è diplomata infermiera, ha conosciuto un ragazzo egiziano e si è sposata e non vorrei sbagliarmi ma sono tutti cittadini svedesi ora, e non solo i figli che hanno avuto. Qui c’è il tram giallo, c’è Milano, ci sono quaranta gradi, c’è la miseria, ma il dopoguerra dovrebbe essere finito già da un pezzo.

questione di packaging

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No ma la tweet-querelle tra Courtney Love e Lana Del Rey circa il contenitore ispiratore di “Heart-shaped box” dei Nirvana me l’ero persa, ed è piuttosto esilarante.

io vi tratto pen

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Sulla mia scrivania, qui in ufficio, c’è un portapenne che è in mio possesso da quando frequentavo le scuole medie. Si tratta di un cilindro in plastica bianco dal valore unicamente affettivo e simbolico perché è un gadget di una vecchia campagna pubblicitaria del Tratto Pen, che ad oggi rimane indiscutibilmente il mio strumento di scrittura preferito, soprattutto a inchiostro blu. Il claim, che i meno giovani come me ricorderanno, dice “Io mi tratto pen”, e l’oggetto faceva la coppia con un secondo portapenne della stessa serie, questo sì di valore perché aveva come testimonial addirittura Giulio Andreotti, pensate un po’. Ma l’ultimo trasloco di ufficio, il passaggio dalla precedente agenzia a questa avvenuto ormai dieci anni fa, gli è stato fatale. Lo stavo per dimenticare sulla scrivania fuori dallo scatolone contenente i miei effetti, come succede nei film americani, solo che io ne avevo riempito uno a malapena, e quando me ne accorsi a contenitore sigillato lo misi nella borsa. Quella stessa sera andai a cena in un ristorante eritreo nel più profondo del centro storico di Genova con la persona che da lì a poco sarebbe diventata mia moglie e madre di mia figlia. Ricordo che estrassi con orgoglio quel pezzo di modernariato per mostrare a lei una parte della preziosa dote con cui avrei potuto arricchire la nostra futura famiglia – dote comprendente anche uno spremiagrumi Atlantic cromato comprensivo di confezione originale e di Boomer, una testa di supereroe blu somigliante a Buzz Lightyear in plastica che un tempo conteneva caramelle in una drogheria di provincia, oltre ad altre varie cianfrusaglie da bancarella di rigattiere che col tempo mia moglie mi ha convinto della loro inutilità – e poi destino volle che, vuoi il vino scadente che un commerciante musulmano può venderti o vuoi l’oblio dell’amore profuso quella sera, il portapenne con l’effigie del grande vecchio di sessant’anni di politica italiana rimase lì e fu immeritatamente gettato via da uno zelante cameriere. Se non erro, come strascico della mia sete di vendetta, lo stesso esercizio chiuse pochi mesi dopo, forse le mie maledizioni o forse i primi effetti della crisi economica, chissà.

Per fortuna avevo un portapenne di riserva proveniente della stessa campagna, a casa, riportante la stessa frase pubblicitaria anche se, senza Andreotti, di minor impatto e a più blando effetto commerciale. Li avevo entrambi ricevuti da mio padre, un contabile di un’impresa nei confronti della quale di sicuro il fornitore di cancelleria non lesinava in oggettistica omaggio. Anche se non è più la prima scelta, per così dire, tuttavia quello che mi è rimasto fa la sua figura. E poco fa, notando l’originalità del pezzo e confermandogli la mia inveterata stima, mi sono accorto che in realtà non contiene nemmeno una penna o una matita. Forse per rispetto, non so, ma ho l’abitudine di riporle tutte nell’altro, il più appropriato contenitore in dotazione ufficiale alla mia postazione e dello stesso colore della scrivania, a cui con l’intento di sfregio – lo stesso che condanno nei writer urbani – ho appiccicato un bollino proveniente da una mela della Val Venosta.

Il portapenne “io mi tratto pen” è pieno zeppo di biglietti da visita, carte di identità aziendali altisonanti quanto effimere. Basta esercitare un po’ di forza con le dita e si piegano, basta commettere un errore di troppo e si è fuori dal gioco e quel tagliandino di cartone rigido non ha più nessun valore. Io poi, che sono uno di quelli che se non mi controllo accumulo di tutto e devo stare attento perché come dice mia moglie divento come mio padre, anche sul lavoro ho la tendenza a conservare ogni cosa. E mi sono accorto che in quel portapenne c’è un decennio di persone incontrate, aziende con cui sono entrato in contatto, professionisti che ho intervistato, magari gente che non lavora più lì. Un po’ come certa valuta fuori corso, banconote equiparabili alla carta straccia e, nel mio caso, nemmeno utili da un punto di vista collezionistico. Dovrei fare un po’ di pulizia, approfittando di questi giorni di calma piatta pre-esodo. Ma poi li scorro uno via l’altro e mi scatta quel senso di rispetto per il lavoro altrui, vite trascorse a rappresentare interessi di terzi e, chissà, nemmeno per puro spirito mercenario. Quanti di questi manager dalle cariche roboanti sono già altrove. Sarà subentrata una morte professionale improvvisa, si sarà trattato di un suicidio per passare a miglior carriera, o la persona avrà attraversato una lunga agonia tra tagli, accorpamenti e acquisizioni prima di decretare la parola fine. Nomi conosciuti, altri di cui non ricordo assolutamente nulla, nemmeno l’occasione in cui si è consumato il rito dello scambio del biglietto. Basterebbe un gesto a rovesciare il contenuto di quel gadget che mi segue da trent’anni nel cestino della carta, ma quando sto per farlo – e non è la prima volta – ho come l’impressione di cogliere un richiamo. Lasciaci vivere del nostro lavoro almeno qui, almeno per un altro po’, almeno per la tua memoria. Lo spazio che occupiamo è poco, appena un recipiente che, comunque, non utilizzeresti nemmeno.

abbiamo scherzato

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Un concerto degli Offlaga Disco Pax in una sede pregna di valori come il Carroponte in una località altrettanto significativa che è Sesto San Giovanni il 28 luglio, cinque euro per il biglietto, un temporale estivo all’orizzonte con i lampi che sembrano effetto di un light designer ma poi si spostano grazie al vento. Il pubblico è quello degli Offlaga Disco Pax in una sede pregna di valori come il Carroponte eccetera eccetera, cioè basterebbe solo questo a descriverne la portata emotiva. Alcuni che si lanciano addirittura nella danza delle rarissime occasioni ritmate, i più si rincorrono a voce con i passaggi più memorabili dei racconti musicati del gruppo proprio come fosse un vero concerto rock, la parola detta scagliando il braccio verso il palco come ad accusare gli Offlaga Disco Pax di essere la causa del disagio e non i portavoce. Sul palco e sotto una generazione, quelli che hanno fatto l’esame di seconda elementare nel 1975 come chi sta scrivendo qui, che è protagonista e almeno lasciatecela, questa soddisfazione, quella di essere i primi senza futuro e a dover pagare tutto. Perché è proprio così. Hanno creato tutto un sistema educativo tale da assicurarci che c’era un insieme di cose che nessuno avrebbe dovuto mai più riconquistare, a partire da noi e per i giorni a venire. Così per una sera abbiamo fatto finta che ricordarci quello che non ci è stato mantenuto poteva essere anche divertente, con Max Collini che mette al corrente il suo pubblico delle sue angosce, che poi gliele condividiamo in pieno. La famiglia, la scuola, il partito, la società, gli amici, la musica. Ma non c’è un cazzo da ridere. Ci siamo svegliati tardi, oggi, perché ieri sera il concerto è finito a mezzanotte. Ci siamo alzati e ci siamo ricordati delle Olimpiadi. Ma le Olimpiadi non le trasmettono sulla tv pubblica. Bisogna pagare. Per seguire la più popolare manifestazione sportiva e godere dei significati che le sono propri – lo sport come bene gratuito per il corpo, per la mente, per il carattere individuale e per la comunità – bisogna pagare. La RAI ha poche ore, tutto il resto accade in differita come le cose che vediamo nei programmi di storia che sono già successe. Ci hanno detto che c’erano dei beni che potevamo dare per scontato, che ci erano stati regalati. Ma poi, chissà perché, se li sono ripresi indietro.

dov’è la vittoria

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Il conto alla rovescia è agli sgoccioli. Cinque, quattro, tre, due, uno, via! Iniziano ufficialmente le olimpiadi di Roma 2012. Il regista Gabriele Muccino ha allestito una cerimonia che a detta di tutti sarà indimenticabile. Lo spettacolo ha inizio con un montaggio video mozzafiato, riprese accelerate di un viaggio allegorico che nasce con le sorgenti del fiume Tevere che i commentatori televisivi nemmeno sanno dove sono ma tanto a nessuno interessa, la geografia quasi nemmeno si fa più a scuola. La telecamera corre veloce lungo gli argini ricchi di discariche abusive e di accampamenti di nomadi, in alcuni punti ci sembra che si immerga addirittura sott’acqua e lì non si vede nulla se non qualche pantegana. Lungo il percorso si intravedono alcuni simboli del made in Italy nel mondo, il logo di Dolce&Gabbana e l’inconfondibile marchio della comunità massonica. Un passaggio sotto a un ponte ci rivela un’opera d’arte raffigurante i cinque cerchi olimpici composti da lucchetti, chiusi gli uni dentro gli altri. Prima di giungere a destinazione nello Stadio Olimpico in cui decine di migliaia di esponenti del mondo della politica, dei sindacati e delle istituzioni hanno avuto un posto omaggio per assistere all’inaugurazione, la telecamera si sofferma a Castel Gandolfo, dove Papa Benedetto XVI concede la sua benedizione affinché le gare possano compiersi secondo i valori di Santa Romana Ecclesia. Vinca chi ci crede di più, insomma.

Ma eccoci nel vivo dello spettacolo. Il regista, ricordiamo che si tratta di uno dei massimi esponenti del cinema italiano contemporaneo, ha cercato di sintetizzare nel poco tempo a disposizione l’orgoglio nazionale attraverso tutte le nostre principali eccellenze. Il latifondismo, la camorra, il fascismo (superlativa la metafora della fiamma tricolore/fiamma olimpica sempre accesa), la corruzione, le stragi di stato, l’evasione fiscale, e i casi delle più recenti personalità assurte a modello di italianità come Berlusconi e Grillo, si succedono rappresentati in gag e balletti interpretati dai nostri principali esponenti dello spettacolo, gente del calibro di Panariello, Carlo Conti, Paolo Bonolis, Ezio Greggio, le veline di Striscia la Notizia, il Gabibbo, le Iene. Ed ecco un momento di grande commozione: si celebra il sistema sanitario nazionale proprio nei giorni in cui è stato messo a segno un colpo significativo alla lotta contro l’errore medico.

Ma non è tutto. Muccino ha voluto anche sottolineare l’enorme considerazione in cui il nostro Paese tiene i nostri giovani dedicando un capitolo della cerimonia alla musica giovane, che ha fatto dell’Italia un leader dei trend da seguire in tutto il mondo. Grazie all’escamotage di uno dei telefilm più seguiti dai teenager, Don Matteo, ecco il meglio di quarant’anni di It-Pop: dagli anni ’60 di Celentano e Morandi agli anni ’70, di Celentano e Morandi, fino agli anni ’80 e i ’90 di Morandi e Celentano, fino all’ultimo ventennio, dominato da un revival di Morandi e Celentano e alle recentissime apparizioni televisive di Celentano e Morandi, oramai tornati di moda. E la musica italiana è ancora protagonista mentre i rappresentanti di tutte le nazioni e di tutte le discipline olimpiche fanno il loro ingresso nello stadio, al ritmo dei nostri interpreti rock che il mondo ci invidia di più, a partire da Bocelli, Pavarotti, Gigi D’Alessio, Dolcenera e Laura Pausini. Gli spalti, non omologati per accogliere un numero così imponente di spettatori in tripudio, esultano al passaggio della nazionale italiana, il cui vessillo è portato da una gruppo di calciatori scelti tra gli esempi meno attendibili di comportamento lecito e coinvolti nello scandalo delle scommesse. E sulle note di “O sole mio”, interpretata da uno dei tanti cantanti vincitori di Amici, la cerimonia volge al termine. Da domani sarà già tempo di medaglie d’oro, di agonismo, di voglia di emergere, di guidare l’Europa e il mondo intero.

i più comuni segni della sofferenza

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Sono certo che non sarebbe la stessa cosa se io mi sedessi vicino a te e con invidiabile quanto ostentata indifferenza mi cambiassi come stai facendo tu ora le scarpe, qui sul treno del ritorno. Intanto perché indosso un paio di clarks numero 45, piuttosto borderline nei mesi estivi ma mica per altro le chiamano desert boot, ed è per questo che le metto e anzi tutto sommato sono le meno peggio. Poi c’è l’annoso dubbio dei calzini: saranno a posto o avranno qualche – diciamo – imperfezione? E quindi come essere sicuri che con il caldo la pelle costretta al chiuso non si sia ribellata spandendo fuori il peggio di sé? Senza contare che a quel punto i più curiosi, come me, noterebbero la forma poco standard dei miei piedi, di sicuro non sono il mio forte. Subentrerebbe quindi il problema dello scambio di calzature, perché intanto dovrei avere con me una borsa sufficientemente capiente da garantirne la portabilità. E poi, soprattutto, quale potrebbe essere l’alternativa? Le snickers da mezza stagione? I sandali che non sono proprio il massimo per andare in ufficio? No, gli uomini certe comodità se le possono proprio scordare. Basta solo seguire la perizia e la velocità con cui sbrighi la pratica: via i laccetti, sfili la destra con tacco alto perché ormai la riunione di lavoro è terminata con una mano, mentre con l’altra estrai dalla borsa l’infradito corrispondente al piede libero, quindi esegui la seconda parte dell’operazione con la sinistra e il cambio è eseguito con successo. Un paio di sandali 35 stanno ovunque, niente calzini quindi nessun rischio buchi, pelle inodore perché la calzatura è aperta, ampia varietà di modelli per la stagione, anche da asporto e take away. Così una volta raggiunto il completo relax con la pianta a livello del suolo puoi goderti la tua lettura, un libro di Pasolini di cui non riesco a cogliere il titolo vista l’inclinazione del dorso, e mentre in fretta torno sulle mie pagine – molto meno impegnate delle tue – non posso non notare un piccolo rilievo proprio sotto l’occhio, che da qui sembra una lacrima perenne.